Durante l’attuale emergenza pandemica abbiamo assistito ad un ulteriore aggravarsi della già avanzata deriva scientista-tecnocratica delle società moderne. È stata infatti soprattutto l’unilateralità materialistico-burocratica delle politiche sanitarie a generare uno spaventoso malessere supplementare aggiuntosi a quello già intrinseco del virus. La scienza stessa, specie se consideriamo l’ambito della pubblica informazione, è stata ridotta quasi sempre ad un penoso fideismo scientista (la cosiddetta “fede nella scienza” come nuovo imperativo di massa), il quale peraltro – dando luogo puntualmente ad una catasta spropositata di contraddizioni e ripensamenti su ciò che fino a un istante prima si pretendeva di “assicurare” e “garantire” – ha rivelato piuttosto la sua natura neo-oscurantista, nutrita delle superstizioni e delle paure primordiali volontariamente alimentate nell’animo dei cittadini (già di per sé non poco terrorizzati). L’esasperarsi di questo fenomeno tuttavia rimanda ad una crisi molto più antica e profonda, risalente perlomeno al XIX secolo, quando il modello di conoscenza oggettivistico-scientifico iniziò a imporsi in tutti gli ambiti del sapere, creando una vera e propria frattura rispetto a ciò che più tardi Husserl avrebbe chiamato mondo della vita. Con questa espressione il filosofo si riferiva a quella sfera più immediata ed esperienziale del nostro essere-al-mondo che di per sé non si lascia ridurre né spiegare dalla sola razionalità calcolante. Lo stesso Husserl, provenendo dall’alveo del pensiero logico-matematico, si rese conto che proprio l’estremizzarsi della tendenza specialistica delle scienze esatte aveva prodotto già al suo tempo la perdita mortale di quell’orizzonte originariamente unitario (e quindi vivente e vitale) del sapere umano. Scriveva perciò nel 1922:
«La riflessione logica generale doveva subito metter in chiaro che tutte le sfere conoscitive erano connesse tra loro e che nessuna scienza poteva restare isolata, che tutte dunque dovevano essere unite in una filosofia. E analogamente, in chiave pratica, che tutte le scienze potevano ottenere alla fine una relazione fruttuosa con un agire possibile, che esse avevano perso di vista il senso originario che tutte le scienze erano chiamate a servire. (…) Essa [la scienza] raccoglie senza posa immensi tesori di fatti e di teorie, e ha molto da insegnare: soltanto una cosa non insegna, a comprendere il mondo e l’esserci dell’uomo, così da poter formare liberamente il mondo e noi stessi nello spirito della ragione. Questa, però, è l’unica cosa “necessaria”, e non la cieca coscienza di avere, in quanto scienziato o per il vincolo della scienza, molto potere e di realizzare sempre nuove “prestazioni”».
La tremenda attualità di queste righe ci insegna che tale crisi di insostenibilità, inerente al nostro rapporto storico-vitale con i moderni saperi tecnico-scientifici, va oggi affrontata con una radicalità di domanda ancora maggiore del passato, sulla scia della grande riflessione del secolo scorso. In questa sede mi limiterò a offrire solo pochi spunti, articolabili nei seguenti tre passaggi fondamentali:
1. I limiti costitutivi del metodo scientifico.
Va detto che è stata anzitutto una certa tradizione filosofica, risalente già a Schelling e al primo Romanticismo tedesco, ad aver seriamente messo in questione per la prima volta il modo di procedere della razionalità moderna cartesiana. Questa tradizione, passando per Nietzsche, si compie nel Novecento con il pensiero di Heidegger, il quale – in un memorabile corso di lezioni del 1952, intitolato Che cosa significa pensare? – giunse ad affermare provocatoriamente:
«Quel che abbiamo detto finora e tutta la discussione che segue non hanno nulla a che fare con la scienza (…). La ragione di ciò sta nel fatto che, dal canto suo, la scienza non pensa, che non può pensare; per sua fortuna invero, perché ne va delle garanzie del suo modo di procedere. La scienza non pensa. Quest’affermazione è scandalosa. Lasciamo all’affermazione il suo carattere scandaloso anche se aggiungiamo subito che la scienza ha comunque, sempre e in una sua maniera peculiare, a che fare col pensiero. Ma questa sua maniera è autentica e carica di conseguenze solo quando l’abisso che sta tra il pensiero e le scienza diventa visibile e se ne riconosce l’insuperabilità».
Ciò che qui Heidegger intende dire non è appunto che la scienza non possegga un proprio statuto di verità, ma solo che quest’ultimo – per essere adeguatamente accolto e incrementato – necessita di riconoscere quelli che sono i suoi limiti originari e costitutivi, senza i quali la scienza stessa non è più scienza. La scienza, intesa come metodo scientifico, ha cioè una sua specifica legittimità in quanto è una delle vie d’accesso umane (né l’unica né la principale) alla conoscenza della verità. Una via che, come tutte le vie, ha il suo tracciato, il suo modo di procedere, i suoi confini fin dall’inizio stabiliti. La scienza quindi è tale se ci insegna come funziona l’organismo vivente o il sistema delle galassie da un punto di vista osservativo-matematico, ma cessa di essere scienza nel momento in cui pretende di dirci quale sia il senso del nostro essere, cosa sia moralmente giusto o sbagliato, cosa sia bello o brutto. La scienza incontra cioè il suo confine gnoseologico invalicabile proprio quando si confronta con i saperi essenzialmente spirituali e creativi dell’umano.
2. Il limite come potenzialità creativa e rigenerativa della scienza.
Nel corso del XX secolo, anche l’epistemologia più avanzata ha esplicitamente riconosciuto i limiti strutturali del sapere scientifico, senza tuttavia ammetterli come qualcosa di necessariamente castrante o (appunto) limitativo. Al contrario, il limite può essere esperito come un orizzonte di potenzialità creativa, in relazione al quale i presupposti storico-moderni della scienza stessa possono essere autenticamente rigenerati secondo modelli e paradigmi finora sconosciuti. Leggiamo a tal proposito le osservazioni di un grande epistemologo contemporaneo come Mauro Ceruti (La sfida della complessità, pp. 32-34):
«Da questo punto di vista la storia delle scienze contemporanee produce in generale una consapevolezza sempre maggiore delle limitazioni che intercorrono nel rapporto tra coscienza e conoscenza, limitazioni inesauribili e anzi fonte di emergenza del nuovo. È proprio qui che l’eredità cartesiana trova la sua impasse definitiva. Laddove l’ideale “cartesiano” mirava a un’espansione quantitativa e a una purificazione qualitativa della conoscenza verso una prospettiva di identificazione di coscienza e di conoscenza, oggi lo stato della questione sembra capovolto: ogni presa di coscienza produce zone d’ombra, e l’ombra non è più soltanto ciò che sta fuori dalla luce ma, ancor meno visibile, si produce nel cuore stesso di ciò che produce luce. (…) A ogni aumento della conoscenza corrisponde un aumento dell’ignoranza. (…) La decidibilità che la scienza rende possibile è una decidibilità sempre interna a certi tagli metodologici che isolano ciò che in realtà è comunque connesso; e le soluzioni proposte ai problemi formulati all’interno di questi tagli metodologici appaiono d’altra parte dipendere significativamente e storicamente da presupposti extra-scientifici».
E conclude poco oltre:
«Il limite non è una membrana o una barriera di demarcazione (…). I limiti rimandano invece, in maniera più profonda, alle stesse matrici, ai meccanismi costruttivi che presiedono allo sviluppo delle conoscenze. I limiti esprimono quell’insieme di precondizioni attraverso le quali si verifica ricorrentemente l’emergenza, la costituzione, la creazione di novità. Viene così in primo piano il carattere strutturalmente inconcluso dello sviluppo di ogni sistema cognitivo, quale condizione stessa del suo corretto funzionamento e del mantenimento della sua identità».
Ceruti sembra così sviluppare organicamente quella che era già stata un’intuizione decisiva di Ludwig Wittgenstein, il quale – da logico matematico – nella proposizione 6.45 del Tractatus aveva scritto: «Intuire il mondo sub specie aeterni è intuirlo quale tutto – limitato. Sentire il mondo quale tutto limitato è il mistico». Ciò sta appunto a dire che il limite in quanto tale, lungi dall’essere un mero sbarramento all’espansione della conoscenza, è in realtà il portale della trascendenza a partire dalla quale non solo la scienza, ma tutti i saperi diventano possibili in quanto tali nella loro relazione pre-liminare, ossia: nel loro comune principio spirituale.
3. La con-versione di tutti i saperi alla loro comune Sorgente rivelativa.
Questo vero e proprio salto di con-versione dei linguaggi scientifici e del nostro modo storico di rapportarvisi è d’altra parte possibile soltanto sul terreno di un più ampio riposizionamento delle domande fondamentali dell’umano nell’alveo della loro propria Sorgente poetica, la quale è al contempo un mistero inesauribile e una legge universale molto precisa. La scienza stessa, in altre parole, deve riconoscere e riscoprire come propria Fonte vitale quel principio di rivelazione della Verità che appartiene all’Essere in quanto tale, e quindi al suo stesso modo d’essere in quanto ad esempio realtà fisica, esperibile e conoscibile attraverso il pensiero razionale. Detto ancora altrimenti, tutto il Sapere umano e la Verità che di volta in volta gli si fa propria sono – nella loro essenza ultima – un orizzonte degli eventi, un accadimento rivelativo e ingiustificabile, che però fonda e orienta ognora il complesso psico-cosmico del vivere storico dell’uomo sulla terra. Non sussiste cioè un’auto-fondazione assoluta della conoscenza, giacché l’Essere stesso – come ci ricorda ancora Heidegger – è un Evento sfuggente e inafferrabile, un Er-eignis, che ci dona, con-cede e con-segna ciò che noi in quanto umani propriamente siamo, e dunque sappiamo o possiamo sapere. Concludiamo perciò con un importantissimo passo dello stesso Heidegger, tratto dal convegno del 1953 su La questione della tecnica:
«L’essenza della tecnica è in alto grado ambigua. Tale ambiguità richiama all’arcano (Geheimnis) di ogni disvelamento, cioè della verità. Da un lato, l’im-posizione (Gestell) accade da parte sua in quel concedere (im Gewährenden) il quale fa sì che l’uomo – finora senza rendersene conto, ma forse in modo più consapevole in futuro – duri nel suo essere l’adoperato-salvaguardato (der Gebrauchte) per la custodia (Wahrnis) dell’essenza della verità (Wahrheit). Così appare l’aurora di ciò che salva.
L’inarrestabilità dell’impiegare e il ritenimento di ciò che salva si passano accanto come, nel corso degli astri, le traiettorie di due stelle. Solo che questo loro passarsi accanto è l’arcano (das Verborgene) della loro vicinanza. – Se guardiamo entro l’essenza ambigua della tecnica scorgiamo la costellazione, il movimento astrale dell’arcano (des Geheimnisses). La domanda circa la tecnica è la domanda circa la costellazione in cui accade disvelamento e nascondimento, in cui accade ciò che costituisce l’essere della verità».
Invero, per una siffatta Svolta del pensiero e della civiltà umana in genere il tempo è già stato ampiamente inaugurato. Il tempo stringe terribilmente, tanto più oggi che siamo di fronte all’avanzata apparentemente inarrestabile della devastazione delle anime e delle coscienze. In tale contesto estremo la scienza, assieme ad ognuno di noi, è chiamata a scegliere se stare dalla parte della disumanizzazione sempre più radicale, oppure se accogliere liberamente l’autentica possibilità della propria rigenerazione, sulla scia dell’inesorabile rivolgimento dei tempi. Una cosa perlomeno è sicura: il tempo delle mezze misure e dei facili compromessi è inequivocabilmente terminato. Ormai solo e soltanto su questi inediti presupposti sapienziali è possibile un vero colloquio creativo (leggi: apritore/scopritore di mondo) tra la scienza moderna e le più antiche spiritualità del mondo, tra la conoscenza logico-oggettiva e il sapere profetico-iniziatico, nonché tra i destini ultimi del genere umano e il destino più personale e recondito di ognuno di noi.
L’impresa è quasi impossibile. Proprio per questo risulta altresì necessaria. –
grazie per la lucidissima esposizione!
Ultima chicca: l’esclusione dell’agricoltura biodinamica dal mondo del biologico a cura soprattutto di “scienziati premi nobel” che la considerano ciarlataneria e magia. Si occupassero con altrettanto zelo di tutti i pestidici e fitofarmaci che ci fanno impunemente ingoiare….Conosco l’agricoltura biodinamica e soprattutto ho avuto modo di apprezzare le persone che la praticano e che hanno cura del loro campo perchè hanno cura di se stessi. A tutto tondo, senza divisioni fra Terra e Cielo. Ho scelto, se possibile, prodotti da agricoltura biodinamica non da “radical chic”come spesso vengo ritenuta … e da oggi con ancora più determinazione.
@Elda Dalla Bona: l’agricoltura biodinamica significare dare fondi e soldi a pratiche magiche senza fondamento e a basso costo. Penalizzando così chi invece investe seriamente in qualità oggettiva che invece è più costosa, più faticosa.
Il “pensiero magico” su cui queste pratiche si basano è sempre poco costoso: abbassa la fatica, è a buon mercato, semplifica l’indicibilmente complesso che tanto ci spaventa; rassicura falsamente il nostro ego dandoci l’illusione di avere l’elisir di eterna giovinezza semplicemente con una pillolina insapore, inodore, incolore.
Sarebbe come dare soldi ai preti invece che agli ospedali per amministrare l’unzione dei malati invece che vere cure: a ben vedere un buon affare per il portafoglio, sopratutto se tutti se la bevono che sia efficacie. D’altra parte si sa che i placebo funzionano in qualche modo, è pure dimostrato. A differenza delle tradizioni a “bassa energia”, il pensiero e la tradizione cattolica ha invece sempre proceduto in modo diverso: non “abbassa l’erergia” e la fatica, ma pone la cura medica come parallela, non alternativa a quella scientifico-fattuale.
Dunque non “questo o quello” ma “questo e quello”: è la logica dell’ et-et che vince su quella dell”out-out – evidentemente egoico – che invece propone di fatto l’omeopatia, l’agricoltura biodinamica e tante altre pratiche che a ben vederle altro non sono un che modo astuto di fare tanti soldi con poco sforzo, vendendo pillole illusorie. Il massimo della mentalità economicistica dalla quale – stranamente – si vuole rifuggire. Un ossimoro contorto e senza senso.
Fabrizio non ho capito quale giudizio hai riguardo alla proporzione degli investimenti che vengono destinati
alla produzione agricola di tipo industriale/chimico e quelle di tipo organico.
@FRANCESCO PIERAGNOLI : La legge cui si riferiva Elda riguardava finanziamenti, sussidi e altre agevolazioni che, se definitivamente approvate, avrebbero incluso nella denominazione ufficiale di ciò che la legge consente di chiamare “biologico” anche pratiche che “biologico” non hanno nulla, afferendo a pratiche così’ dette di “agricoltura biodinamica” che fa riferimento a pratiche pseudoscientifiche. Qualunque sia il giudizio soggettivo che uno possa dare a quest’ultimo tipo di agricoltura (a favore o contro) è evidente come le pratiche biologiche autentiche (uso contenuto di diserbanti etc…) obbliga le aziende a investimenti e costi maggiori rispetto a quelle che vendono prodotti “biodinamici” in quanto questi hanno dei costi irrisori se non nulli, essendo pratiche di tipo, appunto, “magico”. E però avrebbero esse potuto “forgiarsi” di un marchio che li qualificava come di categoria diversa. In pratica sarebbero andati a finire nella denominazione “biologico” anche quelli “biodinamici” con conseguente imbroglio sia del consumatore (che avrebbe avuto valori aggiunti soggettivi diversi, ma denominati allo stesso modo) e inoltre avrebbe avvantaggiato aziende che investono poco rispetto a quello che investono di più. In pratica avrebbe danneggiato chi il biologico lo fa per davvero, spingendo così le aziende a fare “biodinamica” visto che a fronte della stessa categoria commerciale, sussidi e trattamento identici, devono investire di meno;
E’ curioso come i difensori di queste pratiche magiche in realtà si dimostrano palesemente dalla parte degli sfruttatori di vere rapine economiche, pur criticando la “scienza ufficiale” e “l’industria” o genericamente “il sistema” di volerli anche depredare economicamente; se infatti avessero un atteggiamento “intellettualmente onesto” dovrebbero difendere “l’agricoltura biodinamica” a fronte di una denominazione altrettanto trasparente e trattata come tale: perchè pretendere che venga equiparata a una categoria altra, che invece uguale non è?
Caro Luca,
grazie per questo articolo assai interessante, che rende quanto mai precisa e attuale, con robuste motivazioni filosofiche, la necessità – che molti di noi avvertono magari a livello inconsapevole, ma forte – di una “nuova scienza”, o se vogliamo di una “altra scienza” dove “altra” non è tanto verso una “alternativa” ma come ben dici tu, verso una scienza chiamata ad “accogliere liberamente l’autentica possibilità della propria rigenerazione, sulla scia dell’inesorabile rivolgimento dei tempi”.
E questo non è tanto un problema degli scienziati o di chi si senta portato a questioni “scientifiche”, non è qualcosa cioè di chi coltivi una particolare disposizione culturale: piuttosto, è qualcosa di molto urgente e molto attuale per tutti, come del resto si comprende bene dal pensiero di Marco Guzzi e dai riferimenti alla scienza che egli adotta consapevolmente – e con piena coerenza – in tutto il ventagli dei corsi Darsi Pace. Qualcosa su cui lavorare subito, per recuperare uno sguardo migliore (e liberante) sul cosmo e sull’uomo.
Dici bene anche in chiusura, l’impresa appare quasi impossibile. Quindi, necessaria! E proprio ora. Proprio ora la vicenda del COVID-19 ci impone un ripensamento profondo della scienza e del modo di comunicarla, per non rimanere intrappolati e soffocati dal meccanicismo che è una controfigurazione della vera scienza, che è invece liberatoria e appare in perpetuo e fruttoso dialogo con ogni aspetto dell’avventura umana: primariamente, proprio quello spirituale.
Ci sono testi che ce lo dimostrano e ci confortano in questo. Il “Tao della Fisica”, di F. Capra ad esempio: benché datato, rimane attualissimo nel tentativo coraggioso e motivato di istaurare un dialogo profondo tra la fisica teorica e la spiritualità (qui soprattutto orientale). Vorrei anche ricordare i bellissimi capitoli sulla cosmologia del poderoso “Tao della Liberazione”, di L. Boff e M. Hataway (non a caso prefato dallo stesso Capra), testo del quale Guzzi stesso diede ampio rilievo al tempo della sua uscita. Proprio da questa lettura si esce rinfrancati dalla comprensione che la “cosmologia” non è una faccenda di settore, ma riguarda la percezione del nostro posto e del nostro ruolo nel mondo: una cosa necessaria, per tutti.
Credo infine non sia mera pubblicità, ma informazione coerente e soprattutto doverosa, da parte mia, indicare nuovamente che entro Darsi Pace c’è da tempo un gruppo culturale che si prefigge di lavorare esattamente nell’ottica che tu ha descritto (tanto è precisa la tua descrizione che appare quasi come un “manifesto” del lavoro di AltraScienza, anzi, se non l’avessimo già questo sarebbe perfetto). Il sito di riferimento per chi è interessato, è il sito http://www.altrascienza.it.
Questo post, caro Luca, rimane dunque come un valido contributo al nostro stesso lavoro in AltraScienza: anche per questo ti ringrazio.
Caro Marco, ti ringrazio per la tua felice e profonda risonanza, ero sicuro che per un testo come questo non sarebbe mancata. Fai bene a ricordare AltraScienza, e anzi come sai sei pienamente libero di riprodurre il mio testo anche lì, mi farebbe piacere. Lo spunto in questo caso muoveva dall’ultima riunione di redazione, in cui è uscito fuori il problema della divulgazione scientifica nel periodo pandemico, ed è stato allora che Marco mi ha proposto di scrivere un articolo in cui fare una sintesi della nostra posizione generale nei confronti del metodo scientifico e del suo rapporto con il sapere umano in generale.
Sai, per me è stato anche un lavoro interiore non da poco. Non solo perché mi ha richiesto una specifica preparazione, ma anche perché mi ha impegnato a congedarmi ancora di più da un certo fondamentale sospetto che ho nei confronti delle scienze in generale, derivatomi dalla mia radicale crisi adolescenziale, nella quale ho vissuto l’interesse per la scienza come direttamente contrapposto allo spirito e alle verità rivelate. Oltrepassare questa opposizione – che poi di fatto mi ha portato ad assumere posizioni anti-moderne e anti-razionaliste – è un compito appunto difficile, ma necessario, che Darsi Pace adempie in modo straordinario. Se non ci fosse stato questo percorso probabilmente non sarei mai stato in grado di scrivere e pensare quello che ho scritto.
Un grande saluto, a presto,
Luca. –
Caro Luca, ti ringrazio a mia volta per questo tuo commento, poiché apre un “dietro le quinte” molto interessante, che giustamente fa comprendere come, dietro un post ragionato e ben scritto come questo, vi sia una accorta pianificazione. A tutto vantaggio direi, della chiarezza espositiva, che è anche un grande (e vorrei anche dire, commovente) segno di rispetto per chi affronta la lettura.
Volentieri pubblicheremo questo post sul blog di AltraScienza, essendo per noi del gruppo un contributo valido ed importante. Non è escluso che proprio da questo anche noi del gruppo si possa prender vantaggio per “uscire dal recinto” in cui a volte, involontariamente, ci restringiamo, per esplorare nuove opportunità di dialogo e – sperabilmente – di fruttuosa collaborazione.
Come giustamente scrivi – sperimentandolo innanzitutto su te stesso – tutto questo lavoro si ripercuote in senso benefico sulle nostre rigidità interne ammorbidendole, spingendo a superare le contrapposizioni in cui ognuno inevitabilmente cade: ciò è ultimamente esaltante – perché così la scienza ritorna nel suo vero alveo, ritorna cioè ad essere strumento per l’uomo, per la sua crescita umana e spirituale.
Ben più che accumulo di nozioni o (peggio) strumento per sentirsi “istruiti” a danno di altri, il sapere scientifico autentico rientra “a casa”, si sveste da tanti fraintendimenti e recupera la sua vera essenza, d’essere appena una possibilità di conoscenza, cordialmente in dialogo con tutte le altre umane possibilità. Come il cammino in Darsi Pace ci ha sempre insegnato, del resto.
Un abbraccio e a presto!
Caro Luca, leggo con dieci giorni di ritardo il tuo post “Scienza e Rivelazione alla svolta dei tempi”, perchè sono stato molto occupato in alcune faccende importanti ma anche gradevoli.
Mi sembra un lavoro illuminante che aiuta a mettere a fuoco alcune questioni decisive riguardanti la conoscenza, la ricerca scientifica, il sapere vero che deve essere integro e integrato nella vita di ogni essere umano, che spinge ad avere uno sguardo di larghi orizzonti terrestri ma che sonda anche altezze e profondità dei cieli e della terra, come indica bene l’immagine che hai scelto.
Ci hai proposto testi di Husserl e di Heidegger che sono profetici e portatori di verità percepite per tempo proprio perchè concepite fuori dalla gabbia ingannevole di quella che ben definisci “unilateralità del materialismo burocratico”.
La cui follia stiamo sperimentando noi e tutti i popoli sulla nostra pelle.
Ma poichè “il male divora sè stesso”, la presuntuosa arroganza e la pervicacia di molti scienziati si è rivoltata contro di loro che hanno dovuto smentire in continuazione ciò che avevano appena proclamato come verità inconfutabile: e i popoli se ne sono accorti, grazie a Dio.
Questo smascheramento è la cartina di tornasole che ci conforta nella ricerca di un approccio nuovo e necessario al “metodo scientifico e al suo rapporto col sapere umano in generale”.
E fa bene l’amico Castellani ad assumere in “Altra scienza” questo tuo contributo che sarà reciprocamente fruttuoso.
Secondo quanto scrive Mauro Ceruti stiamo costruendo coi nostri passi percorsi di senso e di significato, e ci apprestiamo a fatiche entusiasmanti.
Grazie amici cari, Giancarlo