I. Imparare a pensare
Il compito fondamentale della classe intellettuale, come indica l’etimologia della parola, dovrebbe essere quello di intus legere. Ma che cosa significa veramente intus legere, al di fuori di ogni banalizzazione o preconcetto?
Il verbo latino legere ha assonanza e affinità con il greco λέγω(lego), da cui deriva il termine λόγος(logos), parola fondamentale per tutta la civiltà occidentale. Logos comunemente viene tradotto con “discorso”, “parola”, “logica”, anche in quelle parole composte che campeggiano sugli edifici delle facoltà universitarie: antropo-logia, bio-logia, tecno-logia, filo-logia, musico-logia, che traduciamo solitamente con “studio dell’uomo”, “studio della vita” ecc.
Il verbo λέγω, che ha assonanze anche con il latino religāre, al quale secondo Lattanzio andrebbe ricondotta l’etimologia di religione, innanzitutto indica un’azione, ovvero quella del “legare assieme”, ovvero del “raccogliere”. Ma che cosa si tratta di legare assieme, di raccogliere, leggendo? Può essere raccolto insieme solamente ciò che di per sé resterebbe separato, slegato. Vengono legate cioè delle sostanze quando il prenderle insieme serve ad un fine che le loro parti prese individualmente non potrebbero raggiungere. Vengono legati per esempio i capelli per tenerli in ordine, oppure delle fascine per essere bruciate.
Ecco che a mio avviso inizia a risuonare un primo significato della parola leggere: legare assieme, mettere assieme, riunire, dare ordine a ciò che di per sé resterebbe slegato, disperso. Leggere significa unire una molteplicità per uno scopo, dandogli un significato unitario. Vuol dire perciò saper vedere in una molteplicità una comunanza. Questo è il compito degli intellettuali: sapere leggere, saper collegare la molteplicità dei fenomeni e delle manifestazioni della realtà secondo una unità? Vedere cioè oltre l’apparenza del visibile e del dato immediato, per scorgere più in profondità, dentro(intus) la realtà, il senso degli eventi?
II. Dare un senso agli eventi
Questo esercizio filologico non intende essere sterile pedanteria fine a se stessa, quanto piuttosto mostrare in che misura la condizione drammatica che stiamo vivendo dipenda e sia connessa con l’incapacità di saperla leggere e interpretare. Credo vi sia una responsabilità storica della classe intellettuale, rea di non sapere fornire delle chiavi interpretative, degli strumenti di analisi mediante i quali affrontare questa fase senza subirla e senza essere preda del caos, della rabbia e dell’impotenza. Scrive per esempio lo psicologo George Kelly:
«Una persona può essere testimone di una ampia sequenza di episodi e, tuttavia, se non riesce a dare loro senso o aspetta che si siano conclusi prima di provare a ricostruirli, ottiene poco dall’esperienza di essere stato in prossimità di questi eventi mentre accadevano»[1].
Milton J.Bennet, sociologo americano, commenta così la citazione:
«Con il termine ‘episodi’ Kelly implica che non vi sono significati intrinseci nei fenomeni stessi. Le persone devono “farsene qualche cosa”, cioè hanno bisogno(e necessariamente devono) interagire con gli episodi per trasformarli in eventi con un significato».
Rispetto all’intero fenomeno pandemico credo che sia ormai evidente come i cosiddetti esperti, competenti, analisti, filosofi, politologi e sociologi, siano stati in buona parte amplificatori del caos, della confusione, sottoscrivendo acriticamente la narrazione preconfezionata e dominante.
Il rimosso, il censurato dall’opinione pubblica, resta sempre il vuoto che si crea fra il vissuto esistenziale e l’incapacità di dargli un senso, di renderlo degno di elaborazione e quindi inserendolo in un tutto significativo. Nel fare ciò il danno peggiore che viene fatto è quello di relegare la coscienza dei soggetti nel buio della loro disperazione senza nome, nei vari muri invisibili dei distanziamenti mentali e sociali, in quel grande gioco di specchi che è la nostra esistenza virtuale contemporanea, di un bisogno di senso sempre rimandato, mai corrisposto, perché le priorità sono altre, e dettate dall’alto.
III. Superare i tre grandi pericoli
Ci sono tre grandi pericoli, a mio avviso, che stiamo correndo tutti, aldilà delle differenze relative alle situazioni individuali, che corrispondono a tre modalità di risposta in definitiva fallimentari rispetto alla crisi in atto. Sono quelle che vengono solitamente indicate in letteratura scientifica come le tre grandi tipologie di strategie difensive per rispondere ad una minaccia o per adattarsi ad un cambiamento nell’ambiente: il congelamento(freezing), la fuga(flight) e l’attacco(fight)[2].
Credo che tutti noi stiamo, in misura maggiore o minore, oscillando fra queste tre diverse modalità di risposta all’incertezza e alla frustrazione, anche a seconda delle diverse strutture caratteriali. Provo a sintetizzarle secondo quella che è la mia esperienza e anche il racconto di tante persone che ho ascoltato in questo periodo:
1) Il congelamento: consiste in una condizione nella quale ci sentiamo bloccati, inermi e inerti, scarichi mentalmente e fisicamente, come se fossimo preda dei molteplici stimoli esterni, che ci soverchiano, e in risposta dei quali, letteralmente, ci spegniamo. Credo che molti in questo anno abbiano risposto automaticamente in questo modo. In associazione magari a forme da lieve a severe di depressione e ansia, come mostra una recente ricerca dell’Università di Padova:
«We found subjective cognitive functioning and mental health severely changed in association with the lockdown. Under government regulations, cognitive complaints were mostly perceived in routine tasks involving attention, temporal orientation and executive functions. (..)We found higher severity and prevalence of depression, anxiety disorders, abnor-mal sleep, appetite changes, reduced libido and health anxiety: with mild-to-severe depression and anxiety prevalence climbing to 32 and 36 percent, respectively, under restrictions».[3]
L’isolamento e il distanziamento sociale, l’ansia derivante dai mezzi di comunicazione e il tele-lavoro, sono ovviamente tutti fattori che contribuiscono all’attivazione di questo stato patologico. È inutile dire che una popolazione paralizzata dalla paura e dallo shock, incapace di reagire e di rispondere efficacemente alle sfide in gioco, sarà molto più vulnerabile e disposta a rinunciare volontariamente, come scrive il rapporto Censis, alla propria sovranità, in cambio della sicurezza e della cessazione del pericolo:
«Spaventata, dolente, indecisa tra risentimento e speranza: ecco l’Italia nell’anno della paura nera, l’anno del Covid-19. Il 73,4% degli italiani indica nella paura dell’ignoto e nell’ansia conseguente il sentimento prevalente in famiglia.
La prima scoria dell’epidemia è la propensione a rinunciare volontariamente alla solitamente apprezzatissima sovranità̀ personale:
– il 57,8% degli italiani è disposto a rinunciare alle libertà personali in nome della tutela della salute collettiva, lasciando al Governo le decisioni su quando e come uscire di casa, su cosa è autorizzato e cosa non lo è, sulle persone che si possono incontrare, sulle limitazioni della mobilità personale»[4].
2) La fuga: nella seconda modalità di risposta rientrano tutti quei comportamenti reattivi che mirano a distanziarsi il più possibile dalla fonte della minaccia e dalla situazione angosciante. In questa tipologia troviamo anche tutte quelle forme di conformismo, di accettazione passiva delle misure imposte dallo stato di emergenza, che in qualche modo consentono di rientrare in una normalità condivisa e quindi di essere rassicurati.
La fuga qui è cioè anzitutto mentale e interiore, come protezione rispetto al caos di fuori. Ci si isola magari, smettendo di seguire le notizie; si continua a portare avanti la propria attività lavorativa quasi mettendo fuori dalla porta la realtà esterna. La fuga può essere nei mondi virtuali, nelle serie tv o nelle piattaforme di comunicazione.
3) L’attacco: la terza e l’ultima strategia difensiva è quella dell’attacco, della risposta di forza. Apparentemente potrebbe sembrare quella più adatta per reagire con decisione e assertività. Mi sembra che anche diverse forme di esplosioni di dissenso e di rabbia, anche legittime, possano rientrare in questo punto. È innegabile che la paura di perdere il lavoro o di non avere risorse economiche sufficienti per sopperire ai bisogni, così come una certa frustrazione e atmosfera nervosa cronica, costituiscano il terreno ideale per la crescita di manifestazioni violente. Se tuttavia le energie attive derivanti dalla necessità di fare qualcosa non vengono orientate verso un fine e un progetto ad ampio raggio, rischiano a mio avviso di risolversi in un fuoco di paglia, ottenendo magari l’effetto opposto rispetto a quello che intendevano produrre.
IV. La risposta corretta: una rivoluzione mentale e politica
Quale può essere perciò la modalità adeguata, individualmente e collettivamente, di vivere questa fase apocalittica della storia? Come possiamo affrontare i pericoli derivanti dalla crisi economica, sociale e psicologica, se abbiamo visto come la paralisi, la fuga e l’attacco siano in definitiva fallimentari? Quali sono le attitudini che possiamo coltivare in noi e fra noi, se non sono quelle di un certo spegnimento depressivo, del conformismo e della fuga, oppure dell’attivismo frenetico e dell’agire convulso?
Direi che l’unica via di uscita consista anzitutto nel non essere preda di queste risposte difensive. La rivoluzione risiede nel restare dentro la prova, nel vegliare, rimanendo vigili e attenti. Accettando una certa dose di smarrimento, di dolore e di paura. Ma non fuggendo la situazione, non dissociandosi dall’inquietudine che provoca.
Perseverare nella fiducia che sia possibile conferire senso e significato a questa esperienza collettiva proprio mediante la nostra ricerca attiva. Ciascuno di noi è chiamato a decidere se e in che misura tentare di utilizzare questa sfida come prova per restare umani oppure per essere definitivamente rapiti dalle varie forme di alienazione e disumanizzazione.
Trasformando pazientemente e con cura la rabbia e le emozioni negative in fonti energetiche per immaginare, desiderare e concepire nuove modalità relazionali e politiche di rigenerazione della società. Da questa esperienza potremo uscirne solamente nella misura in cui lo faremo assieme, e quanto più saremo capaci di attingere a una fonte di integrità, di forza e di intelligenza che ci abita. Scrive per esempio Deb Dana, consulente specializzata nel lavoro sul trauma complesso:
«In seguito a decadi di studi, sappiamo che essere separati dalla connessione sociale, isolati dalle altre persone, è un fattore di rischio permanente, che influisce sia sulla salute fisica che su quella emotiva. La disconnessione sociale e l’esclusione sociale attivano gli stessi percorsi di dolore dell’esperienza di un effettivo trauma. (..)La nostra comune esperienza è di sentire sollievo in presenza degli altri, e turbati quando veniamo abbandonati. Viviamo in una cultura che incoraggia l’autonomia e l’indipendenza, e nonostante ciò, dobbiamo ricordarci che siamo programmati per vivere in connessione»[5].
In questo senso credo che le pratiche di concentrazione e rilassamento della mente, di ascolto delle emozioni e dei proprio stati d’animo e di quelli altrui, così come lo studio, la lettura, e le prassi di trasformazione politica del sistema neoliberista, vengano a coincidere in una nuova modalità di concepire la rivoluzione.
Solamente quando saremo in grado di dare vita ad un campo di eventi fra individui veramente in relazione fra di loro, consapevoli dell’integrazione e dell’interconnessione fra i molteplici campi del reale, potremo non solo intus legere quello che (ci)sta accadendo, ma anche intuire e sperimentarne la direzione evolutiva. Hegel, che ha meditato si può dire tutta la sua vita sul mistero della storia e del superamento continuo del negativo, credeva che esistessero degli individui capaci di cambiare il corso delle cose, che lui chiamava Weltgeschichtliche Individuen(individui storici). Di questi individui diceva che:
«Essi assumono i loro fini e il loro compito non dal sistema stabile e ordinato, dall’ordine consacrato delle cose. Il loro diritto non deriva dalle condizioni presenti, ma da un’altra fonte alla quale attingono. È lo spirito nascosto che batte alle porte del presente (..) che non ha raggiunto ancora l’esistenza e la vuole raggiungere».
“Questi individui non hanno un concetto filosofico di ciò che vogliono realizzare, lo sentono istintivamente: la loro intuizione è quasi animalesca(gleichsam etwas Tierisches), e la prova che essi colgono nel segno è il successo, il seguito che hanno”[6].
Questo tempo storico ci sta chiamando ad un salto di coscienza antropologico senza precedenti: l’apocalisse in atto è solo la sua rivela
[1] Essere umani, Prospettive per il futuro, a cura di Emilio Del Giudice, Alberto Giasanti, Luciano Marchino. Citazione tratta dal saggio “Costruire il Paradigma Quantistico nella Scienze Sociali” di Milton J.Bennet, p.18.
[2] Vedi Deb Dana, La teoria polivagale nella terapia. Prendere parte al ritmo della regolazione, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2018.
[3] https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0246204
[4] https://www.censis.it/rapporto-annuale/54%C2%B0-rapporto-sulla-situazione-sociale-del-paese2020
[5] Deb Dana, La teoria polivagale nella terapia, p. 37/8.
[6] Citato in S.V.Rovighi, Storia della Filosofia Moderna. Dalla rivoluzione scientifica a Hegel, p.863.
Grazie Francesco!
Hai ‘scattato’ una fotografia davvero realistica dei tempi che stiamo vivendo.
Personalmente continuo a riconoscermi in quella condizione di “freezing” di cui parli, scarica -come mi sento- mentalmente e fisicamente, con la paura quotidiana di non riuscire a dare un senso a ciò che faccio…
Mi consola il fatto di poter leggere e scrivere di tutto ciò, forse qualcosa incomincia a sciogliersi!
mcarla