Peccato contro natura.
Per chi è abbastanza adulto come me, questa espressione evoca perversioni sessuali proibite anche nella sola immaginazione.
Temo però che siamo implicati in peccati contro natura, ben oltre qualche pruriginosità genitale.
Sto pensando qui al gravissimo problema della resistenza agli antimicrobici. In genere, si fa riferimento alla resistenza agli antibiotici, ma il fenomeno riguarda anche farmaci contro virus, funghi, parassiti come ad esempio il plasmodio della malaria.
Secondo un articolo apparso a febbraio 2022 sulla rivista scientifica The Lancet (dal titolo Global burden of bacterial antimicrobial resistance in 2019: a systematic analysis), uno studio condotto in 204 paesi e territori mostra come il numero di morti registrati come causati dalla resistenza agli antibiotici si sia rivelato doppio rispetto all’atteso.
Per i dati più recenti che si hanno a disposizione, cioè quelli relativi al 2019, per 1,3 milioni di persone la resistenza antibiotica è stata la causa diretta della morte. Altri 5 milioni di persone sono morte avendo avuto l’antibiotico resistenza come causa correlata del decesso: sono persone cioè in cui un’infezione resistente alle terapie si è aggiunta ad altre patologie e ha causato l’aggravamento della loro condizione fino alla morte. Un dato che colpisce ancora di più è che il 20% delle morti accade in bambini al di sotto dei 5 anni di età.
Da sempre gli esseri umani cercano rimedi per affrontare le malattie, comprese quelle infettive. Una svolta decisiva accadde nel 1928, quando Alexander Fleming scoprì la penicillina. Da grande scienziato qual era aveva visto lungo e, nel discorso di accettazione del Premio Nobel nel 1945, ammoniva che l’uso improprio della penicillina (come ad esempio non completare il ciclo terapeutico prescritto) avrebbe prodotto resistenza antibiotica.
Pare però che a noi umani piacciano le gare e ne abbiamo ingaggiata una particolarmente infervorata con il mondo microbico. Da quel momento ogni mossa è stata considerata lecita, colpi bassi tutti ammessi. Abbiamo così sintetizzato tantissime molecole diverse, con l’obiettivo di spazzare via l’avversario cattivo. Poco ci importava di spazzare via nel frattempo anche i batteri alleati, rischio calcolato, perdite messe in conto, l’importante è salvare delle vite umane.
Nel frattempo, abbiamo allargato gli orizzonti: abbiamo visto che era più facile e meno costoso allevare animali imbottendoli di antibiotici piuttosto che curare le condizioni igieniche negli allevamenti.
Abbiamo però fatto i conti senza l’oste.
Ci siamo illusi di poter eludere le dinamiche della selezione naturale, quel setaccio che lascia passare gli organismi più adatti e dissolve chi non lo è. I microrganismi hanno una capacità di mutazione e riproduzione molto alta e sotto la pressione delle condizioni ambientali emergono i ceppi più adatti al loro ambiente di vita. Per quelli che noi chiamiamo patogeni, siamo noi il loro ambiente di vita, cioè il nostro corpo è l’habitat in cui crescono e si sviluppano.
Nello stato di coscienza in cui ordinariamente risediamo, quello di un io centrato su di sé, quel dannato batterio patogeno è il nemico da abbattere. Concentriamo su di lui tutto il nostro odio, la nostra rabbia. Quando la paura fa novanta, la lotta è senza quartiere, ci sentiamo autorizzati ad utilizzare qualunque mezzo, i fini giustificano qualunque cosa. La nostra parte umbratile e furiosa si scatena. La corsa agli armamenti diventa serrata.
Sappiamo mascherare bene e rendiamo la battaglia socialmente accettabile sotto le spoglie della ricerca di un rimedio a tanta sofferenza umana, la gente muore, si dovrà pur fare qualcosa. Non stiamo ad andare tanto per il sottile, le conseguenze a medio-lungo termine non ci interessano. Dobbiamo agire ora.
Le armi poi sono facili e comode da usare: basta buttare giù qualche pillolina e la bronchite guarisce, per non parlare di malattie molto gravi come la meningite. E poi, vorrai mica negare quel burger a 2 euro, proteine rese disponibili anche ai meno abbienti.
Delle conseguenze laterali non ce ne occupiamo, l’ego è nel suo tunnel e la rimozione è comune strategia difensiva.
Prima o poi però i nodi vengono al pettine e la vita ci presenta il conto per non aver seguito le sue regole. Volevamo imporre le nostre, deliranti di onnipotenza, abbagliati dall’idea di poter controllare il gioco a nostro piacimento.
Adesso iniziamo a sentire il lamento della morte prodotta dal nostro ego distruttivo, nei momenti in cui proviamo a metterci in ascolto: le grida di allerta si confondono ancora nel chiasso della pista, a motori roboanti pateticamente ignari dell’inevitabile schianto.
Se captiamo questi segnali, possiamo svoltare l’angolo, capovolgere la direzione. A un io in conversione, occorre tanta umiltà. A capo chino, messi in ginocchio dalla potenza della vita che nessuna volontà di controllo potrà mai domare, possiamo confessare i nostri peccati.
L’arroganza di credere di poter ignorare i movimenti della selezione naturale, la presunzione di pensare che in fondo la questione è semplice, il dare per scontato che possiamo farla franca perché noi siamo intelligenti, l’ingordigia del potere e del profitto che pur di guadagnare non guarda in faccia a nessuno, le scorciatoie dei furbi che al mercato nero vendono antibiotici tagliati, la spregiudicatezza verso la sofferenza degli altri tanto che importa se muoiono a causa del nostro comportamento purché non ci tocchi.
L’io ammorbidito dalla trasformazione in atto esce dalle logiche a breve termine, dalla convinzione di risolvere tutti i problemi del mondo con una pillola o qualche flebo. Inizia a vedere la sconsiderata pratica di assumere antibiotici con leggerezza, scambiati per la copertina di Linus che ci dà sicurezza.
Abbandonati un po’ di più nel flusso della vita, la sentiamo scorrere: non siamo più in corsa contro corrente, perché stiamo capendo di essere nella stessa circolazione. Siamo fatti della stessa pasta molecolare del batterio che vorremmo combattere. Ci ricordiamo di essere figli della terra ed è soltanto mantenendo lucidamente questa memoria che possiamo provare a rialzarci per scoprire la vera potenza umana.
In uno stato più relazionale, riconoscendo le condizioni che ci fanno essere vivi, iniziamo a fare esperienza della dilatazione dei confini. Non ci sono nemici da radere al suolo, ma delicati equilibri da custodire.
Allora l’arsenale degli antibiotici si rivela lo scrigno di metalli preziosi da usare con estrema parsimonia, solo nei casi di massima necessità, perché nel frattempo avremo imparato a conoscerci più a fondo, a riconoscere quali cambiamenti del corpo sono bisognosi di attenzione.
Allora quando dallo scrigno estrarremo la gemma, la maneggeremo con cura, consapevoli che anche la differenza tra la vita e la morte si misura in milligrammi.
Scaturisce così la gratitudine, perché sappiamo che nulla è dato per scontato.
Il monito è severo: badiamo di non diventare nemici a noi stessi, nella mal pratica di additare nemici esterni, di proiettare fuori le nostre ombre.
La vita chiede di essere presa in mano, come disposizione di sé verso l’interno, per svelare che esterno ed interno sono sterili rappresentazioni, mentre cerchiamo unità, unificazione possibile soltanto come iniziazione. Allora ci facciamo responsabili che si prendono cura, luce che illumina il mondo.
“…Scaturisce così la gratitudine, perché nulla è dato per scontato.”
Cara Iside, questo passaggio del tuo intenso e colto scritto, che ho “assaporato” parola per parola, mi ha ricordato la riflessione di un altro scritto che, come è accaduto ora con il tuo pensiero, mi aveva illuminato in profondità. Scrive Anselm Grun in ” Gesù il terapeuta”:
“La spiritualità- o vita spirituale – consiste nel fare ciò che deve essere fatto: i doveri quotidiani, le occupazioni abituali, la piena ordinarietà del nostro vivere… Come dimostra la guarigione dei dieci lebbrosi , è sul cammino dell’abituale che noi diventiamo sani e puri… Ma le cose ordinarie non vanno mai disgiunte dal SENSO PROFONDO E SINCERO DELLA GRATITUDINE. Solo così potremo avvertire e comprendere il miracolo della trasformazione e della guarigione. Senza gratitudine si ricade inevitabilmente nei vecchi schemi percettivi…”
Penso che se attraverso la meditazione iniziatica riusciamo a vedere i nostri limiti e li accogliamo con dolcezza, e se attraverso la contemplazione iniziatica ci rivolgiamo allo Spirito per chiedere aiuto e lo facciamo con l’atteggiamento interiore ed esteriore di umiltà, quello che tu , cara Iside, descrivi così efficacemente: in ginocchio, sì, “a capo chino”, allora possiamo avvertire davvero la potenza che ci abita, il seme divino che è in noi, allora possiamo prendere la via del “ritorno”, quella che ci conduce dentro noi stessi, possiamo cominciare a conoscerci, possiamo imparare l’arte di ascoltare il nostro corpo e ri conoscere i segnali che ci invia.
Poi potremo anche “estrarre la gemma”, assumere la pillola, se necessario, consapevoli, finalmente che “…anche la differenza tra vita e la morte si misura in milligrammi”
Ci renderemo conto che “…non ci sono nemici da radere al suolo ma delicati equilibri da custodire”, impegno, questo, molto più serio di quello che richiede l’uso e l’abuso dei farmaci dei quali disponiamo e che trovano posto perfino nella pubblicità. E già questo dovrebbe, per lo meno , insospettirci…!
Grazie, Cara Iside, per aver affrontato ancora una volta, in modo tanto chiaro, lineare, esauriente, profondo, un argomento che, credo, stia a cuore a tutti noi, persone sempre più sole, incerte, confuse e smarrite.
Sappiamo, infatti, la fragilità dello stato di salute, il minimo malessere ci abbatte, tanto informati e altrettanto persi.
Un caro, affettuoso e grato saluto
Francesca