«Esperti degli spazi / dalla terra alle stelle / ci perdiamo nello spazio / dalla terra alla testa». Come non condividere queste parole della poetessa polacca W. Szymborska. Sono una studentessa di filosofia di quasi 30 anni, iscritta al primo anno di Darsi Pace. Sollecitata dalla domanda del senso della vita ci tengo ad evitare l’approdo a conclusioni convincenti che soddisfino soltanto il mio lato razionale. Un sapere che fruttifica deve affondare le radici nella terra, nel corpo, cioè deve essere concreto e parte del proprio vivere quotidiano, sia a livello psichico che emotivo e fisico. Queste tre componenti umane, molto diverse tra loro, difficilmente agiscono in modo coerente, e non a caso. Ho trovato in Darsi Pace degli ottimi e potenti strumenti per affrontare la questione sia a livello culturale che psicologico ma anche spirituale. La relazione tra le parti interne dell’anima, come diceva il caro Platone, si riflette nella società. Vorrei allora approfondire il problema, spesso incompreso e dimenticato, che riguarda proprio l’origine della costituzione del nostro modo di pensare, agire e sentire. Nel farlo in questo post attraverseremo il pensiero di un filosofo cecoslovacco, Peter Sloterdijk, e dello psichiatra Stanislav Grof.
Sloterdijk affronta il viaggio della formazione del soggetto partendo dalla prima relazione che abbiamo con nostra madre, quindi dalla nascita. Heidegger diceva che l’uomo è un essere fondamentalmente spaesato e accompagnato da un senso di estraneità rispetto al mondo. Ebbene questa condizione, secondo Sloterdijk, è interpretata alla luce dell’accoglienza primaria che abbiamo ricevuto o meno già nel grembo di nostra madre. La figura geometrica della sfera viene adottata dal filosofo per delineare la dimensione dell’individuo, inteso come una monade sferica che nel mondo esterno si relaziona nell’incontro con altri individui, o sfere. La nostra sfera porta con sé l’imprinting della prima sfera abitata, quella dello spazio condiviso con la madre e ciò influisce sulla permeabilità della membrana. Secondo questa teoria, la nostra vita sarà un tentativo di riprodurre sia nelle relazioni con gli altri, ma anche nell’arredamento della propria abitazione, il primo luogo in cui siamo arrivati. La vita è allora un’estensione dei confini della microsfera originaria, un tentativo di fare del cosmo un grembo. Approfondiamo un po’ più da vicino i tre momenti essenziali della costituzione e formazione di questa sfera.
Teniamo a mente che ogni relazione per il filosofo è costituita da media e da noggetti, un neologismo per indicare “oggetti non dati”, cioè che non stanno davanti ad un soggetto, e che permettono alla relazione di esistere fondando lo spazio abitato.
Sloterdijk antepone alle fasi freudiane 3 fasi preorali:
- la prima è caratterizzata dal regno fluidico ed è chiamata fase di coabitazione fetale; uno spazio vago in cui gli oggetti, cordone ombelicale e placenta, sono presenze silenziose che aleggiano nella . Il sangue placentare è il primo legame mediale, poiché è sempre sia del feto che della madre. Questo eleva il grembo ad entità trinitaria: come lo spirito lega il Padre e il Figlio, così il sangue fa dei due uno. La nostra inoltre, ricorda il filosofo, è una doppia nascita e la separazione dal fedele compagno originario, la placenta, è avvertita durante la vita come una presenza assente, quel là che dovrebbe giustificare il mio quì. Un sacro compagno per gli antichi, l’organo che non esiste per i moderni. La nascita solitaria dei moderni allora porta allo sviluppo di tecniche di solitudine e di compensazione con surrogati, persone, oggetti e immagini. Inoltre, dopo la nascita ciò che esisteva con me diventa l’altro. Le prime non-relazioni vengono proiettate su altri e/o sostituite da simboli che ne preservano il significato originale. Alla luce di ciò, le nostre relazioni sarebbero continui tentativi di ritrovare nell’altro un complemento perduto.
- La fase psicoacustica è quella in cui feto e madre sono posti in vibrazione comune: oltre al battito cardiaco, il saluto della madre si apre al figlio nell’invito di benvenuto al mondo. Questo andare- fuori-di-sé del bambino nell’ascolto è per il filosofo il primo gesto del soggetto e segna la nascita dell’intenzionalità. Questo battesimo acustico invita ad iniziare la vita e funge da modello di orientamento e di selezione nella vita
Essendo la musica l’arte del continuum per eccellenza, Sloterdijk sostiene Thomas Mann quando dice che «la musica è un campo demoniaco», perché è capace di rapirci e di riportarci al momento dell’origine. (La musica infatti mobilita le emozioni associate a ricordi, perciò Grof ne riconosce il valore terapeutico). Una volta usciti dal grembo il rumore del mondo diventa il silenzio della musica perduta. Secondo il filosofo la musica dei mass media soddisfa, apparentemente direi, il nostro bisogno di instaurare relazioni di incorporazione e lo fa inglobando gli individui in un ventre chiassoso, in un luogo in cui poter sospendere la funzione critica dell’io. Dunque, l’uomo è un essere alla ricerca di un legame con un referente trascendente e, come conferma la filosofa e psicanalista Julia Kristeva, senza un orientamento del desiderio verso una Ur-Sache, una cosa in sé, non esiste cura (o per dirla in termini religiosi, non esiste salvezza). Tesi avvalorata ulteriormente anche da Grof, quando riconosce nella psiche l’esistenza di un’intelligenza autonoma e spontanea che spinge sempre verso una soluzione dei problemi.
-L’ultima fase di Sloterdijk è quella respiratoria, che ha inizio dopo l’esperienza iniziatica del primo respiro. L’aria si sostituisce al liquido primordiale e diventa il nuovo media tra neonato e mondo, perciò la voce della madre diventa un nuovo cordone ombelicale acustico. In questa diade ha inizio la storia della comunicazione verbale. La voce della madre, prima annunciatrice del mondo, diventa promessa di poterlo raggiungere o meno, cioè dalle prime impressioni intrauterine di accoglienza o di rifiuto materno, si sviluppa o meno la fiducia nell’affrontare gli ostacoli nel mondo. Dunque, la fede nell’ascolto e nella parola, ma anche la competenza della costruzione di simboli sono strettamente legate, secondo il filosofo, a questa profonda memoria.
Possiamo dire allora che è sulla memoria che si fonda il nostro senso di identità. Chi crediamo di essere è determinato in parte da quelle che Grof chiama matrici perinatali e possono assumere la forma della nostra percezione del mondo. Questo perché oltre al livello biografico dell’inconscio, lo psichiatra ha scoperto livelli ancora più profondi, quello perinatale (gestazione e parto), ma anche transpersonale. Attraverso il recupero delle tecniche del sacro, i suoi pazienti venivano immersi in un ambiente in cui veniva riprodotta una musica evocativa durante la quale sostenevano un ritmo particolare di respirazione. Grof ha indotto così i suoi pazienti, più di 3 mila in 30 anni, in uno stato non ordinario di coscienza ed è emerso che tutte le esperienze da loro vissute erano riconducibili a schemi coerenti e significativi. Le memorie inconsce non sono allora tasselli isolati di un mosaico, ma costituiscono costellazioni dinamiche complesse cariche di emozioni che attraversano tutte le nostre età, ma anche quello che Jung chiamava inconscio collettivo. Grof ne ha individuate 4, a ciascuna delle quali corrisponde una fase della nascita, un tema di base, emozioni specifiche, sensazioni fisiche e immagini simboliche. Mi limito solo a nominarle, data la suggestività dei nomi:
1) Unione primale con la madre; 2) Stravolgimento cosmico, Nessuna via d’uscita, l’Inferno; 3) Lotta di Morte e Rinascita e 4) L’Esperienza di pre-morte. Attraversare la nascita, per poi morire ad una parte di noi, significa rinascere, in una mente e in un corpo nuovi. Significa diventare un altro, traslocare da una sfera mentale a un’altra, rompere il guscio per nascere ancora. Il taglio del cordone ombelicale infatti, secondo Sloterdijk, è il primo gesto produttore di cultura che ci permette di emanciparci.
Non penso affatto di esagerare se dico che il problema della coerenza interna delle nostre parti assume significati di portata non soltanto sociale, ma addirittura cosmica. Mircea Eliade riconosce nell’esperienza religiosa l’esperienza dell’esistenza totale, che rivela all’uomo le sue modalità di essere al mondo e in ciò fonda il mondo stesso! Ma ancora, diceva Platone che vivere significa imparare a morire, quindi rianimare lo spazio che occupiamo e in cui viviamo inglobandolo nella nostra sfera in un processo sacro, per dirla con Sloterdijk, in un processo di acquartieramento dei demoni. Infatti le nostre paure sono disturbi dell’abitare, e lo capiremo. Non a caso, concludendo con Eliade, per gli antichi il male era un funzionario del divino mandato per educarci, era un maestro dell’iniziazione. Allora fermiamoci, e ascoltiamo per una volta cosa ha da insegnarci questo diavolo, perché parla di noi. Sediamoci per darci pace, per rinascere, affrontando quell’arduo compito che siamo e che qualcosa dentro di noi posticipa volentieri.
Meravigliosamente affascinante.
Grazie Ludmilla!
Domando scusa, mi sono accorta che manca una parola nel testo. Ve la riporto qui riprendendo la frase: “sono presenze silenziose che aleggiano nella vicinanza”.
Noi siamo determinati dal nostro corredo biologico? In che maniera? Possiamo essere protagonisti di noi stessi superando le concezioni di destino, karma, condizionamento? Ho sessantacinque anni e la filosofia mi appassiona. Insegno tecniche di recitazione e di ascolto della musica impegnata. Sono contento di vivere perché so che Dio non giudica, siamo noi a giudicarci e la nostra coscienza davanti alla morte è spietata. Sono fuori tema chiedo però un collegamento tra queste domande e il filosofo, il psichiatra da lei citati. Grazie
Grazie cara Ida,
Hai offerto importanti spunti di riflessione.
Un caro saluto
Cristina
Grazie infinite Ida! Non avevo mai sentito parlare di Sloterdijk e di Grof. Riflessione illuminante. Sarebbe bellissimo leggerti ancora a proposito.
Sottolineo in particolare questo passaggio:
“La nostra […] è una doppia nascita e la separazione dal fedele compagno originario, la placenta, è avvertita durante la vita come una presenza assente […]. Un sacro compagno per gli antichi, l’organo che non esiste per i moderni. La nascita solitaria dei moderni allora porta allo sviluppo di tecniche di solitudine e di compensazione con surrogati, persone, oggetti e immagini.”
E vi sottopongo questa domanda: si può quindi recuperare una relazione sana con la ‘mancanza della placenta’, superando la solitudine ed evitando tecniche di compensazione?
Molto interessante!
Grazie Ida.
Un abbraccio,
Dario
[….].Questo eleva il grembo ad entità trinitaria: come lo spirito lega il Padre e il Figlio, così il sangue fa dei due uno…[…]
Mi piace molto questa immagine qui esposta perché restituisce un valore molto profondo al legame madre-padre-figlio. Anche le considerazioni riguardo al momento cruciale del distacco (dal cordone ombelicale materno) sono illuminanti. Penso che questo sia una vera iniziazione, come un “battesimo primordiale” che ci avvia alle nostre numerose morti e susseguenti ri-nascite. Con morte mi riferisco naturalmente a tutto quei “passaggi” necessari ad una evoluzione che ci avvicini alla nostra essenza, alla vera immagine di somiglianza a Dio.
Far cadere ogni atteggiamento distorto, ogni forma di mascheramento difensivo replicato nel nostra esistenza è il presupposto per poter ri-nascere ed aprirsi all’ epifania del Risorto.
Ecco il collegamento con il “lavoro” dei gruppi D.P.
Salta subito agli occhi.
Vorrei sottolineare l’ importanza della fase acustica, avvalorandola con i numerosi studi condotti dagli studiosi, non ultimo A. Tomatis, che ha perfino trovato una connessione del suono con la nascita del nostro (e anche degli altri ?) universi
Grazie Ida
Ammirevole e lodevole il tuo impegno in quanto spunto di nostre semplici quanto utili riflessioni.
Stan Grof ha da molti anni studiato anche un dispositivo pratico con l’intenzione di esplorare anche (ma non solo) questa nuova mappa dell’inconscio. Questa tecnica si chiama Respirazione Olotropica. E’ una tecnica potente e molto terapeutica in grado di riconfigurare nel tempo il nostro modo di “percepirsi” e di “percepire” il nostro rapporto con il mondo.Lo posso dire per esperienza personale avendola praticata per anni.Grazie per questo articolo.
Si, non si finisce mai di imparare e sentire. Grazie Ida
Buonasera, rispondo a Pier Antonio Trattenero.
La ringrazio per il suo l’interesse. Una risposta esaustiva alle questioni che lei solleva richiederebbe ulteriori approfondimenti, molto interessanti, ma di cui non sono esperta, come ad esempio l’ambito delle neuroscienze che si occupa del nesso tra genetica e comportamento. (Se vorrà potrà trovare dei riferimenti nel catalogo nazionale che le riporto di seguito dove può inserire i termini chiave, ad esempio, “genetica e comportamento”: http://opac.sbn.it/ )
Credo comunque di poter ritenere che per entrambi gli autori la complessità della realtà non possa ridursi al dualismo linguistico e concettuale di materia/non materia (quindi di genetica da una parte e di carattere/pensiero/emozione dall’altra) ma entrambi fanno capo, cosa d’altronde inevitabile nella comunicazione verbale, al soggetto come punto di partenza di una delle prospettive del tutto, ma anche come punto di incontro di strutture esterne ed interne che lo determinano, ma che tuttavia non lo riducono necessariamente ad esse. Da una parte Sloterdijk in Sfere affronta una sorta di archeologia del soggetto tramite un linguaggio ricco di riferimenti intersisciplinari e immagini individuando alcune strutture che lo costituiscono. Non conosco però sue trattazioni sul tema del destino. Grof invece parla di karma inteso come “un processo di crescita e sviluppo attraverso la vita, e poi attraverso e oltre la morte” e riconosce che questa credenza, oltre a soddisfare un interesse teorico, ha soprattutto conseguenze pratiche e morali. Infatti chi crede di vivere una sola vita può benissimo evitare di assumersi le responsabilità delle proprie azioni. Il karma invece può essere adottato come principio guida del nostro comportamento. Considerata come una legge cosmica, non ha a che fare col concetto di punizione, ma descrive le conseguenze automatiche delle nostre azioni. È come dire che smettere di sorreggere un oggetto lo fa cadere, esempio di Grof stesso. Una legge naturale quindi che fa capo però alla convinzione di essere spazialmente separati gli uni dagli altri! Senza protagonisti separati la legge del karma non sussisterebbe. Proseguendo nella ricerca personale potremmo invece avere esperienze che ci convincono che il nostro senso di identità separata è un’illusione. Percependo l’unità del campo di coscienza cosmica si può anche smettere di credere nel karma e nell’idea stessa di reincarnazione, nonostante diverse esperienze riportate da persone in tutto il mondo possono convincerci dell’esistenza di correlazioni tra vite in tempi e spazi diversi. Quindi secondo Grof non c’è una sola risposta alla questione del karma, ma “tutto dipende dallo stadio evolutivo nel quale ci si trova”. La fisica moderna ha già dimostrato come gli oggetti non siano separati spazialmente, ma che a livello subatomico è tutto interconnesso. Quindi, in fin dei conti, il solo e unico protagonista delle nostre vite è quello che gli indù chiamano Brahman, cioè la Coscienza Assoluta. Tutti i confini che possiamo sperimentare nell’esistenza, o esistenze, sono infine arbitrari e discutibili.
A chi vuole il compito di conoscersi ed estendere appunto i confini identitari per darci pace.
Spero di aver soddisfatto anche se solo in parte il suo interesse.
Una buona serata
Ciao Cristina, grazie a te.
Federica, la placenta così intesa solleva la questione dell’altro e del mio doppio, l’altro me stesso, ma anche l’angelo e il mio protettore, il totem e tutte quelle figure che simbolicamente rimandano all’altro e che fa sì che io sia. Un tema molto vasto di cui a lungo se ne potrebbe parlare e a mio avviso interessantissimo. Visto che siamo in Darsi Pace, lo stato dell’io che Marco Guzzi ha definito io-in-conversione credo possa rappresentare proprio il ricongiungimento con una parte di me che è andata perduta e che lei sola può completarmi (e forse mai definitivamente, ma sempre e di continuo). La relazione con gli altri per essere autentica e creativa non può che essere allora, paradossalmente, fondata in questo stato dell’io che necessita innanzi tutto di essere ritrovata dentro di noi in un arduo e faticoso lavoro costante per poter essere poi riconosciuta fuori con gli altri. Allora non saremo mai soli, ma sempre accompagnati da questo spirito che veglia in e su di noi. Ad ogni modo trovo curioso e mirabile come l’organizzazione della natura tutta possa rappresentare sin nei suoi dettagli un continuo rimando al modo in cui siamo fatti nella nostra interiorità.
Un caro saluto
Grazie per la risposta! Spesso mi sono ritrovata a fantasticare su come l’organizzazione dell’universo possa essere un rimando alla nostra interiorità. E sapere che esso è in espansione accelerata mi fa pensare che anche la nostra interiorità potrebbe evolvere ‘espandendosi’ in maniera accelerata. Forse è proprio un richiamo di quel processo di estensione del confine identitario, a cui accennavi nella risposta sopra.
Grazie ancora!
Grazie a te Dario.
Grazie Pasqualino per le tue riflessioni e spunti che hai condiviso.
Arianna è proprio alla Respirazione Olotropica dei coniugi Grof che mi riferisco. Grazie per averlo ricordato!
Un saluto anche a Simonetta.
Federica è molto bello a volte fantasticare come fai tu su questi argomenti, e lo è ancora di più viverli, cosa che fa un po’ paura all’inizio (e l’inizio è molto lungo…). Darsi Pace appunto offre validi strumenti concreti per sostenerci in questo incredibile viaggio.
Buon proseguimento a tutti.