Fumiamo sigarette che irritano gli alveoli polmonari fino all’impazzimento canceroso, mentre la nicotina acchiappa i recettori colinergici e ci imbriglia nella dipendenza. Beviamo alcoolici che corrodono il fegato fino alla cirrosi e al cancro, dato che l’alcool è un veleno. Sniffiamo coca, ci inoculiamo cocktails di sostanze non ben identificate che cortocircuitano le sinapsi cerebrali e ci fanno sballare. Mangiamo tendenzialmente cibo in eccesso, con l’aggiunta di additivi di ogni tipo, residui di pesticidi, sale e zuccheri in quantità, con pesanti ripercussioni sulla pressione del sangue, sull’apparato cardiocircolatorio, sul pancreas e sulla regolazione dell’equilibrio glicemico ecc.
Tranquilli, sento le vostre urla, di voi che state gridando contro lo schermo “ma io non faccio tutto questo!”. La prima persona plurale ci mette però in unità nel genere umano, oltre i confini della storia individuale.
Comunque, perché tutto questo autolesionismo? E per di più, passato in sordina, assimilato ormai come comportamento normalizzato, portato dentro lo stile di vita dei nostri giorni, espressione dell’emancipazione dell’Occidente. Al limite, ci scuotiamo un po’ quando qualche ragazzo muore di overdose o commette atti criminali per procurarsi la “roba”, mentre il narcotraffico viaggia con budget da capogiro.
La questione sollevata è complessa e i fattori che la generano sono tanti e intrecciati tra loro; richiedono analisi e conseguente assunzione di responsabilità da parte della società civile, della politica, dell’economia, dell’educazione, dei sistemi sanitari ecc.
Vorrei invece qui proporre uno sguardo un po’ di sbieco, apparentemente laterale, ma che a me pare centrale.
Dietro comportamenti autolesionisti di questo tipo mi sembra ci sia un’idea di essere umano che non si sente per nulla incarnato.
Qui si mostra la contraddizione in cui ci stiamo impantanando. Ci spingiamo nella ricerca di emozioni forti, quelle che ci fanno venire i brividi disprezzando le gradazioni delle sensazioni tenui. Andiamo a tavoletta fino alla distruzione finale che può essere esplosiva, in un botto, oppure goccia a goccia.
Il corpo è visto come un oggetto di cui servirsi, uno strumento che produce sensazioni per un io che sta altrove. Il corpo distanziato e cosificato diventa il mezzo per raggiungere l’obiettivo, il mezzo che mi conduce alla meta, come l’auto che mi porta a destinazione. Del mezzo non me ne curo, non me ne occupo, non mi importa, in fondo è un autonoleggio, non ha realmente a che fare con me.
E qui fanno capolino quelle espressioni, per me ora terribili, che sentivo dire a catechismo: il corpo è il tempio dell’anima. Mi si dipingeva nella mente l’immagine di uno spiritello evanescente e un po’ gelatinoso (che sarei dovuta essere io) forzato ad entrare dentro un corpo come in una scatola che era proprio bene tenere in ordine, per quando il padrone di quel corpo, ovviamente Dio, fosse disceso a passare in rassegna le truppe.
Purtroppo la metafisica è stata la chiave interpretativa del cristianesimo fin dai primissimi secoli. Quell’impostazione ha preso il Logos che si è fatto carne del Vangelo di Giovanni, Sapienza di Dio nella tradizione biblica, e lo ha letto con le lenti della filosofia greca trasformandolo nell’essere impersonale, nell’essenza ideale. Così la disincarnazione è stata inevitabile, restituendoci un’antropologia a pezzi, dove l’anima e il corpo sono accidentalmente congiunti nel tratto terreno della vita, ma in attesa della liberazione prodotta dalla morte che, a sua volta, diventa liberazione dal corpo. Salvo poi recuperarlo, il corpo, alla fine dei tempi, in un improbabile ricongiungimento dopo questa serie di attacca-stacca.
Possiamo anche dirci atei, ma è questa l’aria che respiriamo, da millenni, un’aria che, seppure con varianti locali, si ritrova simile nelle diverse forme di religiosità precristiana e poi nella distorsione del messaggio evangelico operata dal cristianesimo storico.
Ammollati in questo brodo di coltura, consapevoli o meno che ne siamo, continuiamo ad agire questi schemi.
Neanche il pensiero positivista, che dalla seconda metà dell’Ottocento ci ha ridotti a pura materia, ci ha reso un gran servizio, spostandoci ulteriormente verso la cosificazione del corpo, a questo punto unico inquilino rimasto.
La scatola, ormai sola e vuota, resta l’unica cosa cui aggrapparsi: così assistiamo agli eccessi del materialismo cosmetico, dove tutti gli sforzi sono concentrati nel tenersi in forma, giovani, senza rughe e senza macchia, nella manutenzione di un corpo tutto proiettato all’esterno, disposti a sottoporsi a qualunque pratica di allargamento, allungamento, riduzione, inturgidimento di ogni sorta che la chirurgia estetica metta sul mercato della ristrutturazione.
All’altro estremo, ma sulla stessa direttrice, i transumanisti progettano uscite “extraveicolari”, sognando di upload della mente su supporti al silicio, con miraggi di eternità in infiniti passaggi da un backup all’altro.
Eppure, anche per i neuroscienziati più materialisti, la coscienza umana rimane un mistero da continuare ad interrogare.
Nel frattempo, ciò che è uscito dalla porta chiede di rientrare e magari non si accontenta della proverbiale finestra. Lo spirituale è così forte e costitutivo dell’umano da richiedere piena attenzione.
Allora l’autolesionismo da cui siamo partiti potrà essere curato con un supplemento di incarnazione, dove la dimensione spirituale e quella naturale siano intimamente fuse perché co-originarie: uno non viene prima dell’altro, ma nascono e crescono insieme, indissolubilmente uniti nella sintesi singolare che è ogni essere umano.
Perciò, non più corpo-tempio dell’anima, ma corporeità-condizione di possibilità per il costituirsi dell’identità umana: io esisto solo come essere corporeo. La libertà si dà soltanto nella concretezza. Perciò spirituale e naturale sono una dualità non dualistica, sono lo specifico che denota l’umano, in una sintesi singolare che non conosce separazioni.
Allora la ricerca a tutti i costi del sensazionalismo percettivo perde ogni fascinazione, perché non sono più intrappolato in un’auto a noleggio, ma vivo nella consapevolezza che ogni cellula conta per l’emergere di buone emozioni e di pensieri creativi. Quell’alveolo danneggiato, quel neurone graffiato hanno direttamente a che fare con l’espressione di me fino nelle mie parti più profonde, fino là dove il mio cuore tocca lo Spirito del Padre.
E non osi separare l’uomo ciò che Dio ha unito.
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Cara Iside,
il percorso che ci fai fare è molto interessante, molto vero, ti chiedo solo: lasciami lo spazio di quando sarò pronta a partire col mio spirito insieme al Suo spirito e a lasciare un corpo senza troppi rimpianti che da lì a 72 ore incominciera’ a decomporsi….
Ciao Bianca (Darsi Pace)
Cara Iside,
il percorso che ci fai fare è molto interessante, molto vero, ti chiedo solo: lasciami lo spazio di quando sarò pronta a partire col mio spirito insieme al Suo spirito e a lasciare un corpo senza troppi rimpianti che da lì a 72 ore incominciera’ a decomporsi….
Ciao Bianca (Darsi Pace)
Grazie 1000 per il bellissimo articolo. Io a 45 anni ho capito che per il mio corpo anche 1 birra è puro veleno: aumentano i battiti, l’alito è pessimo, dormo male, litigo per inezie (a volte ho pensato di mollare moglie e figlio di 7 mesi…folle)…insomma ne ho a sufficienza per diventare astemio. Grazie
Molto giusto. Quanto lavoro da fare per de-contaminarci innanzitutto da false immagini e credenze che avvelenano la mente!
Certamente Bianca, tutto lo spazio possibile!
Come cristiani crediamo / speriamo nella resurrezione dei corpi, che però non è la rianimazione del cadavere. Qui credo che avremmo bisogno di una profonda meditazione.
Provo a condividere alcune parole che mi aveva scritto, in uno scambio informale di email, il teologo Carlo Isoardi.
“Il cadavere costituisce effettivamente un enigma.
Lascia intendere che qualcosa della nostra forma storica resta di qua.
Il corpo (già nella nostra esistenza storica) è pur anche sempre indice di una non totale identità tra noi e noi stessi, tra noi e la nostra concretezza, tra la nostra singolarità spirituale e la nostra appartenenza alla natura. È questo lo spazio entro cui si situa il cadavere.
Si intuisce il senso della risurrezione: Dio porta a compimento quella unità originaria e storica che nella morte ha trovato l’ultimo radicale nemico; e cioè avviene superando la frattura (discontinuità soteriologica e non solo strutturale tra forma storica e compimento al di là della storia) che la morte comporta; tale superamento (che si attua passando entro la dissoluzione della morte) poggia sulla permanenza della fede (che dà credito alla promessa di Dio) e comporta una ricreazione.
E tuttavia, il cadavere resta lì, enigmatico e resiste ad ogni sforzo di razionalizzazione.”
Sì Silvia, abbiamo bisogno di pulire la mente e calmare le emozioni, per addentrarci nell’opera del discernimento tra godimento fugace e desiderio insaziabile di vita. Il fatto è che ci lasciamo confondere, perché il qui ed ora non è il tutto e subito – per rubare l’espressione che ho sentito usare a Neva Papachristou nella trasmissione di Radio3 Uomini e Profeti.
E la testimonianza di Alessandro mi pare una bella evidenza!
iside
Grazie Iside per i numerosi spunti di riflessione che ci hai lasciato con questo post. Tra le forme di compensazione di cui parlavi, segno di una mancata incarnazione, ci metterei anche la pratica quanto mai diffusa del ” farsi l’amante ” che oggi coinvolge entrambi i sessi in modo sempre piu spregiudicato, in certi casi addirittura sbandierata come condizio sine qua non di un rapporto duraturo! Che aberrazione! L’Amante per eccellenza per me é Cristo, solo in lui troviamo l’amore totale e incondizionato cui tanto aneliamo. Grazie