La giornata di un insegnante comincia come quella di un qualsiasi lavoratore, che parte da casa per raggiungere il suo ufficio, il supermercato, la fabbrica o il veicolo che lo porterà in strada.
Arriva a scuola (generalmente) e attende il suono della campanella, dopodiché entra in classe.
Ci entra l’insegnante, con la sua mente che assomiglia ad una sorta di ipertesto, dal cui schema chiaro si diramano infinite possibilità di sviluppo.
Ci entrano anche loro, alunni e studenti, con il loro umore del giorno, il loro vissuto spinto fuori dal desiderio di raccontare e di raccontarsi e con le loro aspettative rispetto a ciò che faranno a scuola.
Gli occhi dell’insegnante sfrecciano in coordinazione con le mani che sistemano schede, libri, poi si interrompono, salutano, tolgono giacche e berretti, aiutano a sistemare zaini. E dietro a quell’operare multiplo, il nervo ottico continua a proiettare in filigrana la mappa mentale prevista per la giornata.
La mediazione che vorrebbe un insegnante non è semplice da attuare: procedere con quanto preparato (la signorina Rottermeier interna preme) o mettersi in ascolto del clima di classe? Scegliere gli obiettivi di apprendimento o la relazione? Dare spazio alla relazione, ai loro bisogni del momento, alla loro esperienza… e poi come connetterli con gli obiettivi se si va tanto “fuori”? Voli pindarici dentro un labirinto fatto di andate e ritorni, smarrimenti e avvistamenti di vie d’uscita….
Chi ha comparato il lavoro dell’insegnante a quello del controllore di volo non ha poi sbagliato di tanto, sebbene il controllore di volo non debba posare lo sguardo sul singolo aereo per capire qual è la rotta che sta intraprendendo, se ha carburante a sufficienza, di quali scali ha bisogno; lo sa già.
L’insegnante, invece, no. Non può partire con i suoi alunni senza aver scrutato e sondato oltre lo sguardo di ciascuno, cercando quegli indizi preziosi che consentiranno di creare un ancoraggio emotivo, affettivo e cognitivo.
Quante volte riusciamo in questa impresa?
Cioè: quante volte mettiamo da parte le pretese sul lavoro e ci abbandoniamo al flusso della vita pulsante che ci è lì davanti?
Io penso di esserci riuscita quelle volte che ho lasciato sfuggire via il cronos della progettazione e ho ceduto alla sosta del kairos, del tempo vissuto insieme, che ci ha fatto sperimentare la scuola come un luogo d’incontro significativo. Senza che me ne rendessi conto, la progettazione è andata avanti, non ha occupato lo spazio d’ombra oppressiva che spesso mi imprigiona e mi limita nella creatività.
Ci sono riuscita, penso, quella volta che sono entrata in classe lasciandomi condurre dalla mia parte gioiosa, scherzosa, leggera. Saltellando tra pizze, pazzi, pozzi, puzze e puzzi, nel gioco linguistico del cambio di vocale, ho lasciato agire l’attrice che è in me, scatenando un simpatico clima divertito.
A un certo punto, M., un bambinone fragile con le antenne sensibili a captare qualsiasi variazione emotiva e la parola pronta a commentare in ogni momento, mi guarda con gli occhi che brillano e mi dice: “Maestra, sei tornata!” Rimango qualche frazione di secondo interdetta … mi sarei aspettata un commento del tipo: “Che bello ridere insieme, maestra!” oppure: “Oggi sei allegra, maestra!” e invece no.
Quell’esclamazione crea dentro di me il silenzio pregnante delle parole eloquenti e allo stesso tempo incomprensibili.
Sono tornata? E dove? E quand’è che ero andata via?
Un lampo d’intuizione mi fa luce: è nel cuore del mio cuore che torno quando lo lascio libero di emergere, quando gli concedo la fiducia di poter mettere in atto il mio insegnamento attingendo alla sorgente di vita che mi abita dentro.
Le pretese cadono, l’ombra non appare più minacciosa, la parte più autentica di me emerge. È allora che mi vedo… e anche loro mi vedono.
Tornando al cuore del mio cuore, raggiungo me e anche loro.
Grazie Belinda per questo tuo bellissimo contributo. La scuola vissuta come una pratica per “tornare al cuore” è un suggerimento operativo che può ridestare il senso del nostro lavoro anche in questi tempi così complicati. Un forte abbraccio, Dario
Grazie Belinda per la condivisione. Anche io sono un insegnante. Insegno Laboratorio di Scenografia al Liceo Artistico. E l’urgenza che mi preme non è quella di insegnare loro una professione ma un metodo: il metodo creativo, il metodo divergente. Guardare le cose in maniera nuova, inedita. Guardare è già pensare. Provocarli, aiutarli a capire cioè qual è la loro vocazione: a che cosa sono stati chiamati. Dopo l’appello chiedo sempre: “Ragazzi come va? Com’è lo spirito oggi? Avete visto che bel colore che ha a quest’ora il Monte Baldo?” Cavalcare la tigre, sentire la classe, sentirli. Come l’attore sul palco che deve sentire il pubblico e il pubblico accompagnare l’attore. Insieme, reciprocamente. Delicatamente, svelandosi, mostrare un po’ il fianco, per ricordarsi che siamo tutti in ricerca di qualcosa di grande.
Parti col piede giusto dell’insegnante come persona che prima si guarda dentro e poi guarda negli occhi gli studenti.
Io ho insegnato nella scuola del secolo scorso intrisa di pregiudizi ideologici, di politicizzazione pervasiva, di sindacalizzazione che ha sempre messo al primo posto i diritti degli insegnanti e solo dopo quelli degli studenti.
E già avanzava la ragnatela nera di una burocratizzazione soffocante che succhiava tutto il tempo e le energie e i talenti degli insegnanti costretti a riempire moduli e pagine di relazioni inutili e a “medicalizzare” gli alunni anzichè potersene prendere cura.
Gli adempimenti burocratici erano illusoria risposta ai problemi della scuola e degli studenti e potevano essere armatura entro cui insegnanti infelici trovavano difesa, anche perchè non adeguatamente formati a fare l’insegnante.
Io ho amato molto i miei studenti e ne sono stato ricambiato, e in quella condizione lavoravo con passione.
“Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza” è un libro che ai miei tempi avrebbe spinto folle di insegnanti ad inseguire coi forconi gli autori Paola Mastrocola e Luca Ricolfi.
Ma è molto buono ed incoraggiante che qualcuno abbia il coraggio della verità, almeno davanti a dati oggettivi.
D’altra parte è solo scrollandosi via le ideologie e partendo dalla realtà concreta che si possono costruire percorsi non illusori in orizzonti vasti dotati di significato e di senso.
Ringrazio Belinda e i componenti di Darsi scuola, ed auguro Buon Anno a tutti gli amici di Darsi Pace.
GianCarlo
Da insegnante ti dico Grazie Belinda!! Ho risuonato tantissimo con le tue splendide e veritiere parole! Non mi voglio soffermare sull’impronta performante ,competitiva e quindi deleteria quale e’ la scuola oggi, ma fa un enorme e commosso piacere sapere che la’ fuori ci sono, esistono, quei colleghi che insistono su una Scuola che non è azienda ma semplice e sacro Tempio di Cura e Ascolto.
Belinda
“Sei tornata” è un invito alla vita, ad essere vita. Di questo hanno bisogno gli “allievi”: di testimoni che sappiano infondere vita, insegnanti che diano gli strumenti giusti per comprendere la vita, persone che li accompagnino per mano a fare esperienza e infine di sapienti che li lancino nella vita al momento giusto per viverla.
Grazie di questo bellissima testimonianza
Carissimo Dario,
verissimo quello che dici.
Un esercizio, una pratica, da tenere a mente e attuare ogni mattina: abitare il luogo della presenza a noi stessi che si dilata all’incontro autentico con gli altri.
Grazie ❤
Grazie Guido.
Sento e credo anch’io che la scuola sia un luogo in cui ci viene affidato e in cui viviamo “qualcosa di veramente grande”. E come dici bene, nostro compito è quello di insegnare a pensare, a essere, a sviluppare il pensiero creativo, divergente. Così da far emergere il nuovo, oggi (come sempre, del resto) quanto mai necessario. E il nuovo può emergere solo se glielo consentiamo, se sappiamo creare anche scuola spazi e tempi di vero ascolto e relazione, come ci racconti.
Un caro abbraccio.
Grazie Giancarlo,
sottoscrivo ogni parola.
Continuiamo ad esercitare la libertà d’insegnamento e la cura delle e nelle relazioni, nonostante la ragnatela nera di questa burocratizzazione oppressiva e inutile, consapevoli che “libertà” richiede anche un onesto e umile contatto con la realtà, l’esercizio costante di liberazione interiore e senso di responsabilità verso se stessi e verso gli altri.
Ricambio di cuore gli auguri, anche a nome di Darsi Scuola… e vi aspettiamo!
Cari Marialuisa e Alessandro,
grazie davvero per i vostri riscontri.
Risuono anch’io con voi, con le vostre parole.
Un forte abbraccio e buon inizio d’anno nuovo.
Belinda
Ho cominciato ad insegnare nella scuola primaria all’inizio degli anni Settanta animata dal desiderio di trasformarla, una scuola come centro di ricerca, una scuola sperimentale in cui insegnanti, alunni e genitori fossero parti di una azione creativa in uno spirito di collaborazione e di condivisione.
Nel corso degli anni mi sono sentita tirata e tritata dentro qualcosa che non riuscivo a capire.
Mentre il sistema istituzionalizzava la sperimentazione, mi sentivo portata dentro una gabbia, costretta ad una progettualità fatta di parole risonanti che, a mio parere, avevano scarse ricadute sull’azione educativa; mancavano invece parole per dire le criticità, per capirne la causa profonda, la loro intensificazione e la mancata risoluzione nonostante gli sforzi attuati in quel senso.
Ciò che mi ha permesso di arrivare a fine carriera mantenendo in me la passione educativa sono stati i bambini, ho imparato ad insegnare con loro, lasciandomi coinvolgere dal loro modo totale, radicale di affacciarsi alla vita; mentre loro cominciavano ad esplorarla io imparavo ad andare oltre le mie illusioni, oltre i miei errori e la mia solitudine.
Anche quando li vedevo appesantiti dalla sofferenza non riconosciuta degli adulti, la loro forza vitale mi riportava al cuore.
Ora comprendo che in questa stretta dei tempi, in questa agonia dell’umano, tornare al cuore è non rinunciare ad essere umani.
Il percorso in Darsi pace mi offre strumenti e occasioni per condividere il dolore del cuore scisso e alimentare la speranza di abitare il tutto, un cuore integro.
Solo da qui è possibile ripartire per realizzare una identità e una scuola più umane.
Grazie Belinda, di cuore!
Ti abbraccio, Giuliana
Chiedo scusa a Belinda e a tutti i lettori perchè credo di non essere stato chiaro.
Io penso che l’insegnante debba essere anzitutto capace di relazione umana cordiale con gli alunni ma poi debba essere altrettanto capace di fornire loro tutti gli strumenti fondamentali per l’apprendimento.
Non considero neppure l’alternativa tra una scuola che socializza e medicalizza i bambini e una scuola che li educhi all’individualismo competitivo di tipo aziendalistico: quelle a me sembrano entrambe opzioni sbagliate e dannose.
Io ho cercato di mettere passione nei contenuti, e non pretendo di aver avuto un equilibrio perfetto.
Se non si riesce a far coesistere la relazione gradevole con la fatica e l’impegno e la noia dell’apprendimento, allora forse l’insegnante può provare a dedicare un attimo per mostrare la sua attenzione e cura per poi dare il tempo all’apprendimento e ai contenuti.
Quell’attimo potrebbe essere preghiera? o meditazione? o breve lettura?
Per decenni è stato trascurato l’apprendimento della lingua italiana, analisi grammaticale e logica, letture e riassunti, ecc., e così abbiamo privato di uno strumento fondamentale i più deboli, i figli delle famiglie meno attrezzate culturalmente.
E allora io oggi non rincorrerei coi forconi gli autori di quel libro ed anzi rimpiango di non averli avuti come maestri perchè il tipo di scuola che è stato praticato, con le migliori disponibilità dei nostri cuori e delle nostre menti, oggi mostra di non aver diminuito le disuguaglianze sociali, come desideravamo, ma di averle aumentate.
Da certe carenze di base e dal 99% di promossi alla maturità conseguono senso di inutilità della scuola, abbandoni scolastici ( non certo nelle famiglie benestanti), incapacità di ottenere una laurea, e anche i milioni di giovani che non vogliono né studiare né lavorare e non cercano nessun lavoro.
Commettere errori è umano, ma se li riconosciamo dalle conseguenze che producono, chi sta sulla cattedra oggi può fare tesi antitesi e sintesi: non è facile, ma la realtà dei fatti ce lo chiede.
Cara Belinda, io non sono un’insegnante quindi comprendo soltanto superficialmente le difficoltà di un lavoro così delicato, ma leggendoti volevo dirti che vorrei tanto che le persone a me più care, e non solo, avessero un’insegnante come te! Grazie per la tua condivisione
Appena dopo i nostri scambi un amico, ex sessantottino che è stato per molti anni segretario generale della Cgil scuola della Lombardia, ha scritto una riflessione che mi piace molto sul ruolo essenziale degli insegnanti per il futuro dell’Italia.
Mi sembra che possa essere interessante per tutti e perciò invio il link in modo che chi lo desidera possa leggerlo: è impegnativo ma ne vale la pena. Grazie e buon lavoro, GianCarlo.
https://www.santalessandro.org/2021/12/31/la-frattura-generazionale-e-la-necessita-di-ripensare-listituzione-scolastica/