Vi siete chiesti perché gli habitat del sapere e del creare umano siano sempre le prime istituzioni ad essere penalizzate in tempi eccezionali? E dire che se ne è parlato pochissimo. Quasi per nulla, almeno in ambito pubblico. I luoghi della cultura, a partire dai teatri fino alle scuole e alle biblioteche, sono sempre i primi a chiudere e gli ultimi a riaprire. E tutti lo diamo per ovvio.
Certo, ci sarebbe un lungo di discorso da avanzare su quale arte e quali modelli culturali questi luoghi ad oggi ci offrano. Ma appunto, è proprio nella mancanza di un serio dibattito e di un serio interrogativo intorno a questa problematica che sta il sintomo più preoccupante. Il sintomo di una società, di una civiltà, di una umanità che non ha più riguardo per il Gusto, e che quindi è ogni giorno più disgustosa di fronte sé stessa. Sarà per questo che la comunicazione pubblica è diventata una cloaca a cielo aperto, alla quale però tutti accettano di attingere, o quantomeno di tollerarla, anche se ogni giorno che passa la sua atmosfera diventa sempre più nauseabonda e moribonda?
In questo dialogo con Andrea Bellaroto (laureato in lettere), Giorgia Cecconi (pianista) e Andrea Foti (pianista e direttore d’orchestra), registrato lo scorso agosto, ho tentato di intavolare un discorso possibilmente ampio e complesso su questo nodo cruciale, chiamando in causa l’esperienza personale di queste persone amiche, direttamente coinvolte nel mondo dell’arte e della cultura.
La verità è che la Verità stessa è originariamente un fatto di gusto, cioè di bellezza, di tatto, di poesia. Non sono né gli intellettuali né soltanto i grandi maestri a dircelo: ce lo insegna il nostro più elementare vivere a questo mondo. L’uomo cerca bellezza allo stesso modo in cui in ogni istante cerca ossigeno per respirare e acqua per bere. Ma se è così, perché abbiamo costruito e tutt’ora costruiamo un mondo così brutto? Perché dalla nostra politica, dalla nostra scuola, dalla nostra anima, dalla nostra economia relazionale fuoriesce una musica così stonata e scadente? – Sembra come che la pandemia abbia scatenato un cascame generale di tante individualità già insaccate da prima, imbalsamate nella loro desolazione, che attendevano solo un espediente esterno per potersi accasciare definitivamente sul proprio pavimento vuoto, per rifuggire una volta per sempre alla ricerca di aria aperta e vita, adattandosi masochisticamente al clima stantio e soffocante delle nostre gabbie private.
Di qui la centralità assoluta dell’arte come domanda sui modi concreti attraverso cui plasmiamo tutti i giorni la nostra esistenza e la nostra realtà, per far sì che diventi sempre più umanamente abitabile. La questione dell’arte dunque, nella sua essenza, attiene alle questioni di sopravvivenza in senso stretto. Non accorgersi di questo vuol dire essere malati, malati di spirito prima ancora che di virus o di altro.
Mi auguro allora, in un simile registro vibratorio-pensante, che questo nostro dialogo – tenutosi a metà dell’anno pandemico – possa valere da piccolo ma fondato spunto a questo orizzonte per ognuno di noi.
Buon ascolto a tutti!
È molto bello e stimolante ascoltare il vostro dibattito un confronto è una visione di ricerca di nuove energie, di nuove forze vitali.grazie.