Sono sempre meno soddisfatta da affermazioni iper-relativistiche della serie:
“Lascialo fare, magari è contento così. Tu che ne sai di quello che è vero, bello, sano?” Mi è capitata recentemente una simile conversazione, quando qualcuno mi ha chiesto come stesse mio padre. Ho risposto che lo trovavo male, spento, sempre a lavorare ingobbito dietro a quel computer, con gli occhi rossi, e che questo modo di essere “non è vita.”
Perciò la mia interlocutrice ha risposto che questo non potevo dirlo, e che mio padre magari era soddisfatto così. Un’ora dopo mi hanno chiamata avvisando che lui era appena finito in pronto soccorso con dei valori tanto sballati da predisporlo ad un ictus.
Questo stesso relativismo disincarnato raggiunge livelli estremi negli Stati Uniti, dove studio attualmente. Lo vedo palesarsi innanzitutto nei corpi delle persone, con forme e dimensioni cancerogene, con caviglie che sembrano un pallone da football, glutei pompati che per quindici secondi ondeggiano sullo schermo di milioni di persone implorando un like. I colori in voga sono quelli della morte o del veleno – nero, grigio con accenti fucsia, giallo, arancio evidenziatori –come i bibitoni e le caramelle extraterrestri, che costano quasi meno dell’acqua.
È un’estetica che definisce l’umano contro la natura – in cui lo sterile e il prevedibile svettano sui corpi dei nativi americani, putrefatti da cent’anni, antichi guardiani di quelle terre. A volte ci penso quando cammino all’ombra dei grattacieli di Chicago – che tutto quel cemento, ferro, vetri antisettici, sono stati gettati su una civiltà nuda, la cui saggezza, poiché non contenuta o contenibile in manoscritti, è stata trucidata con i corpi di quei poveri pazzi che sapevano di appartenere ad un ecosistema.
C’è da dire, d’altra parte, che nel nord America il fatto di essere riusciti a urbanizzare questi territori è ammirevole, poiché il clima è ostile e la natura poco generosa. Chicago, infatti, nella lingua della tribù che l’ha fondata, vuol dire “città delle cipolle selvatiche.” È anche soprannominata the Windy City – la città ventosa – poiché ci sono raffiche tali da mozzare il fiato. Conosco una bambina che, attraversando la strada d’inverno, ha spiccato il volo con il cappotto gonfio dal vento per poi ricadere qualche metro più in là, in mezzo alle macchine. In quella stagione, talvolta le temperature raggiungono i meno trentacinque gradi centigradi. Ci sono volte in cui, percorrendo un tratto all’esterno, mi tasto i bulbi oculari sotto alle palpebre socchiuse per paura che mi si gelino.
Dopotutto è capitato di vedere qualche cadavere senzatetto in un sottopassaggio, impietrito dagli elementi. E allora come mai ci vivono milioni di persone? Chi sono questi poveri disgraziati che sono fuggiti dalle loro terre natali per Chicago?
I principali gruppi di persone che si sono insediati in questo grigio piattume sono:
- Circa due milioni di polacchi fuggiti durante la Seconda guerra mondiale o dal regime sovietico.
- Irlandesi che hanno attraversato l’Atlantico a causa della carestia del 1847 e delle persecuzioni degli inglesi.
- Afro-americani emancipati con il tredicesimo emendamento del 1865 che poneva fine alla schiavitù (almeno quella ufficiale) e che, spesso perseguitati dai loro ex-padroni, sono fuggiti dal sud e dalle sue piantagioni (dove non crescono solo cipolle).
Per non menzionare i Messicani, Colombiani, Puerto-Ricani cercanti lavoro da un Sud America devastato dagli Stati Uniti; o anche i nostri connazionali del sud schiacciati dai Savoia dopo l’unità d’Italia (uno di questi divenne Al Capone). Il punto è che i costruttori della città delle cipolle selvatiche erano veramente dei poveri disgraziati; gente che, perseguitata a casa propria, dovette fuggire per un fazzoletto di terra da chiamare proprio, un angolo dove, non banalmente, gli fosse concesso di essere padrone di sé stesso.
I traumi spesso ci rendono egoisti, ed è così che i colonizzatori non ci hanno pensato due volte prima di annientare le popolazioni native. Non conoscendo questa nuova, vasta natura non hanno potuto far altro che imporcisi, domarla. Non c’è stata nessuna trasmissione ancestrale sul come coltivare quella terra. Chi c’è arrivato sapeva solo che era terra, e che poteva appropriarsene. Quando non abbiamo strumenti spirituali per essere padroni di noi stessi ci illudiamo che le conquiste siano materiali.
Quando non sai chi sei, hai bisogno di una facciata, di un muro, di un edificio, di un grattacielo per tenere in piedi un’identità. Si sa che questo materialismo e il relativismo sono correlati: laddove non hai più una spina dorsale, ma un esoscheletro, qualsiasi unità dell’essere svanisce. I vari “pezzi” che ti costituiscono diventano cambiabili, sostituibili, usa-e-getta. Comprati i capelli di un altro colore; marcati, marchiati diversamente (in quella diversità delle apparenze); comprati pure un altro sesso – tutti questi sono rivestimenti se non sei capace di tenerti in piedi nudo, di lasciate che la tua pelle e i sui sensi traspirino, nutrendosi e nutrendo il tuo ambiente, la tua natura.
Trans-migrare da una umanità centrata sull’avere ad una radicata nell’essere è responsabilità di ciascuno di noi. La “roba” che ci riveste può metterla e mettercela addosso chiunque. Se siamo quello, potremmo essere chiunque, o nessuno. Diveniamo prevedibili, sostituibili, usa-e-getta. Il sogno di libertà americano è fallito per aver esternato l’identità, frammentando l’uomo. Occorre una ri-costituzione del nostro essere basata sulla fede come esperienza di unità, in cui non serve una app per determinare se tu o l’altro stiate bene, in cui ci si fida di quello che si vede guardandoci negli occhi.
“Trans-migrare da una umanità centrata sull’ AVERE ad una radicata nell’ESSERE è responsabilità di ciascuno di noi.” Invecchiando le cose della giovinezza si fanno più chiare , rivelative nel loro vero Spirito. Allora , negli anni sessanta, leggevo “ AVERE o ESSERE ? “ il famoso libro di Erich Fromm, grande psicologo umanista americano che con questa domanda, interrogava la società consumistica, quella che dal dopo-guerra, dagli anni cinquanta, ci ha portati all’attuale disastro ambientale e ai corpi sovrappeso , depressi e infelici, come descritto in questo concreto Post da mal di pancia, sul “ Sogno americano” e il suo grande fallimento. Ma il male americano, potrebbe inorgoglire l’Io egoico di noi europei , facili a inorgoglirci per la dieta mediterranea e distrarci con il gioco e l’industria del calcio, dai nostri altrettanto concreti rischi di fallimento del nostro stesso progetto storico, politico e spirituale.
Grazie, davvero. Questa “presa diretta” di una umanità spersa, che non capisce chi è davvero, frastornata da luci al neon e dalla pubblicità, è alla fine un atto di carità. Quella di dire le cose come stanno, denunciare un malessere, per iniziare a curarlo. Se continuiamo a correre e non ci fermiamo a dirci “ma come sto?” nessuna cura sarà mai possibile.
Ora che finalmente i paraocchi ideologici non tengono più, veramente possiamo iniziare – noi europei, americani, italiani – a chiederci come stiamo, a guardare la nostra storia in modo diverso, come dice Marco Guzzi, in modo da risanarla, pian piano: il tempo è del tutto relativo (ce lo dice anche la fisica), e il passato stesso lo possiamo “toccare”, “guarire”, se accogliamo il lavoro da fare su noi stessi, nel presente.
Allora mi pare bello guardare tutto il mondo con questa prospettiva, questa speranza. E solo con questa possiamo denunciare i mali e le afflizioni, senza esserne travolti.
Quello che si sente in questo “scritto americano”, esattamente.
Ora che “ i paraocchi ideologici non tengono più” come l’amico Castellani fa notare, questo è davvero il tempo che porta a galla ogni Verità nascosta, come l’olio che anche rimescolando, viene sempre a galla sul pelo dell’acqua.
A conferma di quanto i grattaceli del “ sogno americano” hanno tentato di nascondere, poiché sorti sulle ossa di milioni di “nativi americani “ sterminati dai coloni provenienti dalla Vecchia Europa, è venuta a galla di recente l’orribile notizia delle 182 tombe di bimbini e bambine “nativi nord-americani” , nei pressi di un ex collegio cattolico in Canada.
Erano bimbi morti in giovane età , sottratti alle loro famiglie d’origine, come conseguenza di una loro integrazione culturale forzata, per adattarli alla nuova cultura materialista e dominante dei coloni, che dalla matrigna Europa avevano traslocato in quei nuovi territori la stessa cultura di dominio e di sopraffazione egoico- bellica.
La stessa cultura materialista, riduzionistica in senso spirituale dell’essere umano, che erge sè stesso soggetto auto-sufficiente alla propria vita, finendo con l’essere solo auto-distruttivo di sè e del mondo, che ancora sopravvive e determina ancora oggi, la storia dell’America dei nostri tempi, perciò del mondo.
E’ una visione di sè e della vita ancora capace di produrre disastri e gravi ferite nell’anima e nei corpi, col razzismo e le spudoratezze dei “ suprematisti bianchi” sostenitori dei deliri di Trump & C. e dei costruttori di armi e del loro libero utilizzo.
Un suprematismo anche apprezzato dai poteri “forti” o meglio violenti, della Russia e della Cina, oltre che dai nazi-fascisti europei e nazionali, sui quali viene sempre steso il velo , falsamente pietoso e criminale, dell’opportunità politica o geo-politica.
Della cultura “ dei bianchi suprematisti” fummo tutti vittima nella giovane età, quando nei Cinema-Oratori dei nostri paesi al suono della carica del 7° Cavalleria, i terribili e selvaggi pellerossa, venivano posti in fuga e tutti noi ragazzini ci si alzava in piedi, in gran trambusto di sedili di legno ripiegabili e di scricchiolii di patatine finite sotto i piedi altrui, per gridare tutti insieme : “ Evviva arrivano i nostri !”
I nostri chi ? Una domanda iniziatica, che principiai a pormi settant’anni fa e che si traduce oggi in questa : ” Io da che parte sto?
Che Manitu’, o Wakan Tanka – il Grande Spirito della Vita – ci conceda la consapevolezza , in Cristo, di chi siamo veramente, come forse l’avevano già capito quei ” maledetti pellerossa” in sintonia con gli ecosistemi , magnifici doni di Vita e Bellezza, spesso distrutta dalle nostre ignoranze e presunzioni , ma che sempre a noi si rivela, come una fondata Speranza .