Men’s curiosity searches past and future
And clings to that dimension. But to apprehend
The point of intersection of the timeless
With time, is an occupation for the saint —
No occupation either, but something given
And taken, in a lifetime’s death in love,
Ardour and selflessness and self-surrender.
Questi versi di Thomas Eliot, tratti dal terzo dei Quattro quartetti, in italiano potrebbero suonare pressappoco così: «La curiosità degli umani esplora passato e futuro / E si avvinghia a quella dimensione. Ma afferrare / Il punto di intersezione del senza tempo / Col tempo, è un lavoro da santi – / E neppure un lavoro, ma un che di donato / E ricevuto, nel morire di una vita nell’amore, / Nell’ardore, nell’abnegazione, nella resa di sé».
Paradossalmente, proprio alla luce di ciò che stiamo tutti attraversando in questo frangente epocale, mi pare che il nostro sia più di ogni altro il tempo dei santi, il tempo cioè dei nuovi chiamati alla salvezza, chiamati a tornare in sé dopo un lunghissimo itinerario storico – giunto ormai indubbiamente allo stremo delle proprie possibilità evolutive. Del resto, le grandi tradizioni spirituali, in accordo con le parole del poeta, ci insegnano che per tornare in sé, per tornare al vero Sé, occorre innanzitutto imparare a morire a quello che – errando – abbiamo scambiato per il nostro “io”. Non a caso nella tradizione cattolica soltanto i morti vengono proclamati santi. Ma la santità appunto non è altro che uno stato di immacolata semplicità, che lascia cioè pienamente tras-parire il Volto del vero Principio senza distorsioni, intrusioni o vane proiezioni egoiche.
A ben vedere, l’uomo contemporaneo abita in un paesaggio oltremodo saturo, sovraffollato da pesi emotivi, sociali, ambientali, storico-collettivi, culturali. Si direbbe che non sappia più dove sbattere la testa. Come per chiunque dipenda in modo paranoide dai propri attaccamenti, neanche noi riusciamo a rinunciare – una buona volta – a tutto ciò che ci soffoca e ricolma fino a scoppiare. Siamo come tanti sovrani decaduti che non vogliono abbandonare il proprio patrimonio, pur visibilmente ridotto in cenere. Anzi, ci ostiniamo a restaurarlo, a ritoccarlo come si fa con le salme o coi fossili d’altri tempi. Ricordo che da bambino sognavo intensamente di essere re, ho sempre nutrito un certo sentimento di grandezza e autorità, ma allora non avrei mai creduto che per essere veramente incoronati occorra prima imparare ad abdicare.
In questa formula paradossale si sintetizza invece l’Appello misterioso e grandioso delle nostre vite attuali. “Abdicare” suona come “abnegazione”, contiene la radice dic-, che è la stessa di dire, di giu-dicare, di in-dicare, ma la ritroviamo anche nel greco deìknymi (mostrare, rendere palese) e nel tedesco dichten (poetare). Ab-dicare vuol dire essenzialmente fare un passo indietro, retro-cedere, rinunciare a tutto ciò che è surrogato, ripiego o anestetico alla vita veramente vissuta. Dobbiamo imparare ad abdicare anche a quelle immagini di noi stessi che ci vorrebbero impotenti, schiavi ciechi e senza scampo di un sistema che invade ormai la nostra vita personale, i nostri spazi giuridici e psichici, contagiandoci con la sua ossessività e paura atavica di morire.
Quella che Eliot chiama self-surrender non è affatto, in questo senso, una rinuncia al nostro essere, al contrario, è un saper rendere, un ar-renderci alla Grazia che ora vuole irrompere nel mondo, incarnarsi nei nostri corpi per renderci salvi davvero, cioè sani e santi nel nome di Cristo e del suo Regno ad-veniente. Solo divenendo noi stessi dei troni vacanti, cioè dei vasi vuoti e accoglienti, sperimentiamo in concreto l’ebbrezza dell’incoronazione dello Spirito: l’evento che per la prima volta ci dice chi siamo, ce lo in-dica in-dicendo una nuova età del mondo, del nostro essere-nel-mondo personale e collettivo.
Su questa onda, le parole del libro dell’Apocalisse (14,13) – divinamente musicate da Brahms nel suo Deutsches Requiem – ci possono risuonare come un annuncio preciso e meraviglioso, come l’esperienza di una morte che si fa immediatamente Portale vivente di un nuovo Inizio: «Beati d’ora in poi i morti che muoiono nel Signore. Sì, dice lo Spirito, riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono». Non a caso subito prima aveva detto (14,12): «Beata la costanza dei santi».
Credo allora che in un tempo così oscuro e difficile come il nostro, penetrando con questo autunno nella notte dell’anno, potremmo riscoprire il significato profondo e misterioso, cioè iniziatico, di queste due festività cristiane – quella di tutti i santi e quella dei defunti – in una luce più autentica, più viva e sensata. Non si tratta di ripristinare un devozionismo esteriore e tradizionalistico. Al contrario, è come un prestare maggiore ascolto alla Chiamata battesimale che tuona discreta nei cuori mentre caliamo sul fondo delle nostre tenebre.
Non è un gioco, perché ci giochiamo così in ogni istante il nostro essere molto più della nostra semplice sussistenza biologica. È proprio una battaglia, la grande battaglia dello Spirito, da cui nessuno oggi può sottrarsi. Lottiamo in vero per essere più liberi, più umani, più santi e più divini nell’epoca in cui sembra venuta meno la benché minima memoria del senso di queste parole. Eppure, io credo, non è un dramma: è tutto terribilmente alla nostra portata. L’unica cosa che dobbiamo fare ogni giorno, anche quando ci sentiamo nel cuore dell’inverno, è riconoscere questo mistero come il Fuoco primo e ultimo delle nostre esistenze. E come ha scritto San Paolo (1Cor 15, 51-52): «Ecco, io vi annuncio un mistero: noi tutti non moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba. Essa, infatti, suonerà e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati».
Così sia.
Caro Luca, grazie di queste parole. Io le ho sentite come una testimonianza di fede profonda.
Per questo ti invidio. Non è bello provare invidia, lo so, anzi è terribile , però è così. Ti chiedo perdono ma nello stesso tempo ti ringrazio perché le tue parole di speranza mi scaldano l’anima.
Caro Luca, grazie di cuore.
Uno può essere cristiano da così tanto tempo che rischia di darlo “per scontato”. E vivere stancamente o con mente offuscata perfino i “tempi forti” della fede. Questo tuo scritto ispirato mi aiuta a percorrere questi giorni con un briciolo di consapevolezza (e di speranza) in più. Un briciolo fondamentale.
Un abbraccio.
Caro Luca Ti ringrazio per le parole che sgorgano dallo Spirito divino che alberga in tutti noi e che tu sei riuscito ad ascoltare in virtù della Tua capacità di farti vaso vuoto. Sono le tue parole di forza e di coraggio, di amore per la vita e per Dio, o principio universale del tutto. Ti ringrazio. Le leggerò e le ascolterò facendole risuonare in me, ma soprattutto spero di poterle far calare nelle mie viscere perché si incarnino in me ed in tutta l’umanità. Buona festa di Ognissanti a tutti.
La figura del Santo, del virtuoso, dell’uomo-modello può essere ravvisata in molte tradizioni religiose. Ma quella cattolica oggi festeggiando la Comunione dei Santi esprime che è anche un evento collettivo: rimarchevole in tempi di individualismo.
Grazie!
Grazie Luca
Sono parole incoraggianti, Luca, capaci davvero di rinnovare in me la speranza e donare vigore all’ impegno nel cammino di ricerca. Tutti noi dovremo farlo, comprendere l’ essenzialità della vita per giungere ad eliminare quanto di superfluo continua ad appesantirne il cammino.
Liberarci da inutili zavorre ed anche fermarci all’ occorrenza.
Solo così la nostra visione potrà essere veritiera. Solo nella ri-nuncia potremo davvero ri-annunciare attraverso un nuovo modo di relazionarci, fuori da schemi giudicanti, una nuova umanità per poter ottenere anche noi la candidatura a santi.
Grazie Luca
Grazie♥️
L’ anima respira e si risana, dimenticando il peso della gravità.
ciò che consola particolarmente a me è proprio un senso di riposo.
Proprio ciò di cui parli con così tanta passione, nella fatica il poter chiudere gli occhi.
Il tema dell’abbandono mi risulta difficile e in contrasto con altri elementi della meditazione. Non tanto concettualmente, lo capisco benissimo, ma nella pratica, in un percorso si spera di crescita. Se la pratica è andare controcorrente vuol dire che è fatica, è un sentiero poco chiaro in cui è facile perdersi, in cui ci vuole della lucidità. Ma come si può parlare allora di abbandono ? Se ci si abbandona non si avanza, ci si ferma. ci si perde.
Come ci si può abbandonare senza perdersi ?
Mi ritrovo nell’idea della lotta, nel contrasto, che racchiude in sé queste due dimensioni contrastanti.
Grazie caro Luca, le tue parole mi danno molta speranza. Speranza nel presente e nelle tribolazioni che vivo. Grazie di questo scritto così bene e così chiaro. Un caro saluto da Fabio.
Grazie!
Caro Francesco,
effettivamente l’abbandono ci fa paura.
Mollare la presa vuol dire aprirsi all’ignoto.
E lo associamo ad una sorta di inerzia.
Nella pratica ci abbandoniamo proprio in questo groviglio
e in questa paura. E scopriamo che non veniamo annullati,
ma anzi riceviamo un afflusso nuovo di vita.
Un saluto,
Francesco
Cari tutti, vi sono molto grato per le vostre risonanze commosse e illuminanti. Sì, in fondo quando pratichiamo nello Spirito tutta la nostra lotta è in realtà una lotta per il disarmo dell’Ego. Quest’ultimo, essendo una configurazione scissa e dunque provvisoria del nostro Sé, sotto sotto non vede l’ora di dissolversi, solo che ha una paura atavica di farlo.
I tempi estremi cadono a pennello per imparare a compiere questo salto abissale, che è appunto un salto che ci libera nella Salvezza, introducendoci in un essere-in-Vita che non conosce la morte.
Un caro saluto a tutti,
Luca. –