Verso la coniugazione
L’ultimo biennio di Darsi Pace – “imparare ad amare” – è stato pensato, non casualmente, proprio alla fine del percorso. Solo dopo aver portato luce nelle nostre ferite, solo dopo averle guarite (o almeno iniziato a farlo) con amore e compassione, ed esserci liberati da quel tremendo giudice interiore che ci rende implacabili con noi stessi e con gli altri, possiamo infatti sviluppare quella stessa comprensione, pazienza e cura per le ferite dell’altro. Bisogna lasciarsi tutto il tempo di sviluppare un’attitudine all’onestà interiore. Per questo è quanto mai necessario lavorare innanzitutto sul giudizio. Mitigando il giudizio possiamo concederci di abbracciare la nostra negatività senza fuggirne via terrorizzati e vedere con la stessa serena equanimità quella altrui. Paradossalmente, proprio nel momento in cui non mi sono più identificata con la “vittima”, ma riconoscendo anche il “carnefice” in me, ho sperimentato la nuova fioritura di alcune relazioni importanti. Questo solido lavoro dell’ultimo biennio è stato quindi di grande aiuto per aiutarmi a inquadrare meglio il principio del “femminile e del maschile distorto”. Principi entrambi presenti in ciascuno di noi, con una predominanza, a seconda dei casi, dell’uno o dell’altro. Personalmente, purificare il mio “femminile distorto” mi ha permesso di iniziare a riscoprire un femminile più sano e più forte e proprio per questo più accogliente, anche se sappiamo bene che il lavoro è infinito e l’umiltà del principiante è sempre un’attitudine da custodire con cura.
Nell’articolo precedente mi sono concentrata sul lavoro di una sociologa americana, Brené Brown, che per anni si è impegnata a studiare il concetto di vergogna e vulnerabilità. Come scrivevo anche la scorsa volta, è con grande gioia che accolgo ogni volta le assonanze tra il nostro lavoro e altri tipi di studi e letture, magari inerenti ad altre discipline. Più approfondisco, più i punti di connessione si rivelano con una chiarezza sorprendente. Unendoli tra loro, emerge davvero una bella immagine nitida dell’intima costituzione dell’essere umano, senza per questo togliere nulla al mistero che abita in ognuno di noi e che assume, personificandosi, tratti e modalità inedite. Il generale e il particolare non sono infatti mai scindibili, ma fanno sempre leva l’uno sull’altro.
Non a caso ho iniziato questo mio scritto parlando dell’importanza di riconoscere e accogliere le ferite nell’altro, di riconoscere il femminile e il maschile distorti dentro di sé e come da questo possano nascere rapporti più appaganti. Anche Brené Brown ha dedicato una parte del suo lavoro ad analizzare le differenze di genere nella percezione della vergogna, che ovviamente essendo un sentimento inerente alla nostra condizione umana, ci accomuna trasversalmente. Tuttavia, è interessante notare come assuma connotati differenti a seconda del genere di appartenenza, il quale risente ovviamente di una millenaria stratificazione culturale. E se non tutto è riducibile alla cultura di appartenenza, sicuramente essa costituisce parte integrante della nostra identità.
Stavo quindi parlando con alcuni amici delle considerazioni della Brown su come si manifesti prettamente il senso di vergogna nei maschi e soprattutto delle interviste raccolte nel suo libro. La reazione dei miei amici è stata unanime: “Parlane! Scrivici un articolo. C’è tanto bisogno di questo!”. E ho sentito così forte il bisogno di questa richiesta, di questo bisogno del parlare della fragilità maschile, di questo bisogno di essere considerati anche sotto questo aspetto, che mi sono detta: “Va bene. Così sia”. La strada per una relazione davvero paritaria tra uomini e donne passa infatti solo dal reciproco riconoscimento delle proprie distorsioni. Non c’è altra via. Chi mi conosce sa che la questione femminile mi è molto cara, ma è stata una presa di coscienza potente e al contempo integrante e arricchente immergersi in una dimensione differente, per certi versi sconosciuta. Voglio quindi raccontarvi il primo episodio citato nel libro e spero che possiate leggerlo davvero senza giudizio, senza identificazione con una parte o con l’altra, ma con attitudine all’ascolto, le sole cose che veramente ci permettono di procedere verso l’unità.
Dunque, per diversi anni Brenè Brown non ha mai voluto intervistare campioni maschili. Le motivazioni che si era ufficialmente data erano inerenti al metodo scientifico da applicare. In realtà, per sua stessa ammissione, come comprese solo più tardi, si trattava di una sua potente difesa, un meccanismo di protezione per non mettersi troppo in discussione. Un giorno, dopo una conferenza, si presenta un uomo con una serie di libri da autografare. Le dice che questi libri, tutti sul tema della fragilità, erano per sua moglie e per le sue figlie. In seguito, le chiede come mai non si fosse mai interessata della fragilità negli uomini e dopo aver ascoltato le motivazioni della studiosa, l’uomo esordisce dicendo: “Fa bene. È conveniente”. Dopo un primo momento di rabbia per la risposta ricevuta, la Brown decide di approfondire e chiede i motivi della risposta. L’uomo risponde più o meno: “Vede quelle donne lì, mia moglie e le mie figlie, sono sue accanite fan e difendono la teoria della fragilità, ma preferirebbero vedermi morto piuttosto che accettare un mio fallimento”. La risposta fu un pugno nello stomaco, ma anche un momento di comprensione cruciale, sia per la sua vita personale, che per la sua ricerca. Da quel momento inizia quindi ad intervistare anche campioni maschili, il che cambia completamente la sua visione delle cose, o meglio, le permette di avere un quadro più completo e meno centrato su un unico focus. Così, riassumendo al massimo, se per le donne la vergogna si manifesta soprattutto nel non essere abbastanza perfette da tutti i punti di vista (come lavoratrici, madri, mogli, nella cura della casa e nell’aspetto fisico) e la pressione che avvertono è fortissima, per gli uomini la vergogna è quasi sempre associata alla debolezza. La loro risposta più ricorrente nelle interviste è “don’t be a pussy”, che in italiano si potrebbe tradurre più o meno come “non essere un coniglio”. Tra i tanti episodi ne racconta un altro molto interessante, riguardo a un uomo che era stato licenziato. Costui ne parò con il padre e con gli amici più cari, ma vergognandosi profondamente di rivelarlo alla moglie, da sei mesi ogni giorno si vestiva e faceva finta di andare al lavoro. Poi attraversava la città, si sedeva in un bar e si metteva in ricerca di una nuova occupazione. La studiosa, nonostante nelle interviste mantenesse sempre un atteggiamento il più neutro possibile, evidentemente tradì una certa sorpresa, così egli aggiunse: “mi creda, non lo vuole sapere. Se troverò un altro lavoro e le dirò tutto solo dopo me ne sarà grata”. La cosa più rilevante che emerge dai racconti è proprio la difficoltà di questi uomini di trovare accoglienza nella loro fragilità proprio tra le madri o le compagne. Scrive la Brown a questo proposito:
“Qui emerge lo schema più doloroso della mia ricerca con gli uomini: gli chiediamo di essere fragili, li imploriamo di lasciarci entrare in questa loro fragilità e di dirci quando hanno paura, ma la verità è che la maggior parte delle donne non può digerirlo. In questi momenti, quando la nuda vulnerabilità si manifesta negli uomini, la maggior parte di noi indietreggia con paura e la paura si manifesta in molte maniere, dalla disapprovazione fino al disgusto”.
In base a quanto ho potuto osservare in me e negli altri, mi trovo abbastanza d’accordo. Teoricamente, infatti, desideriamo questa apertura e questa intimità, ma andando a sondare bene l’ombra, quanta pretesa c’è – magari inconscia – che l’uomo risponda perfettamente a un certo ideale che lo vorrebbe sempre vincente, capace, in grado di provvedere alla sua famiglia e sicuro di sé? E quanta disapprovazione e rabbia emerge quando non corrisponde a questa immagine ideale interiorizzata? Ovviamente, stesso discorso vale al contrario, con sfumature e atteggiamenti diversi. Ma, come detto, il tentativo di provare a scrivere dall’altro punto di vista è un atto di onestà dovuta, un atto dell’io in conversione che guarda nelle sue profondità per purificarle.
La Brown si sofferma poi sulle difese scaturite da questa percezione di poca accoglienza. Anche qui le assonanze con il nostro lavoro sono sorprendenti. Quelle più comuni sono infatti la rabbia e l’aggressività, oppure la chiusura ermetica, il tenersi tutto per sé. Entrambe portano alla separazione o nel migliore dei casi a un mantenimento precario degli equilibri.
Ma fortunatamente c’è una terza via, l’unica possibile e questo passo di Marco Guzzi tratto da “Imparare ad amare” può davvero aiutarci in questo compito difficile quanto ormai imprescindibile:
“Dobbiamo convertirci perciò, anche in questo ambito specifico, e aprirci urgentemente alla nuova forma di umanità, maschile e femminile, che sta premendo nei nostri cuori: l’umanità relazionale. Dobbiamo dunque trovare un punto di ricominciamento, l’inizio della cura delle nostre identità sessuate. E in realtà questo punto di partenza già lo abbiamo individuato lungo il nostro cammino. L’inizio del ritorno, infatti, è sempre il rovesciamento del nostro sguardo dentro di noi. L’inizio della trasformazione salvifica è sempre la nostra umile entrata nello stato dell’Io in conversione, che appunto inizia a riconoscere dentro di sé tutte le forme distorte del proprio non-amore, tutti i modi in cui continuiamo a difenderci e ad attaccare, a ritrarci irresponsabilmente dalla vita o a invadere la vita degli altri, cioè comunque a separarci, a escludere, a odiare e quindi a essere maschi e femmine distorti.”
Ora, per finire con un sorriso, cari uomini: aspettiamo che facciate la vostra parte.
Nota: potete trovare la prima parte quì
Grazie Maila,
credo che questa sia una riflessione fondamentale.
La vergogna rispetto alla propria immagine nel femminile,
e rispetto alla propria debolezza nel maschile,
sono i veri tabù che ci portiamo
dentro da sempre.
E già iniziare a portarli alla luce,
e a potere vivere relazioni nelle quali
non siano rimossi, mi dà un senso di gioia
reale.
Un abbraccio,
Francesco
Grazie cara Maila, interessantissimo complemento al tuo precedente articolo. E per agganciarmi alla tua stuzzicante chiusa, beh sì viene voglia di fare la nostra parte, con un po’ più di convinzione e di vigore. Almeno, provarci di più. La descrizione della fragilità maschile che tratteggi è tale che mi ci ritrovo in pieno, e sicuramente molti altri “maschietti” che leggono, avranno la stessa impressione. Insieme alle difficoltà relazioni con l’altro sesso, su questo.
C’è come un imperativo morale in noi (uomini) per cui essere deboli è davvero una vergogna, ci pretendiamo sempre in piedi, saldi e stabili, riparo e riferimento per le nostre compagne. Certo possiamo sbagliare, ma sempre con energia e determinazione, senza incertezze, senza smarrimenti! Questo “sbaglio” non dico che viene giustificato, ma viene capito: rientra nel framework che uomini e donne hanno in testa, in esecuzione automatica. E’ comunque dentro “il modello maschile”. Quando però siamo noi maschi a “crollare dentro” e cerchiamo comprensione, a volte la donna reagisce con stupore e confusione, come se fossimo usciti indebitamente da un ruolo a noi assegnato, che non stessimo facendo “la nostra parte”, appunto. Ovviamente dico “a volte” perché generalizzare è quanto mai semplicistico ed anche pericoloso!
Del resto la confusione è anche spesso dentro di noi (sempre maschi), perché ci accorgiamo di essere come “non vorremmo”, ci accorgiamo di contraddire uno stereotipo al quale inconsciamente avevamo tributato onori e anche importanti sacrifici. E la rabbia e il tenersi tutto per sé, o relegare tutto in una zona d’ombra, non sentendosi compresi né fuori né dentro, sono un frutto amaro ma frequente di queste dinamiche.
Ma se la fotografia dello stato delle cose a volte è impietosa, la speranza su cui si appoggia la frase di Marco Guzzi è una speranza in un lavoro possibile, attuabile, e dunque viene proprio voglia di mettercisi, in questo lavoro. Davanti ad una speranza concreta, la voglia di fare la propria parte, finalmente ritorna.
La fisica insegna che all’aumentare dell’energia disponibile, le forze fondamentali, che sembrano tanto diverse, diventano una cosa sola, aspetti di un’unica forza. Mi viene in mente da molto tempo, la frase della lettera ai Galati, “Non c’è né Giudeo né Greco, non c’è né schiavo né libero, non c’è né maschio né femmina, perché tutti siete uno in Cristo Gesù” come conferma che aumentando l’energia, avvicinandosi al campo di irradiazione dell’Essere, le differenze diventano sempre meno laceranti e sempre più morbide, e veramente, ancora, impariamo a guarire insieme. Donne e uomini. E dunque ad amarsi, fisicamente (in modo nuovo), psicologicamente, spiritualmente. Perché chi è guarito, fa questo tutto il tempo: ama.
Grazie!
A una prima lettura ho pensato d’aver capito tutto, tanto è potente la prosa del testo. Poi ho riletto e qualcosa mi sfugge nel fluido scorrere delle parole. Credo sia il mistero della vita e delle relazioni umane. L’uno incomprensibile e le altre impossibili, mi verrebbe da dire, guardandomi intorno e riflesso negli altri. Incomprensibile e impossibile, come l’amore, che molto promette e sempre fallisce. Ma davvero si può imparare ad amare? O è solo questione di impulsi di natura, di un gioco di istinti, in cui peraltro gli umani riescono meno bene degli altri animali?
Quando si è innamorati, tutto sembra meraviglioso e concentrato nella figura che è oggetto delle nostre emozioni, ma ciò che in essa dapprima ci affascinava, presto ci irrita, addirittura ci respinge fino al disgusto, e ci separa. Proprio nell’intimità delle relazioni affettive si mostra l’impossibilità dell’amore, (se siamo pessimisti), o il suo paradosso, (se di spirito più problematico), di cui ci dicono gli esempi riportati. La donna, che brama la conoscenza dell’uomo, fino a divorarlo per poi vomitarlo; e l’uomo, che proprio all’essere più vicino nasconde la sua miseria, o con la fuga, o più radicalmente con l’omicidio.
Se l’amore è qualcosa di possibile, forse è contronatura e richiede un lavoro, un apprendimento, ma chi ce lo insegna? Un’indicazione importante, che ognuno potrà sperimentare e verificare, è data all’inizio dell’articolo e nella sua chiusa. Indicazione di un cammino che porta a un ineludibile confronto con ciò che forse più temiamo: la nostra solitudine.
Grazie mille, Maila, di questo prezioso contributo! Ho molto a cuore il tema di cui parli e sarebbe interessante gettare uno sguardo anche sul fenomeno della omosessualità. Non soltanto perché mi riguarda personalmente, ma perché è una diversa modalità di percepire o vivere. Visto che sono appena alla 2. annualità del triennio, è sicuramente ancora prematuro farsi, come dire… troppe domande, ma qualcuna inizio a farmela sul serio. Il ragazzo gay credo abbia infatti tutta una serie di problemi con il maschile e il femminile che ha interiorizzato. Ma magari mi sbaglio. Anch’io vorrei evitare generalizzazioni, poiché i fattori che portano alla costruzione di un’identità come quella omosessuale possono essere tanti (dalla ribellione a una qualche forma di anticonformismo ecc.). In ogni caso, avrò tutto il tempo per approfondire. Grazie quindi, intanto, di questo contributo! Ciao, un abbraccio.
“La nostra paura più profonda non è quella di essere inadeguati. La nostra paura più profonda è che siamo potenti oltre misura. È la nostra luce, non la nostra oscurità che più ci spaventa. Ci chiediamo: “Chi sono io per essere brillante, stupendo, talentuoso, favoloso?” In realtà, chi sei tu per non essere? Sei un figlio di Dio. Il tuo gioco in piccolo non serve al mondo. Non c’è niente di illuminato nel rimpicciolirsi in modo che gli altri non si sentano insicuri intorno a te. Siamo tutti destinati a brillare, come fanno i bambini. Siamo nati per rendere manifesta la gloria di Dio che è dentro di noi. Non è solo in alcuni di noi; è in tutti. E mentre lasciamo risplendere la nostra luce, inconsciamente diamo ad altre persone il permesso di fare lo stesso. Quando siamo liberati dalla nostra stessa paura, la nostra presenza libera automaticamente gli altri”
Proprio stamani mi è arrivato questo testo di una scrittrice americana, Marianne Williamson, attivista per i diritti umani e per la pace che sintetizza il tuo post come un exursus di un cammino che approda ad una disposizione ad amare. Il testo ha un validità senza distinzione di genere, ma effettivamente se entriamo ad analizzare come avviene il processo per l’ uomo e la donna possiamo scorgere le differenziazioni proprie del genere che tu hai descritto molto bene e che condivido.
Credo che momento della “vergogna” sia un passaggio cruciale, lo stato d’ animo utile, per una vera redenzione dello spirito che nel perdono crea le condizioni armonizzanti di cui si parla.
E’ vero nell’ uomo tale vergogna, identificata con la debolezza, potrebbe ancora identificarsi con una struttura solida radicata che lo inquadra sempre in un ruolo decisionale e che quindi tale immagine possa influire ancora sulla psiche.
Ma sono convinto che le cose stanno lentamente cambiando. L’ uomo non vuole ammettere consapevolmente la sua debolezza e considerarla una virtù. Non vuole perdere, pena la vergogna appunto, quella sua immagine di forza e fermezza da sempre associata al solo sesso maschile.
Le cose stanno cambiando lentamente. L’ emancipazione che ha visto la donna assumere nella società ruoli e posizioni sempre più strategiche nel lavoro, nel management e nella società in genere, sta conducendo verso una comprensione profonda delle immotivate disparità ancora presenti, refusi di un’ umanità giunta ad un passaggio decisivo.
Il principio femminile dovrà essere riconosciuto da tutti noi dentro di noi senza vergogna. Riconoscere e non allontanare forme di espressione come piangere ( io lo faccio !!) aprirsi all’ altro con disposizione di animo, sono un “repertorio vivente” di questa bella umanità che pur nella dualità apparente del genere ci ha concepito come UNO.
Mi piace il titolo (rielaborato dal testo del libro della sociologa) che hai dato al tuo contributo che qualifica il lavoro certosino e quotidiano che siamo chiamati a fare come un arte, un fine intervento di cesellatura.
Il principio del femminile e del maschile presente in tutti noi mi ha da sempre affascinato e quindi con esso anche il lavoro per giungere ad una sua giusta armonizzazione, forse perché ho sempre davanti a me la figura di Gesù che con il suo agire mi mostra la parte più ferma e decisamente autoritaria, ma anche la parte materna, accogliente ed accudente.
Ti ringrazio per aver condiviso il lavoro molto interessante che stai portando avanti. Mi sta aiutando, insieme a quello che sto conducendo con D.P. (sono solo al 1° anno) a comprendere e a sciogliere alcuni interrogativi.
Cari amici,
vi ringrazio di cuore per l’attenzione che avete rivolto all’articolo.
*Caro Francesco, anche per me l’averne parlato, prima a voce e poi in forma scritta, ha dato un senso di sollievo. Nel momento in cui portiamo consapevolezza in certi meccanismi è come se venissero irradiati da un fascio di luce, il che ci permette meglio di capire come lavorare meglio tutto questo materiale. Come se l’io fossa una forma plastica da poter modellare a seconda dei nostri processi evolutivi.
*Caro Marco, grazie per aver arricchito le mie riflessioni con questa bella immagine che ci viene dalla fisica. Certo, man mano che procediamo verso l’unità, attratti da questa energia, che è il centro vitale di tutto, le differenze si ammorbidiscono. Mantenere la molteplicità nell’uno, le particolarità e l’unità insieme ( che poi se vogliamo è anche il mistero della Trinità). Mi piace pensare che la ricchezza si compone di tante sfaccettature, che necessitano tuttavia di trovare un certo ordine nella composizione. Questo ordine di fondo, come dici tu, è dato proprio dall’amore, che regola tutto armonicamente. Un amore che fiorisce solo e sempre dalla guarigione, come giustamente hai sottolineato.
*Caro Andrea, cogli un punto fondamentale. Nessuno, o quasi, ci insegna ad amare. Si parla sempre dell’amore come qualcosa di spontaneo, un sentimento che di per sé, in virtù della forza della sua intensità, dovrebbe farci vincere qualsiasi contrasto, qualsiasi difficoltà. Ma la verità è che il sentimento da solo non basta mai e anche le relazioni, come qualsiasi cosa nella vita, necessitano di una pratica. E’ un’arte che si apprende , sono il frutto di un cammino. Infatti per poter amare dobbiamo appunto “imparare ad amare” e la differenza è tutta racchiusa nel primo verbo. Date queste premesse, io penso che delle relazioni sincere siano possibili, da quelle amicali a quelle amorose. Questo è quello che mi ha insegnato Darsi Pace, ma fuori da un percorso serio convengo con te che amare sia estremante difficile, se non impossibile.
*Caro Simone, poni delle questioni interessanti, che meritano molto approfondimento e sulle quali non so darti una risposta esaustiva. Sicuramente ognuno di noi, come accennavo nell’articolo, ha dentro di sé tanto il principio maschile, quanto quello femminile. Nel libro “imparare ad amare” si accenna al problema di una possibile rimozione dell’uno o dell’alto e di una maggiore identificazione con uno dei due principi. Io potrei ad esempio identificarmi maggiormente con un femminile (distorto) oppure tendere a rifiutarlo per identificarmi di più con un maschile (distorto) e viceversa, indipendentemente dal tipo di sesso. Ad ogni modo, come sai bene, visto che sei ormai al secondo anno, tutto ciò che rientra nella sfera dell’ego va lavorato e purificato e quindi anche i principi del maschile e del femminile dentro di noi.
*Caro Pasqualino, sai che quella poesia che hai postato la leggiamo sempre al terzo anno? Che belle queste “coincidenze” o sinergie di pensiero! Sì è vero che le cose stanno cambiando, ma a volte ho come l’impressione che i cambiamenti avvengano più nella forma che nella profondità. Io difendo con tutta me stessa l’emancipazione femminile e rifiuto certi ruoli tradizionalmente attribuiti alla donna, che nulla hanno a che fare con il “femminile”. Ma d’altra parte Il femminile è una dimensione che va compresa e non negata. Penso che il rischio opposto sia proprio quello di appropriarsi di modelli maschili, e di imitare la forma distorta del maschile (magari interiorizzandone proprio gli atteggiamenti che qui stiamo mettendo in discussione). Il rischio della confusione c’è, anche se certamente è un rischio che va corso. Quando si è una fase di svolta antropologica come la nostra è inevitabile, quindi per questo è importante parlarne. Detto questo, certamente la figura di Gesù mostra bene l’armonia dei due principi: l’autorità e la tenerezza. Anche lui spesso si commuove e piange! Ben venga che gli uomini lo facciano! Inoltre l’autorità che mostra è priva di violenza e prevaricazione, mentre la tenerezza non è mai eccessiva indulgenza (quell’indulgenza che non è accoglienza ma forma di accondiscendenza e accettazione di ciò che invece andrebbe corretto). Quindi anche da questo punto di vista ci mostra la via e la direzione!
Vi saluto tutti con affetto
Mi viene in mente un post davvero interessante del 12/02/2015 scritto dalla direzione intitolato “Politica Gender” che riportava una lettera di Alessandra. Grazie Maila per questa tua riflessione che mi tocca profondamente e le risonanze che ha suscitato, che me la sono stampata per poterla leggere meglio.
“Noi nei nostri Gruppi, come scrivi, sappiamo che ogni identità è oggi in crisi, proprio a partire da quella sessuale. Sappiamo che i contenuti storici di tutte le identità devono mutare, e che proprio la differenza maschio/femmina per millenni è stata utilizzata per asserire menzogne, violenze, e stereotipi.
Ma sappiamo anche che la trans-figurazione delle figure identitarie, pur passando per una certa sfigurazione, serve a riscoprire le differenze non più in forma di contrapposizione/opposizione, ma di relazione. Per cui il transito antropologico in atto non solo non distruggerà la differenza tra maschio e femmina (o quella nazionale o religiosa o politica), ma anzi la rivelerà nella sua più profonda essenza dialogica e appunto relazionale/coniugale.
Lungo il transito però ci sono sempre tendenze sfigurative che vorrebbero invece annientare lo spessore e lo splendore delle differenze, tendenze cioè omosessuanti e omogeneizzanti, così come ci sono sempre tendenze regressive che vorrebbero reimporre le differenziazioni del tempo andato.
Solo un sano e profondo lavoro interiore e culturale potrà condurci lungo la via della giusta trans-figurazione”. (post di Marco Guzzi 17/02/2015)
Caro Paolo,
grazie anche a te per l’attenzione e l’ascolto al mio testo. Ricordo benissimo quel post del 2015 che hai riportato e la risposta di Marco, che traccia perfettamente la via del lavoro che faticosamente siamo chiamati a fare. La transfigurazione delle figure identitarie infatti non annulla mai le differenze, semmai le valorizza purificandole dagli elementi egoici. E soprattutto le differenze, in questo difficile cammino, non sono mai pensate come contrapposizione, prevaricazione, dominio di una parte sull’altra. Questo vale tanto per il maschile e per il femminile, quanto per ogni altra forma identitaria. Oggi stiamo gettando semplicemente i semi, ma sarà un compito al quale l’umanità dovrà lavorare per secoli. Non importa, oggi ognuno di noi è chiamato a fare la sua parte nel qui e ora, lavorando fin da subito alla svolta antropologica in atto.
Un caro saluto e grazie
Maila
Maschile e femminile contrapposti a me paiono come destra e sinistra contrapposte o come bianchi e neri contrapposti.
La contrapposizione è bellica e sappiamo che comincia a fare male anzitutto a chi crede di star bene scagliandosi contro l’altro.
Questo ad esempio ce lo dimostra anche la cultura della cancellazione che si sta imponendo negli Usa, dove la distruzione dei monumenti crea l’illusione che basti cancellare la Memoria per cancellare il male ed costruire la palingenesi di un mondo nuovo. E disgraziatamente Biden è arrivato a rimuovere dalla stanza ovale nientemeno che l’immagine di Churchill che ha salvato l’Europa dal nazismo.
Oggi esiste una corrente femminista radicale che arriva a criminalizzare il nascere maschi.
Così il maschio è depotenziato da paura e da vergogna,
ma al tempo stesso non può emendarsi mostrando la sua fragilità a moglie e figli perchè ne restano addolorati e disorientati.
Le tradizionali culture belliche conducono semplicemente in un “cul de sac”.
Questo ci può rendere più chiaro che nella ricerca di soluzioni sarebbe sbagliato porre in alternativa un forte cambiamento politico-culturale e una forte conversione del cuore, personale.
Una soluzione è quella di Etty Hillesum e del percorso iniziatico che stiamo facendo: i due processi personale e socio-culturale devono procedere insieme.
Occorre partire dal cuore di ciascuno che si risana per arrivare ad ottenere un rinnovamento costruttivo anche nella relazione tra uomo e donna.
Un abbraccio a te, Maila, ed agli amici che hanno scritto.
Gian Carlo
Caro Giancarlo,
grazie per aver letto e arricchito il mio articolo con queste riflessioni. Sì, solo il percorso iniziatico ci libera dalle rigidità dell’ego, che non può far altro che definire se stesso per contrapposizione, che è l’unica modalità che conosce. La coniugazione delle identità, di qualsiasi identità procede solo accogliendo la propria storia personale , e quindi riconoscendo tutte le identità che mi qualificano, senza negarle e senza fare di queste uno strumento di autoaffermazione (altrimenti siamo ancora nel sistema binario: o/o). La mia identità, riconosciuta e accolta, arricchisce sempre quella dell’altro e viceversa. Ma come dici bene, tutto parte dal risanare il cuore ferito. Altrimenti tutto ciò che si costruisce sulla ferita è fragile e crolla e non potrebbe essere altrimenti, poiché la ferita è menzogna, è si nutre di un linguaggio male-detto (che dice continuamente male di me e degli altri). Cosa si può costruire da qui?
Grazie e un caro saluto
Maila
Anche io mi sono accorto, parlando coi miei collghi che in effetti, un uomo, deve sempre “reggersi sulle proprie forze”
la debolezza sembra sia riconosciuta solo da un sesso e solo ed esclusivamente come “monopolio” di uno dei due sessi.
Come se uno si abbuffa di cibo e l altro che è di fronte, resta a guardare digiuno….
Discorsi di questo genere ne leggo pochi eppure tutto il dramma che vivo intorno a me parla e grida.
Comprendere questo potrebbe evitare moltissime violenze.