Ormai quasi un anno fa, per via del primo lockdown, trascorsi la Quaresima da solo, chiuso in un piccolo monolocale. Decisi dunque di dare un senso alla situazione che mi trovavo a vivere interpretandola come un periodo di “ritiro nel deserto”; di studio, e soprattutto di raccoglimento.
Ben presto, però, dovetti rinunciare a questo proposito (si trattava in fondo ancora di un progetto in buona parte egoico, dettato dalla convinzione di dovermi conformare a una certa immagine di me stesso, più spirituale e concentrata nello studio e nel pensiero, in maniera alla fine violenta, perfezionista e ambiziosa); mi ritrovai infatti in uno stato mentale sempre più precario, finché non fui costretto ad affrontare una crisi psichica piuttosto seria, che mi obbligò innanzitutto ad abbandonare ogni pretesa.
Il deserto, si sa, è un luogo di miraggi, di pericoli e tentazioni. Non si può andare nel deserto con un progetto, né con una qualche fiducia ingenua nella propria capacità di sopravvivere; bisogna per prima cosa essere disposti (o infine costretti) a lasciarsi guidare, affidarsi.
Gesù viene condotto nel deserto dallo Spirito; noi, oggi, in un certo senso ci siamo nati. E pertanto non possiamo più esimerci dalla scelta tra le due uniche alternative che il deserto offre: un’esistenza in dormiveglia dissipata nel miraggio, o il confronto con la sfida decisiva che da sempre ci attende.
Da questo momento particolare dello scorso anno, venne fuori la prosa che segue.
1.
Per quaranta giorni di quarantena resta nel deserto.
Per prima cosa, lascia che la fede ti raccolga. Falla carnificare, ossificare, fa’ che ti insuffli, con tutto il corpo, dentro un altro ritmo più ampio fino al profilo delle dune. Lascia che ti conduca dove la luce è luce e il buio è buio.
Per quaranta giorni di quarantena non decidere niente, non berti le tue storie: desertìficati.
Hai bisogno di perdere tutto (quanto ti tieni stretto). Devi ridurti al durame, come prosciugato e rappreso intorno alla speranza del midollo; conciso, inciso nella roccia.
2.
Ma io provengo, già di mio, dal deserto postatomico di una periferia; dal coma delle ore piccole come cancri che incedono, come i pori paludosi dell’asfalto per le strade percorse. La necrosi del paesaggio negli esodi notturni, autopsie — da solo per le strade rincorse, le strade percosse e vagate fino all’ultimo.
Vengo da un deserto: so cosa mi aspetta. Sul serio, so bene cosa sia, tutto questo, e quanti pericoli, e quanto poco senso. Conosco il tuo volto afasico, e il mio, disperato.
Me ne starò zitto allora, zitto e buono nell’angolo, come un povero scemo, come quello che sono. Me ne vado; starò fuori, lontano, via. Me la cavo, mi basta un po’ di tempo, della sana solitudine, e riflettere, e capire. Non c’è nessuno per me, lo so.
No, e sono sempre stato distante ed estraneo, non posso. Basta, con questo dolore, che cazzo ti devo dire, non sono nato per sopportarlo né per accettarlo. Mi rifiuto, mi rialzo, sono forte. Forse non è abbastanza. Ma non mi serve niente, o mi basta un po’ di tempo, del riposo.
Vedi, questa storia è andata storta ormai, è andata stronza. Rimango ancora un attimo qua dietro, così, in disparte, poi risorgo… mi fa bene. Solo un attimo, è che adesso c’è un ritardo nella sistole, il buco è nel mezzo, il buio è terminale. Ancora poco e poi risorgo, poi mi spiego, e trovo un senso a tutti questi pomeriggi incrostati sopra il cielo, a questo sonno: lo vomito fuori, mi reinvento. Faccio quadrare tutto…
Non c’è riparo qui, dove la luce è luce e il buio è buio. È un assedio costante, legioni di pensieri radioattivi, ossessioni. Una metastasi di paranoie.
Forse voglio davvero morire. Forse è così che dovevo finire, è da questo punto, da sempre, che ho preso e ripreso a finirmi.
Non lo so più. Ti domando aiuto.
3.
Ho paura.
E di continuo dimentico, striscio: mi gioco tutto al ribasso. Come se tu, in me, non fossi già rinato inspiegabile; come se io, in te, non fossi già saltato in aria.
Come se non mi avessi salvato e riscrosciato aria. E io fossi da solo e impotente, a vorticarmi addosso, a urtare a destra e a sinistra per forza d’inerzia, di giorno in giorno, a smussare e attutire e nient’altro. Come fossi esattamente ciò che sono.
Ho paura di morirti dietro, nell’angolo cieco. O magari tra le braccia, dopo un’ultima parola bocca a bocca, dopo un’ultima domanda respirata. Ho paura che tu taccia, se ti chiamo, se mi apro, se mi srotolo le forme, se mi sporgo e se ti porgo la mia carne dissepolta — che si ustiona all’aperto dell’aria, che rabbrividisce come stimma vergine, illividisce da un destino all’altro, in un attimo.
Non sono capace di scegliere, né tantomeno di credere; voglio solamente sopravvivere, in tutta la mia invadenza. Mi aggrappo al davanzale, non so lasciare cadere nulla. Ma sono finito, andato, pericolante; un deserto di vetro, un server intasato. Sono avaro come un cadavere.
Davvero non posso oltre, da solo: adesso ho bisogno di lasciarmi stormire.
4.
Veglia davanti al ventre, alla caverna utero. Dove è più nero del buio e del morto, perfino in questo deserto, e umido.
La madre rimescola i doni dei corpi defunti nella foresta. Tutto fa ritorno; ogni cosa ritorna al suo posto. Tutto fa giorno, a un certo punto.
Chi e dove? quando?
Involarmi in una musica, un espiro; sfogliarmi uccello del cielo, leggero che non si può fermare, che esiste solamente per vibrare, acconsentire. Radicarmi lombrico terreno, che palpita la pazienza della terra, che esiste solamente per guarire e per miracolare una rinascita.
Non essere niente di niente, non essere nulla di che. Qualunque, chiunque, ovunque, tutto. Non-ora, non-qui: restando.
Ecco, mi siedo, e setaccio questo dolore, e separo il lampo dal rumore, le parole nuove. È vita, questa polvere: spore.
Se taccio è per mancare, da qui, da questo monolocale di prigione, da me stesso.
Dal sepolcro vuoto.
La natura della luce
Tanto l’amore nasce come un tramonto
– diceva – Un raggio di luce rossa ferisce per un solo istante la siepe odorosa di gelsomini. E tutto trasluce, quieto, nel vespro, nella naturale mancanza di senso.
Ma quello squarcio di luce era un seme, ora lo sente. Cresciuto lungo la notte nel suo riposo e ora ti pensa ogni momento di più e si stupisce e si scopre abbandonata a questo amore mai considerato.
Tratto da: https://gpcentofanti.altervista.org/la-vera-solidarieta/
Ho sbagliato link senza avvedermene. Ecco quello che intendevo postare: https://gpcentofanti.altervista.org/piccolo-magnificat-un-canto-di-tanti-canti/
Grazie Valerio, hai espresso bene, in prosa e in poesia, quello che accade da sempre e a tutti.
Mi è capitato di leggere queste indicazioni che San Benedetto ha scritto 15 secoli fa.
“E’ noto che ci sono quattro categorie di monaci.
La prima è quella dei cenobiti, che vivono in un monastero, militando sotto una regola e un abate.
La seconda è quella degli anacoreti o eremiti, ossia di coloro che non sono mossi dall’entusiastico fervore dei principianti, ma sono stati lungamente provati nel monastero, dove con l’aiuto di molti hanno imparato a respingere le insidie del demonio; quindi, essendosi bene addestrati tra le file dei fratelli al solitario combattimento dell’eremo, sono ormai capaci, con l’aiuto di Dio, di affrontare senza il sostegno altrui la lotta corpo a corpo contro le concupiscenze e le passioni.”
Un caro saluto
Caro Valerio,
il tuo testo ha la forza della poesia e della confessione, insieme. La scelta delle parole è precisa, saporita e gustosa. Vedo nel tuo “malessere” descritto così bene perché ben guardato (amorevolmente), lo stesso mio e in questa ampiezza sapiente di parole petrose, essenziali, infine mi riposo. Capisco questo, leggendoti, che se non stiamo nel deserto, se non ci stiamo un poco almeno, se non ce lo permettiamo, giusto quel poco, quel poco appena, non arriviamo a questo riposo, a questo sorriso.
Un abbraccio.
Le tue parole hanno un sapore deciso e una forza dirompente, Valerio.
“Non si può andare nel deserto con un progetto….” Quanto mi RI-suona questa frase ! Ogni nostra pre-ordinanzione mentale, ogni nostro proposito che risulta come adeguamento ad un concetto, non vale l’ opera paziente di rilascio delle nostre resistenze. Dovremo veramente passare attraverso una lenta macerazione, farci erodere e sbriciolare tutti i nostri “spigoli” in un lento processo di 40 minuti, 40 ore, 40 giorni, per poter poi veramente rinascere.
Dentro quel vuoto, dentro quel silenzio assordante trovare la risposta come un’eco al nostro grido di aiuto.
Grazie per le tue parole vive che dentro questa Quaresima accendono già in me la scintilla della Pasqua.
Caro Valerio, leggendo il tuo scritto dipingevo forme e colori che mi hanno attraversata in quel periodo e mi attraversano ancora, fanno parte di noi; belle e struggenti le tue parole, mi hanno ispirato un dipinto ?, questo è per me riconoscere e trasmutare le visioni della propria anima, grazie!