La definitiva condanna all’infelicità e alla morte è data dalla resistenza che l’uomo spesso oppone al dolore e lo sforzo di inibire il flusso naturale del pianto è uno degli attentati peggiori all’anima umana; non mi era affatto chiaro, questo, da bambino o da adolescente, quando non mi curavo minimamente delle parti più emotive di me e quando il caos o il baccano di questo mondo mi sembravano l’unica dimensione da cui attingere il senso della mia esistenza terrena. Spesso, infatti, ciò che davvero conta nella vita ci sfugge di mano, non riusciamo a vederlo, o perché siamo assorbiti da mille altre cose o perché semplicemente ci pare che tutto vada bene così. Finché non è la vita stessa, a un certo punto, a metterci di fronte a una crisi radicale, a uno “scacco matto”, a un punto di rottura dal quale ci ritroviamo a dover mettere in discussione la nostra precedente identità e tutto ciò che su di essa avevamo costruito. Spesso è solo a partire da quei momenti che ci può apparire con sempre maggiore evidenza la durezza della scorza dentro cui il nostro tenero pompelmo è cresciuto, ritirandosi dalla periferia, e intorno a una polpa che non è più succosa e fresca ma è diventata flaccida e striminzita. Ci possono apparire sempre più evidenti “i nostri racchiusi bocci che non sanno più esplodere”, sentiamo cioè la nostra gelida “immobilità (interiore) come un tormento”, per dirla con alcuni versi di Montale del suo Agave su lo scoglio. Il nostro nucleo più vero, l’embrione del pulcino in divenire che siamo, si trova stipato dentro a mille lamiere di ferro battuto, abbattere le quali, una ad una, ci si appalesa sempre più come l’unico modo per riprendere un contatto col nostro vero Io. Sto là, dunque, come ibernato entro mille strati di ambra che si sono cristallizzati a seguito di tante ma tante ferite. Lo sento il dolore di quella co-strizione e vorrei evaderne, anche se non ci riesco, in quanto sono tutto bloccato. Finché poi qualcosa di (apparente-mente) strano non accade: un soffio di luce, potente come una raffica di tramontana in inverno, mi cattura; vuole investirmi, rapirmi con sé, strapparmi al suolo del deserto su cui mi sono abbarbicato. Ma il mio arbusto resiste, punta i piedi, anzi “le radici”, su quel promontorio roccioso su cui si è sviluppato, pur di non farsi investire; ha paura a lasciarsi andare a quel flusso d’aria, teme di esserne distrutto se viene divelto – e teme che se il sale del vento corroderà i suoi rami, la piaga che ha ormai deformato le sue foglie facendole appassire emergerà con tutto il suo dolore. Eppure, quella corrente è più forte della riluttanza della pianta a piegarsi – e non molla. A quel punto può accadere che il nostro arbusto inizi a percepire che quella corrente non è fatta solo di forza, ma una voce di dolcezza vi echeggia dentro e, finalmente, si decide a cedere; inizia cioè a farsi trascinare in quella raffica dal sapore raffinato. Ecco che le prime lacrime affiorano, pur essendo dolorose; si accompagnano infatti a singhiozzi che si fanno ad ogni istante sempre più violenti e nei quali un’unica voce si spande: “Ho bisogno di amore, soltanto di amore”. Man mano che quella corrente mi attraversa, le mie lacrime diventano sempre più copiose. Potrà sembrare strano, ma dentro a quel dolore che appariva abissale anche un senso di soave pace inizia a farsi strada. La respirazione si fa più profonda, la mia cassa toracica, da sempre troppo piccola e fin troppo stretta, prende a dilatarsi e in quel dolore tremendo inizio ad avvertire la presenza di uno Spirito, di una luce il cui primo intento è quello di sbattermi quasi con insolenza in faccia a zone sempre più oscure della mia anima: per illuminarle; è così: le lacrime spalancano i sepolcri e disseppelliscono i cadaveri. Allora mi appare con una chiarezza quanto mai lampante la natura bene-detta di quel soffio di luce iniziale che voleva investirmi ma cui io opponevo resistenza: voleva – e vuole – guarirmi, ungendo con la sua pomata prodigiosa la mia ferita primordiale, quel “distacco dalle antiche radici” (sempre citando Montale). Tutto riprende vita, allora, sia pure per qualche istante: sul balcone dell’anima raggelato dalla bora torna a spirare una brezza più leggiadra, le energie in corpo si rimettono in circolo e le foglie del mio arbusto riprendono un po’ di vigore. Mi appare allora sempre più chiaro: le lacrime sono quell’acqua sorgiva in cui i miei occhi, avidi e bramosi, possono purificarsi; da esse sgorga ogni mio più profondo desiderio, che converge nell’unico grande anelito all’Eterno, alla Vita, a una vita ancora più piena e tutta ancora da scrivere. E, riflettendo, arrivo a dirmi: che cosa sono mai le lacrime se non un fievole anticipo della promessa di salvezza? Un porto sicuro a cui tornare quando sono triste? Un canale in cui decidere di scivolare ogni volta che voglio bagnarmi nella piscina di Dio, cioè della Vita? Ecco allora che l’abisso, quella gola del Nulla in cui il mio arbusto temeva di sprofondare se trascinato via dal soffio di luce iniziale, non mi fa più paura: per mezzo delle lacrime mi riconnetto al flusso – per berne il succo concentrato. E, forse, allora posso arrivare anche a dirmi: sì, lo sento, dal pianto si condensa veramente una qualche gioia più dolce – piangere può rimettere al mondo; mi può riconnettere con me stesso e con gli altri. Le lacrime, anche se “zuccherine”, come le chiamava Dino Campana nel testo Ho scritto. Si chiuse in una grotta, possono diventare un traghetto di passaggio verso la “terra promessa”. Le lacrime sono il fertilizzante della terra su cui cresce (ed io coltivo, con pazienza) il mio Io divino-umano.
Immagine:” Sara”, foglio di carta pastelli ad olio, opera di Giorgia Duracci, praticante del secondo anno
LE LACRIME, BALUARDO DELLA MIA VERA UMANITA’
Postato il 7 Febbraio 2022 Scritto da 8 Commenti
Veramente bello quel che scrivi Simone.
Il DOLORE alla gola che si sente quando si tenta di stoppare le lacrime ci suggerisce chiaramente che scioglierci vuol dire aprirci al “rischio” di procedere verso un infinito da cui la paura dell’ignoto,i nodi psicologici,la chiusura e la durezza,tentano di tenerci lontani.
In fondo viene spesso chiamato “coraggio” ciò che è invece mi sembra solo aggressività e durezza, il corpo va avanti, CONTRO qualcun altro , al contrario il vero coraggio è la libertà di essere fedeli al nostro più vero IO, il corpo si ammorbidisce, si autopercepisce e infine si ABBANDONA fiducioso,sciogliendosi in lacrime…..navigando le quali ci si trova su una diversa sponda, più accogliente della precedente e così si procede…
“in quel dolore tremendo inizio ad avvertire la presenza di uno Spirito, di una luce il cui primo intento è quello di sbattermi quasi con insolenza in faccia a zone sempre più oscure della mia anima: per illuminarle; è così: le lacrime spalancano i sepolcri e disseppelliscono i cadaveri. Allora mi appare con una chiarezza quanto mai lampante la natura bene-detta di quel soffio di luce iniziale che voleva investirmi ma cui io opponevo resistenza…”
Grazie Simone, è tutto terribilmente pratico, sperimentale e sperimentabile, quello che appunti con minuzia preziosa è un’esperienza, non sono discorsi.
Ti ringrazio di cuore per quanto mi hai ricordato, hai ricordato come sempre possibile.
Questo pianto benedetto che scioglie le catene, che bello, che dono!
Un grande abbraccio.
Grazie.
Grazie per quanto hai condiviso, mi ha fatto battere forte il cuore e le lacrime sono uscite inondandomi di dolore e di pace.
Cari Claudia, Marco, Salvatore e Maria Grazia,
Grazie di cuore dei vostri commenti al mio post. Sì, è proprio così, le lacrime, quando espressione di un profondo abbandono, hanno un grande potere terapeutico e, secondo me, persino taumaturgico! Io le sento a volte come riescono a sciogliere il ghiaccio che è presente in me. Possono mettere in moto un passaggio di stato del nostro Io. Personalmente, noto anche come cambi il loro “sapore” (interiore) – a seconda del passaggio di stato che esprimono; a volte sono amare, altre volte sanno di risentimento, altre di profonda contrizione…e altre volte di gioia pura! Quella gioia gratuita, senza condizioni, che mi fanno sentire che sono in contatto col Creatore… che sono contenuto in un ‘grembo’, che sono in relazione con la Sorgente di ogni cosa! Purtroppo.. ne ho scoperto tardi la loro importanza – e.. le resistenze da affrontare ogni giorno sono tante.. Ma quando, tramite esse, arriviamo a sentire che quel baratro, l’abisso dentro di noi è sfondato.. che ogni limite di noi, ogni separazione si sta dissolvendo..che bello! Lasciano, dopo, un senso di benessere inaudito!
Grazie ancora dei vostri commenti, un abbraccio anche a voi e.. a tutti voi un sereno percorso alla scoperta del vero Io divino-umano che ci abita ?
Un abbraccio, Simone
Meraviglia! Grazie Simone! Vanna
Le lacrime che ammorbidiscono le durezze che ci abitano, aprono il cuore e diventano un balsamo per l’anima.
Grazie Simone.
Grazie Simone, hai descritto in modo poetico le lacrime che ho pianto domenica 6/2 al 6 incontro del 2 anno dopo la meditazione/contemplazione.