Volevo essere testimone. Che bello esserlo. Poter comunicare la propria esperienza in una condivisione che sia anche coinvolgente e, perché no, contagiosa. Abbiamo bisogno del vero contagio: quello dello spirito.
Così voglio raccontarmi, con questo spirito. Raccontare come la frequenza nei gruppi sta modellando il mio modo di essere, facendo nascere in me nuove e insospettate attitudini.
Sono iscritto appena al secondo anno del triennio di base.
Quasi una matricola. Eppure!
Un percorso, il mio, avviato con tutte le difficoltà del tempo e del clima rigoroso della pandemia. Questa concomitanza, certo, non mi ha fatto godere dei momenti condivisibili di persona, in presenza ravvicinata, propri dell’esperienza storica dei laboratori. Se guardiamo solo a due anni fa era così. Ciò nonostante, non è mancata l’energia, capace di condurmi per mano ed accompagnarmi lungo un percorso che mi ha aperto su orizzonti nuovi.
La lettura come predisposizione dello spirito ad ampliare la conoscenza è stata forse la fioritura più evidente e costante nel tempo.
Ai rimandi bibliografici dei testi del professore Marco Guzzi seguiva la mia curiosità e la corsa a prendere il libro consigliato. Tanto che, questa novella inclinazione, era diventata come una necessità.
Quello che era uno dei livelli propri dell’impianto teorico dei gruppi, quello culturale, si stava esprimendo in modo del tutto naturale come se fosse un pane in lievitazione.
Cosi, contemporaneamente alla lettura, ho visto nascere in me un altro bisogno. Quello di elaborare i testi, analizzarli, per estrapolarne quelle frasi che più avevano risuonato.
Ho iniziato a guardare in modo più critico la realtà elevando il mio punto di osservazione.
Anche l’ascolto era diventato più sottile e più “attivo”. Una parola, una frase mi faceva eco fino a quando ero costretto a costruire intorno ad essa un concetto e poi un piccolo testo di senso compiuto.
Ho sentito nel tempo la necessità di raccogliere questi brevi appunti in un piccolo archivio personale (blog) dove aggiungevo alcune mie considerazioni. Nel giro di un anno, nel quale sono passato anche nel “cunicolo” stretto di una paventata malattia, poi, dico io, miracolosamente rivelatasi inconsistente, ho continuato a scrivere imprimendo in quelle lettere i caratteri marcati delle forti sensazioni vissute.
Ora tutti questi post sono diventati un libro, un piccolo saggio, senza pretese, frutto di un lavoro che non si è mai fermato, a dimostrazione del fatto che lo “spirito creatore” agisce sempre in modo libero fino a superare sempre le nostre aspettative.
Così è stato anche per il livello spirituale. Nel corso del seguimento costante della pratica meditativa sapientemente indicata nei punti di approccio, nei suoi passaggi essenziali, mi sono accostato sempre senza pretese scoprendo via via nuovi slanci.
Questo “incontro”, in apparenza metodico, ha sviluppato in me una naturale propensione a ricorrervi con costanza e percepirlo con desidero. Ci sono stati momenti veramente illuminanti e aperture nuove come non mi sarei mai immaginato.
E poi la maturazione psicologica, come naturale conseguenza degli esercizi, mi ha “aperto gli occhi” e tenuto sveglio su particolari atteggiamenti che nelle relazioni quotidiane mostravano modalità difensive o aggressive.
Ogni volta che accadeva un episodio che suscitava una mia reazione emergeva l’alert riguardo ad una diversa e più consona risposta allo stimolo.
In generale ho imparato, con questi esercizi ad osservarmi con maggiore attenzione e a capire quale fosse la “risposta”, solo in apparenza più comoda, ma che in realtà nascondeva un automatismo.
Per tornare al livello culturale volevo citare, tra i tanti, solo un testo che mi ha molto coinvolto. Il libro “Pensiero indiano e mistica carmelitana”
di Svāmi Siddheśvarānanda, consigliatomi come bibliografia della Collana Crocevia di Marco Guzzi
Dalla sua lettura sono venuto a conoscenza della stretta relazione della mistica carmelitana di San Giovanni della Croce con quella indiana.
Ho trovato personalmente molto interessante come due religioni così distanti tra loro abbiano in realtà molti fondamenti in comune, uno tra questi quello della notte oscura.
In senso lato il concetto di ascesi, e di sādhanā si equivalgono, in quanto contengono la stessa idea: quella della vita spirituale o meglio della maniera di praticarla.
L’autore del libro, molto conosciuto in India e in Europa, dove ha lavorato per presentare la dottrina Vedanta, mostra l’intima relazione tra la religione cristiana e la spiritualità indù sul piano mistico e come queste si incontrino
perfettamente nel descrivere le qualificazioni necessarie
per la realizzazione del Sentiero.
Nella serie di incontri che l’autore ha intrapreso negli
anni ’50 e ’60 ha sottolineato le trasformazioni necessarie
per l’uomo interiore.
Tra questi studi si ricorda in particolare quello comparativo tra la Notte Oscura di San Giovanni della Croce e l’Astānga Yoga di Patanjali.
Nel libro sono riportati oltre che molti passi tratti dalla
Salita del Monte Carmelo e dalla Notte Oscura, raffrontati
con quelli della Bhagavad-gîtā e delle Upanişad, viene data
anche la chiave, sia al cristiano che all’indù, per un giusto
accostamento a concezioni diverse dalle proprie.
L’accostamento consiste nell’adottare momentaneamente la visione dell’altro, di vedere come l’altro vede, dimenticando l’adesione ad una particolare dottrina.
Ciò non è uno sterile sincretismo né un eclettismo, ma un saper cogliere
nelle varie Scritture elementi essenziali che si completino
l’un l’altro.
San Giovanni della Croce ha scoperto la strada, la via operativa, potremo dire, consistente nell’immergere nella Notte, per mezzo della Fede, della Speranza e della Carità, i tre poteri
dell’anima: l’intelletto, la memoria e la volontà.
Secondo le sue concezioni la Fede e la dottrina della santa Chiesa sono una sola e medesima cosa. Rimanendo nella visuale comparativa col pensiero indiano potremo paragonare la funzione della Chiesa a quella del guru.
Ne scaturisce, per prima cosa che, per avere fede, non
bisogna attivare le funzioni intellettive, in quanto come citava San Paolo: “La fede è il fondamento di ciò che speriamo
e la dimostrazione di ciò che non vediamo” (Ebrei XI, 1).
Quindi consiste nella sostanza delle cose che noi speriamo
e, per quanto l’intelletto vi aderisca con fermezza, non ci è
possibile scoprirle, rimanendo nell’oscurità (Salita del
Monte Carmelo, II, 6: 2).
Così l’intelletto umano dovrà essere seppellito nella Notte prima che la luce della fede sia rivelata e possa brillare.
Ugualmente accade per lo yogi.
Uno stato simile è quello in cui il mentale viene purificato dalle sue modificazioni (vŕitti).
La fede diventa una visione che risveglia il cuore
dell’allievo per grazia del guru.
È quanto la tradizione indiana esprime con l’apertura del
terzo occhio.
Da notare come sia la Chiesa per i cristiani che il guru
per gli indù, sono intransigenti riguardo al carattere della
loro esclusività nella concessione di questa visione, sottolineando la necessaria obbedienza.
Naturalmente per la Chiesa non esiste scelta, (unico Guru) essendo unica interprete della Fede, acquisibile
nell’audizione. Vale cioè una conoscenza che si acquista
non con gli altri sensi, ma con l’udito (Una fede audita).
Per l’indiano occorre stare molto attenti quando si va a
cercare il proprio guru, in quanto solo dopo averlo ben
identificato la sottomissione diventa incondizionata.
I fondamenti della Fede, la sostanza della Fede, quindi,
sono sia per l’uno o per l’altra parte, degli scritti, (le Sacre
Scritture per i cristiani e la Śruti per gli indù) trasmessi
con la parola e ricevuti con l’audizione.
Si rende necessaria la purificazione della mente per aprire la strada alla capacità di comprensione di queste scritture, di questa conoscenza superiore, ottenendo la soluzione
del potere immaginativo e della fantasia, e la devitalizzazione del mentale.
Se condotto bene (da un accorto direttore) questo processo dissolutivo progressivamente farà scomparire tutto
questo potere della mente.
L’azione nella Notte Oscura conduce a ciò che San Giovanni della Croce definisce i due sensi corporali interiori, cioè l’immaginazione e la fantasia.
Ciò che lo yoga chiama samkalpa e vikalpa. L’una serve all’altra.
Quantunque le immagini servano in un primo momento per aiutare a concentrare e quindi alla meditazione, la mente non dovrà perdersi in esse. In seguito, per poter giungere all’unione divina l’anima dovrà spogliarsi di tutte queste immagini e rimanere all’oscuro.
Il 51° sutra del primo capitolo di Patañjali esponendo il procedimento per raggiungere il samādhi sottolinea la necessità di abbandonare l’attaccamento a tutte le forme di concentrazione e meditazione.
Non appena il controllo su samkalpa e vikalpa è totale non si riproduce più alcun genere di rappresentazione. Queste ultime, quindi, sono plausibili solo per i principianti.
Occorrono per far abituare l’anima del neofita, attraverso i sensi, a tutto ciò che e spirituale.
In seguito, dovranno essere abbandonate in quanto sono
parte di una meditazione cosiddetta discorsiva, ma questo
avverrà solo quando lo Spirito vorrà.
La sapienza di San Giovanni della Croce ha attinto profondamente a queste conoscenze della vita spirituale anche delle altre tradizioni.
Il metodo yoga si serve della meditazione, della concentrazione al fine di distogliere i pensieri dai soggetti mondani, in quanto la mente non può fare a meno di “vagabondare”, impegnandosi con raffigurazioni il cui contenuto è di ordine spirituale.
Śri Rāmana Mahāŕsi[1] fece questa analogia:
L’immaginazione, l’agitazione della mente, può essere
paragonata ad un elefante la cui proboscide, continuamente in movimento, spezza un ramo qui, un altro là dall’albero al quale l’animale è legato. Allo scopo di non
fargli fare troppi danni, viene posta alla proboscide una catena.
Immediatamente l’elefante inizia a giocare con essa.
Così avviene per l’immaginazione quando viene distolta
dalla sua consuetudine da un soggetto spirituale.
Il movimento della proboscide non si arresta,
l’immaginazione è quella di prima, ma l’accorgimento della
catena permette di limitare i danni.
Il santo dà così delle importanti indicazioni per poter
capire quando è il momento per abbandonare la meditazione e passare alla contemplazione.
Qui l’anima si trova sola con Dio e può godere della pace
interiore.
Dopo aver letto questo libro ho sentito la necessità di renderne partecipe anche un frate carmelitano della parrocchia che la cittadina balneare di Marina di Grosseto ha dedicata a questo ordine. Padre Justin di origini indiane non conosceva il testo ed è stato entusiasta di poter constatare le affinità del pensiero delle due religioni.
In questo momento del mio cammino in Darsi Pace, dove viene richiesto un modo nuovo di confrontarsi con la rivelazione cristiana, ho trovato molto utile conoscere le peculiarità condivise dalle due esperienze sapienziali.
Tutto quanto appreso mi aiuta anche a capire il passaggio cruciale dalla meditazione alla contemplazione momento condiviso anche nel percorso Darsi Pace.
Sapere che S. Giovanni della Croce ha attinto da queste fonti spirituali per accrescere la propria fede mi rende ulteriormente disponibile ed aperto a una
visione comprensiva di ogni orientamento religioso nell’unità di un comune senso e di crescita nello spirito.
[1] 25Siddheśvarānanda, S. (1977). Pensiero Indiano e mistica carmelitana Roma: Asram Vidya Edizioni.
Dall’incredibile al credibile…
Grazie caro Pasqualino! Parola forte, consonante, espressione vitale di un cammino di ricerca concreto, dal sapore di verità.
Il testimone che è in te bene dice anche noi, parla, canta, ri suona la vita, ci unisce, ci raccoglie dalle rive della nostra esistenza, ci attrae nelle acque ri sorgive, ci trasloca nella calma del largo fiume straripante di vita.
Tutto ciò che testimoni mi dona senso di eterno.
Credibile è la parola rivelata al cuore di chi sa ascoltare. Grazie, Vanna
Grazie davvero caro Pasqualino!
Rendi onore al tuo nome così predicente, trasmetti una contagiosa vitalità pasquale che in te mi giunge come forza primaverile del creato e come passione capace di generare impegno e slancio, apertura rivelativa e comunicativa. Il tuo entusiasmo di iscritto al 2.anno del triennio di base è straordinario e , come scrive Vanna, canta e risuona la vita, mi commuove e illumina donando, come solo i bambini sanno fare, un senso profondo, contagioso ed eterno alla vita…Sei l’allievo che sa ascoltare e che ogni professore sarebbe felice di incontrare e che fa giustamente gioire il nostro carissimo Marco Guzzi e risplendere i nostri formatori.
Da ripetente, un pò lenta e attempata sono grata di averti come compagno di corso e spero di incontrarti prima o poi “in presenza”.
Un abbraccio Giuseppina
Grazie per la vostra ri-sonanza- Vanna e Giuseppina- e per le parole tenere come petali di fiore.
Spero anche io di incontrarvi presto di persona per potervi abbracciare.
Un caro saluto.?
Grazie caro Pasqualino, leggendoti capisco sempre meglio anche quello che dice Guzzi sul carattere particolare di questo tempo, il primo tempo dove veniamo veramente e largamente esposti ad altre tradizioni spirituali.
Come sempre nella sua visione – che largamente mi convince – niente è per caso, ed è confortante e vicino al tuo discorso, il suo ravvisare questa apertura ad altre sapienze e tradizioni come provvidenziale per la stessa fede cristiana, per uscire dalla sua fase “egoica”, o meglio perché il pensiero non controfiguri in modo egoico le Verità della fede stessa.
Per me una delle caratteristiche più belle ed interessanti del cammino Darsi Pace è proprio questa sua bellissima apertura verso altre tradizioni religiose: apertura che non è indecisione o annacquamento della nostra fede, ma è l’apertura che può permettersi – e deve – chi ha i piedi ben piantati su terreno solido.
Mi hai fatto venire molto voglia di leggere il libro che citi!
Un abbraccio grande.