DarsiSalute propone la seconda parte dell’intervista al teologo Duilio Albarello, docente di teologia fondamentale alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano e Torino, nonché direttore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Fossano (CN).
Nella scorsa conversazione abbiamo iniziato a parlare di miracoli, nell’accezione specifica che questo gesto assume nella vicenda di Gesù di Nazareth: un gesto di cura del corpo che si fa subito gesto del prendersi cura della persona.
Qui continuiamo a parlare di quei “segni”, per usare la terminologia giovannea, che non hanno però i caratteri che a noi umani piacciono tanto: quelli dell’eclatante, dello stupefacente, della soluzione facile a problemi difficili.
Gesù ha il suo stile, quello della cura a voce bassa, nell’intimità defilata, perché il prendersi cura è discreto e gratuito, non chiede niente in cambio.
Dentro una relazione di affidamento (la fede che salva), la guarigione è possibile, se le condizioni storiche la rendono ancora un’opzione disponibile. Gesù non travalica le dinamiche storiche, invece le potenzia per cogliere anche l’ultima tenue pennellata di vita e da lì crearne una nuova.
Perciò Gesù può dire ai suoi: “In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi…” (Gv 14, 12). Anche noi, cioè, come spiega Albarello, dentro una relazione di abbandono fiducioso, siamo chiamati alla responsabilità del prenderci cura gli uni degli altri, mettendo mano a tutte le nostre capacità e risorse, per far scaturire la vita là dove ne sia rimasta anche solo più una goccia.
Così, nel silenzio del fuori scena, i miracoli si compiono, se l’attesa non diventa pretesa, se l’ordinario viene assurto alla dignità dello straordinario, se non cadiamo nella tentazione di voler vedere trasformate le pietre in pane.
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