[Dario Falconi: professore di lettere (italiano, storia e geografia) in una scuola media di Civitavecchia, in provincia di Roma]
Il mio lavoro consiste nel passare molte ore con bambine e bambini di età compresa tra gli undici e i tredici anni, in classi mediamente dai venti alunni in su. Ogni bambino custodisce un potenziale, spesso a sua insaputa, una modalità di apprendimento del tutto personale: ogni bambino è un po’ come uno strumento in un’orchestra, che deve prima riconoscersi come tale e poi imparare a farsi sinfonia insieme agli altri.
È fondamentale la prima conoscenza (vale un po’ per tutte le cose: le seconde conoscenze sono solo erudizione insignificante se non vibrano d’una sapienza originaria), mettersi d’accordo, accordarsi, affinare l’orecchio all’ascolto reciproco, alla mutua corrispondenza del suono e dell’attesa, sciogliere così finalmente il chiasso nella melodia. Questa prima parte del lavoro è sfiancante e necessaria.
Instaurare una relazione di fiducia, sintonizzarsi tutti su un medesimo spartito, farsi armonia affinché la lezione diventi un motivo che motivi l’azione. Non può esistere apprendimento senza motivazione, si impara solo quello che si vuole e si vuole solo quello che intuitivamente si ama.
Non è la materia che deve essere amata ma la relazione che ci lega a quella materia. Non è così importante essere o meno “portati” per una materia perché tutti possono essere portati alla materia. Imparo quando il legame che mi conduce alla materia merita la mia amorevole fiducia. Sono io che scelgo di andare in quella direzione perché ne sono attratto e decido di metterci cuore e fatica.
Quel mettersi alla prova, a prescindere dalle predisposizioni personali, è imparare. Si può facilmente immaginare quanto sia difficile creare queste condizioni preliminari. Una classe è una cassa di risonanza della società di riferimento, i bambini sono frequenze di una radio millenaristica dove risuona il tempo nel quale sono immersi. Come può essere declinato per esempio un tempo che appare privo di futuro da un bambino di undici anni?
Provateci ad avere undici anni e non poter dire io sarò.
Come è possibile ancora raccontargli che quella scuola gli servirà per trovare un lavoro nel futuro? Quale lavoro? Quello precario e alienante di mamma e papà? Quello che, quando c’è, li fa impazzire? Quello che, quando non c’è, li fa vivere nell’angoscia? Quale futuro poi?
Andrea, un mio alunno, una volta alzò la mano durante la lezione di storia e disse: “Prof, perché studiamo se tra quarant’anni saremo tutti morti?”
C’è qualcuno che possa dare una risposta di senso, non moralistica e qualunquistica, a questa domanda?
Così il linguaggio che entra in aula è quello della cultura dominante.
L’aggettivo dominante assume integralmente il suo duplice significato: una cultura predominante che educa alla dominazione. La relazione esiste solo nei termini di una competizione, non cresco insieme all’altro ma a discapito dell’altro.
È sempre più difficile veicolare quindi uno stare insieme solidale e collaborativo, creare un ambiente di apprendimento accogliente e non giudicante.
Eppure, a fatica, ci si riesce. Più fatica, più cuore. Questo piccolo miracolo a scuola continua ad accadere. Se ne parla poco e niente ma ci sono altri professori, per lo più quelli che non hanno voce, che ogni anno ce la fanno. Sono tanti. Probabilmente la maggioranza. Basterebbe vedere questo, contemplarlo, rendersene conto, per capire che voltare pagina non è mai strapparla del tutto ma correggerne i refusi preservando il tesoro che custodisce: per cambiare veramente l’unica via è quella dell’integrazione reale nel processo dell’esistenza.
Quest’anno la preoccupazione era ancora più grande.
A settembre si sarebbe tornati in presenza dovendo rispettare le norme anti-covid: distanziamento tra i banchi, impossibilità di muoversi per tutti, presto anche l’imposizione delle mascherine. Come riuscire a fare scuola in queste condizioni? Come fare per generare quella condizione preliminare di fiducia e ascolto? Come trasferire vitalità e dinamismo all’interno di una struttura così impersonale e immobile? Come accompagnare il riconoscimento e la fioritura del gruppo senza la possibilità di avvicinarsi?
Nella mia prima media inoltre era previsto un bambino con diagnosi oppositiva/provocatoria, deficit cognitivo e iperattività. Come avrei potuto occuparmene responsabilmente? Come favorirne la socializzazione coi nuovi compagni affinché potessero comprendersi nel duplice senso del capirsi e del sentirsi parte?
Non era possibile rispondere a questi come. L’esperienza era inedita e incognita. Bisognava mettere da parte questa insidiosa preoccupazione, crescente nell’approssimarsi del primo giorno di scuola, e cominciare.
Così forse è sempre la vita, inedita e incognita. Due sole opzioni possibili: tirarsi indietro o farsi avanti.
Siamo stati in presenza e presenti fino a metà marzo.
È stata la sfida d’ogni giorno, trovare l’opportunità nell’ostacolo, raccogliere la varietà delle onde radio e darle il giusto spazio, farle sentire ugualmente importanti nell’esprimersi e nell’ascoltarsi, apprendere gli uni dagli altri la propria musica, sondarne i punti di forza e i limiti, valorizzare i primi e affrontare i secondi, mettersi in gioco sapendo di non essere giudicati, trasformare la lezione in un momento di creativa condivisione, fare in modo che tutti si sentano parte dell’avventura della conoscenza, un itinerario di scoperta che a partire dal sentiero battuto, dal contenuto da studiare, possa aprire varchi inimmaginabili.
Non so bene come, una specie di commozione mi prende, insegnare è un’arte misteriosa, eppure anche quest’anno quel piccolo miracolo è accaduto: un gruppo di bambini contenti di imparare a stare insieme mentre insieme imparano.
Quando questo succede, e diffusamente succede, storie minime che evidentemente non fanno cronaca, è bene dire, dire bene: che sia benedetta la scuola.
Non è stato facile. Anzi, sembra che sia sempre più difficile.
Ho capito però che il gioco vale comunque la candela.
Quell’esile fiamma va costantemente ravvivata. Tutto si può sempre fare, più è pesante e più bisogna trattenerlo insieme per non farlo precipitare. Più fatica, più cuore. Questo è il mio lavoro.
Questa è la mia vita.
Che dire? Credo che l’articolo centri veramente il problema di cosa significhi insegnare oggi, fornisca una reale prospettiva, un approccio concreto e una positiva prospettiva. Bravissimo.
Si, grazie Dario poeticamente calato nella nostra realtà.
Bellissimo questo contributo del nostro gruppo di Creattività Culturale Darsi Scuola!
Complimenti, Dario, il nuovo mondo nascerà proprio dalla nuova scuola, e tu ne stai seminando i germi, insieme a tante/i altri insegnanti che credono che un’ora di lezione può cambiare la vita, come insegna Recalcati !
Grazie!! Un articolo che condivido pienamente. Tanti i temi, relazione non competizione, accoglienza, fiducia, ascolto, apprendimento collaborativo..tenendo in considerazione il clima culturale pesante e insensato che i bambini e le bambine respirano.
Insegnare diventa così dare in ogni momento un nuovo senso alla nostra relazione con noi stessi, con gli altri e con il mondo, scoprendo che la vera essenza è una ricerca che non finirà mai.
Grazie Dario per questo post così intenso e diretto . Ho quasi fatto fatica a leggerlo per la commozione che mi rapiva tra le righe. É vero quello che dici, credo fermamente che la scuola sia fatta più di silenzi che di parole, più di sguardi che di compiti, più di tocchi gentili che di spinte…l’immagine dell’orchestra mi sembra efficace. Il compito dell’insegnante a volte sembra una vera “misson impossible” . Occorre davvero fare un atto di fede nella” benedetta ” scuola prima di entrare in classe , perché la scuola, al di là di tutto é davvero una benedetta esperienza , per tutti, come dici tu, come lo è la vita.
Caro Dario,
tra tante voci critiche e lamentose quando parlano della scuola, la tua voce è risuonata in me come un inaspettato inno di Gioia, di Speranza, di Fiducia!
E non posso che ringraziarti per questo dal profondo del cuore, come ex insegnante, come nonna di un bambino “difficile”, come quello che hai avuto in classe, come persona che ha amato stare in classe, ne ha amato l’atmosfera, il profumo, il mistero…
Sai, ho “ascoltato” il tuo scritto come si ascolta una musica conosciuta e nuova, una musica che ti fa vibrare e ti entusiasma, una musica che ti stupisce e ti commuove. E ne ho “estratto ” alcune “note”, chissà perché…
Scrivi: “…ascolto…melodia…spartito…armonia…sintonizzarsi…classe cassa di risonanza…frequenza di una radio …varietà delle onde radio… apprendere gli uni dagli altri la propria musica…”
E “sento” le note dissonanti che salgono da tanti bambini diversi, poi il silenzio poi di nuove ascolto le note che pian piano si compongono, si armonizzano mentre quei bambini compiono la fatica di apprendere attenti alla voce che li guida.
La Scuola che tu, Dario, vivi e descrivi, è un luogo nel quale si impara, faticosa mente e amorevol mente, a crescere, prima di tutto, in umanità.
GRAZIE!
Francesca Mannozzi
Grazie di cuore per i vostri commenti.
Grazie Antonio: ho scritto cercando di partire dal concreto della mia viva esperienza. Senza “pensare” il mio vissuto ma cercando solamente di “dirlo bene”. Cadono addosso moltitudini di parole “senza cuore” che pretenderebbero diventare i nostri abiti. Le nostre abitudini. Rischiamo facilmente di convincerci di somigliare a queste proiezioni che non sono nostre. Tutti quei discorsi distruttivi sulla scuola posso facilmente diventare il nostro unico orizzonte di senso.
Ma questi discorsi non sono nostri. Non ci appartengono. Ogni tanto è salutare ricordarsene.
“Nostro” è il presente che attraversiamo, l’ombra e la luce che siamo, gli orizzonti molteplici che intuiamo. La prospettiva è possibile solo quando ci si sente in cammino, quando si sa che non si è ancora visto abbastanza.
Grazie Carmela: il nuovo mondo nascerà dalla nuova scuola e la nuova scuola nascerà dalla nuova umanità.
Grazie Rossana: tutto verissimo. Più miglioriamo la relazione con noi stessi più siamo “sintonizzati” con gli altri.
Grazie Francesca Mi.: lavorare a scuola è sempre più faticoso. Sta diventando davvero una missione impossibile. Eppure è proprio questa insostenibilità che ci permette di mettere in gioco l’umano, che ci motiva a tirare fuori tutta la bellezza e la grandezza che custodiamo. Quindi è una palestra dello spirito sempre più efficace.
Grazie Francesca Ma: ci sono due tipi di fatica. Una sterile e involutiva: vedere il terreno arido, lamentarsi e maledirlo tutto il tempo. Un’altra rinvigorente e evolutiva: vedere il terreno arido, prendersene cura e benedirlo tutto il tempo. Il primo tipo di fatica genera rabbia, odio, rancore. Il secondo invece Gioia, Speranza e Fiducia come dici tu. Sai perché? Non è certo una posa “buonista”. Perché si assiste a questo splendore così concreto e tangibile di veder uscire fuori da quel terreno arido prima delle piantine verdi, poi dei veri e propri frutti. E succede davvero, non è un miraggio! A volte mi viene anche il dubbio che il miraggio sia proprio quel terreno arido. 🙂
Abbraccio forte,
Dario
Grazi a te, Dario! Hai centrato con parole dette bene, bene-dette appunto, il vero significato dell’ insegnamento…. sempre più difficile, di questi tempi…..
Mantenere vivo l’entusiasmo, l’attenzione tra mascherine e divieti non è facile; eppure, forse, sono proprio i nostri allievi, alunni, bambini e ragazzi che ci danno ogni giorno la Forza di andare avanti e di credere fino in fondo a ciò che facciamo per loro. L’ Energia che c’ è in una classe , le “onde sonore” come le chiami tu nell’ articolo, è qualcosa di entusiasmante, per chi le sa captare. Il nostro compito di Docenti è anche quello mantenere alta la frequenza di queste onde, anche per creare, come dici tu, il giusto clima della classe.
Grazie Paola!
E’ questo il vero problema della frequenza scolastica! Non solo l’assenza del corpo ma soprattutto dello Spirito.
Abbraccio forte,
dario
Ho letto le sue parole e sono felice per lei che ancora riesce a trovare passione per quello che fa. Io nella scuola ci lavoro ma con compiti di segreteria. Per me è diventata una vera PRIGIONE e francamente anche le facce dei miei colleghi non sembrano sprizzare gioia. Tante, troppe pratiche burocratiche inutili. Ambienti di lavoro fatiscenti, tecnologie software e hardware che danno problemi ogni singolo giorno. NESSUNA considerazione da parte dei massimi organi ministeriali per il personale assistente tecnico e ammnistrativo (chi conosce la normativa è ben consapevole del trattamento di favore riservato ai docenti rispetto agli ATA). Per me la scuola di oggi è un moribondo allo stato terminale. Non vedo l’ora di trovare altro e ricominciare a RESPIRARE. Vogliate scusarmi se mi firmo con uno pseudonimo…non vorrei trovarmi a carico anche una sanzione disciplinare solo per esprimere liberamente il pensiero basato su fatti incontestabili . Saluti.
Caro Dario,
insegnare è davvero un’arte misteriosa, come lo è vivere. So che ci sono tanti insegnanti, nei vari ordini scolastici, che con cuore e con fatica la praticano e so che educare è come seminare: il frutto non è garantito e non è immediato, ma se non si semina è certo che non ci sarà raccolto. (sono parole di C.M.Martini)
All’inizio degli anni settanta, quando ho iniziato ad insegnare, ho avuto la fortuna di condividere una sperimentazione nella scuola insieme ad amici/colleghi, credendo al lavoro di squadra tra docenti e vivendolo fino a metà degli anni ottanta, quando ho cominciato a non capirmi più con i colleghi soffrendo la chiusura, l’isolamento, la competitività, la menzogna che si nascondevano dentro parole altisonanti, ma inefficaci nella ricaduta sulla classe.
Ho continuato ad espormi per la scuola in cui credo arrivando a condividere l’azione didattica, a fine carriera, con una sola amica/collega.
Ciò che scrivi riferito all’alunno io lo penso anche riferito all’insegnante: ogni insegnante custodisce un potenziale, è un po’ come uno strumento in una orchestra. Accordarsi, affinare l’orecchio all’ascolto reciproco, alla mutua corrispondenza del suono e dell’attesa, sciogliere il chiasso nella melodia è lavoro sfiancante e necessario. Mettersi alla prova è imparare.
Ma il sistema in cui siamo è potente e gli insegnanti che resistono alla disumanizzazione in atto sono chiamati oggi a denunciare un sistema scolastico che parla di accoglienza, di integrazione, di ascolto, di relazione funzionando sempre più come una azienda, con ritmi disumani, con azioni didattiche che difficilmente vengono confrontate e condivise tra docenti, con Collegi Docenti muti nei quali non c’è più discussione, confronto, dibattito, ma solo approvazione di ciò che le Commissioni hanno deciso.
Perciò è utilissimo il lavoro che Darsi scuola sta facendo. Vi seguo con interesse e con voi torno a sentire ciò che sempre mi ha animato: una scuola pulsante che insegna a pensare, ad esplorare, a criticare, nella quale è possibile scoprire che l’Io è anche Noi.
Grazie!
Giuliana
Gentile Vito,
La ringrazio e comprendo per questo suo “grido di dolore”.
Cone ho scritto lavorare a scuola è diventato sempre più difficile.
Cara Giuliana,
Il deterioramento è sotto gli occhi di tutti. Tutto quello che dici lo sento, soffro e vivo. Tutto appare sclerotizzato. Diffidenza tra colleghi, collegi “muti”, procedure, burocrazie, nuove parole d’ordine incomprensibili.
Mi domando spesso però: questo gelo riguarda solo la scuola? Fuori come stiamo messi? A me pare che questo gelo pervada un po’ tutto.
Così cerco -e non è affatto facile- di vedere il mio compito, di non darmi alibi, di fare il mio. Questo restituisce anche ad una prigionia, per riprendere la sensatissima metafora di Vito, una dignità di senso.
C’è una bellezza nell’insegnare che ancora non hanno trovato il modo di eliminare, è quella mutua trasmissione di essenze che (in)segna gli allievi. Più è cupo il contesto, più è necessario fare luce. Più fatica, più cuore.
Grazie di cuore ai vostri commenti.
Un abbraccio,
Dario
Carissima Giuliana,
Poi mi sono dimenticato di dirti che una tua partecipazione al gruppo Darsi Scuola sarebbe decisamente gradita. Come nello spirito di Darsi Pace ciascuno aderisce con i propri tempi e disponibilità ma mi sento di poter dire che il tuo contributo, seppur piccolo, sarebbe molto utile alla causa.
Un abbraccio,
Dario
Ciao a tutti!
Sono contenta di leggere e di percepire ancora entusiasmo nel “fare scuola” …nessuno però ha parlato dell’ esperienza ancora in atto, soprattutto alle superiori, della cosiddetta DAD o didattica a distanza !
Da genitore che ha accompagnato la figlia (con disabilità motoria e un ‘sostegno’ quasi nullo da parte della scuola x “mancanza di risorse umane”) durante tutto quest’ anno scolastico verso l’ esame di Stato, posso solo dire che è stata un’ esperienza faticosissima, alienante e frustrante…un ingurgitare nozioni su nozioni da ripetere e utilizzare in vista di verifiche scritte e interrogazioni !
Una condizione di vita scolastica priva di scambio, di dialogo…ore e ore passate davanti a uno schermo senza contatto umano ma davanti a tanti ‘quadratini’ con il viso di persone spesso annoiate e stanche (sia di insegnanti che di studenti).
Spero tanto che la scuola non continui su questa strada, anche se i segnali in questo senso non sono per niente rassicuranti, perché sarebbe davvero la fine della Scuola, nel suo significato educativo più profondo!!!
Auguri, Maria Carla
Gentile Maria Carla,
Grazie per questa tua condivisione.
Mi è stata chiesta una testimonianza e, per fortuna, alle medie abbiamo fatto pochissima DAD quest’anno.
La strada che tu intravedi la scorgo anch’io. La direzione in cui sta andando la scuola mi è purtroppo chiara. Al tempo stesso credo che questa sia una direzione intrapresa non solo dalla scuola ma, come questo percorso ci aiuta a capire, da un intero tipo umano “morente”. L’esperienza che descrivi mi risulta una metafora straordinaria di questa umanità: noia, stanchezza, apatia, incomunicabilità.
La scuola, luogo di formazione e crescita di bambini e ragazzi, mette in luce queste contraddizioni. Le rende insopportabili.
Su questa strada però è possibile ancora portare l’allegria del “nascente”, lavorare con spirito rinnovato senza arrendersi all’evidenza. Confidando in una evidenza ancora invisibile ma molto più potente.
C’è ancora molta strada da fare, il cammino è impervio, spesso mi domando se valga la pena tutta questa fatica, ma se non è un cammino di speranza che camminiamo a fare?
Abbraccio forte,
Dario
Caro Dario, non sai quanto bene fanno queste tue parole. Queste tue dichiarazioni che vengono dal profondo sono acqua di sorgente anche per me che non sono insegnante, ma padre di insegnante che vive indirettamente ma non con meno apprensione le vicende del tempo e dello spazio Scuola.
E vedo che te questo spazio sai “abitarlo” bene. Sí, perché non basta essere presenti, ma bisogna abitare l’ ambiente. Abitare vuol dire entrare in comunione con l’ ambiente che ti circonda, assimilandone il clima ed i contenuti. Avere nel confronto quotidiano con i ragazzi quell’ empatia che ti porta a conoscerli veramente nel profondo. Ciascuno di loro, come Andrea, ha bisogno di una risposta di senso. Gli studenti hanno bisogno di far comprendere di esserci, di essere parte attiva con un bagaglio di emozioni e a volte di sofferenze che spesso condizionano il rendimento.
Ma l’ insegnante spesso non vede questo. È miope e sorvola sugli aspetti che non siano strettamente didattici.
Ieri mia figlia ha raccontato un episodio di un ragazzo che in classe ha fatto una dichiarazione : “siamo sempre chiusi qui dentro….sembra di essere in prigione”
Una dichiarazione forte che ha smosso Elisa (mia figlia) che spostando la sedia si è avvicinata al ragazzo chiedendogli : “ma te sai veramente cosa vuol dire stare in prigione” ? Da uno scambio di domande e risposte sempre più fitto si è arrivati a conoscere una realtà, quella del padre, che mai sarebbe venuta altrimenti in superficie.
Conoscere i propri studenti significa anche entrare, in punta di piedi, in questa sfera per poter avere un approccio adeguato e distinto per ogni situazione.
Non si chiede all’ insegnante di diventare psicologo, ma almeno di avere quel tatto, quelle attenzioni che facciano sentire l’ accoglienza e la comprensione. Invece spesso si creano situazioni di conflitto che contribuiscono ad alimentare il distacco tra insegnante ed alunno.
Gli insegnanti si “alleano” prendendo di mira lo studente. L’insegnante “risvegliato” è colui che ha scelto il suo lavoro con il preciso intento di trasmettere non solo la conoscenza di nozioni ma aiutare a trovare le capacità, i doni non espressi, spesso tenuti nascosti. Far crescere la fiducia in sé stessi concedendo a nostra volta fiducia.
È un lavoro molto arduo Dario, ma come dici te i motivi di soddisfazione dopo sono tanti e
vedere nascere quel virgulto dal seme che hai piantato è veramente una gioia immensa.
Grazie Dario
Caro Pasqualino,
Ti ringrazio di cuore per questa tua condivisione.
Hai scritto parole molto precise e “sorprendenti”.
Sento e vivo la verità profonda di questo tuo messaggio.
Non ho altro da aggiungere.
I bambini e i ragazzi vanno sempre guardati con fiducia. Bisogna sempre “ammirare” lo studente,e non prenderlo di mira, per la potenzialità che sempre c’è ma che ancora magari non si è espressa. Bisogna essere esigenti con la sua parte luminosa affinché sia motivata ad emergere. Se ci si ferma all’ombra, se si giudica il giovane come un cristallo ormai finito e irrecuperabile si commette un errore molto grave. Purtroppo capita.
Grazie di cuore a te.
Un abbraccio,
Dario
Sì Dario, condivido in pieno la tua risposta…c’è proprio bisogno di una rivoluzione antropologica e culturale radicale, che dia spazio e voce a un’ umanità nuova, in grado di esprimere quella dimensione interiore che sembra oggi dimenticata, per non dire zittita e ‘violentata’ !!!
Grazie e buon lavoro, maria carla