Assenza di prove o prova dell’assenza? Sembra un gioco di parole invece è una fondamentale differenza nelle conclusioni degli studi scientifici. Purtroppo però pare che tendiamo a scambiarne il significato con conseguenze anche pesanti di cui, poi, non ci capacitiamo o che interpretiamo erroneamente.
Facciamo un esempio del tutto fittizio, ma giusto per capirci.
Supponiamo che abbiamo studiato l’efficacia di una nuova molecola nella terapia dell’ulcera gastrica. Al termine della ricerca abbiamo pubblicato un paper in cui diciamo che la nuova molecola si è mostrata significativamente efficace nella remissione dell’ulcera a 6 mesi dalla diagnosi. Naturalmente lo studio è stato eseguito su un campione di persone selezionate per criteri clinici specifici e perciò limitati. Supponiamo poi che il nuovo farmaco completi l’iter per l’approvazione e venga immesso sul mercato.
Un gastroenterologo lo prescriverà ad una sua paziente che gli chiederà: “Dato che sono anche diabetica, questo farmaco che conseguenze può avere sulla mia salute?” Lo studio però non prevedeva di indagare le co-morbidità, cioè la presenza di altre patologie oltre quella in esame cioè l’ulcera.
Risposta del gastroenterologo: “In letteratura non ci sono dati che indichino controindicazioni nell’uso del farmaco rispetto a pazienti con diabete. Perciò signora, stia tranquilla, lo prenda pure e non si preoccupi.”
Questo è un tipico esempio in cui l’assenza della prova (= non ci sono prove che esistano controindicazioni perché non è stato esplicitamente testato l’effetto della molecola in pazienti con diabete) si trasforma nella prova dell’assenza = si asserisce che non esistono controindicazioni.
Questo equivoco però fa assumere rischi che possono poi portare conseguenze anche molto pesanti. Un conto infatti è dire: non so se ci sono interazioni perché non l’ho indagato (assenza della prova), un conto invece è dire: lo studio mostra che non ci sono interferenze perché ho studiato questo aspetto e non è emersa nessuna relazione (prova dell’assenza di effetti collaterali che il nuovo farmaco vada a peggiorare il diabete).
Occorre perciò essere molto prudenti.
L’assenza della prova dovrebbe infatti indurre a seguire un principio di cautela: dato che non so se ci possono essere interferenze negative oppure no, uso il farmaco soltanto nelle condizioni in cui è stato sperimentato.
Tendenzialmente però non è la strada seguita. Si prescrive comunque il farmaco e quindi poi si vedono le conseguenze nelle storie cliniche delle singole persone, ognuna portatrice di una unicità solo parzialmente riconducibile al dato statistico su base probabilistica dei trials clinici.
È evidente che qui si apre una questione di fattibilità. Non si possono certo testare tutte le combinazioni possibili rispetto alle tantissime malattie esistenti. Qui occorre un atto di bilanciamento che soltanto il medico davanti alla specifica persona può fare.
A partire dalla conoscenza medica complessiva, sapendo come si sono presentati altri casi di interferenze tra patologie rispetto all’efficacia e agli effetti collaterali di vari farmaci, avendo una conoscenza approfondita della storia clinica (e non solo) di quella persona, il medico ha molti più elementi per trarre conclusioni e dare suggerimenti al suo paziente.
Servono allora due ingredienti chiave:
1 il medico deve potersi muovere liberamente, dotato di riconosciuta autonomia professionale
2 il consenso informato deve andare ben oltre il modulo da far firmare velocemente. Deve diventare l’espressione di una relazione, in cui si analizzino i pro e i contro dell’assunzione di una nuova terapia, tenendo conto che ci si muove in una conoscenza “bucata”.
La nostra conoscenza è sempre limitata e parziale, è un processo nel suo continuo farsi, mai un approdo definitivo.
Talvolta rischiamo di far coincidere ciò che conosciamo come individui con ciò che la specie umana nel suo complesso ha raggiunto e, a sua volta, con la realtà nella sua verità ultima.
La psicologia cognitiva e le neuroscienze ci insegnano che il nostro cervello tende a riempire le mancanze, inserendo informazioni attinte da ciò che è già a nostra disposizione perché ne abbiamo già fatto esperienza. Tante illusioni ottiche funzionano così. Questo accade però anche con il pensiero. A partire da poche informazioni immediatamente colmiamo le lacune per dare forma ad una narrazione e ad una narrazione che sia coerente. Se trovo tracce di succo di frutta sulla maglia di mio fratello e so che solitamente fa colazione al bar ma beve il cappuccino, colmo la mancanza di informazioni (non so da dove arriva il succo) con una serie di supposizioni che rintraccio tra le abitudini di mio fratello fino a costruire una storia di senso (deve essere passato dal suo amico Paolo che offre sempre succhi di frutta a chi lo va a trovare). Scopro solo più tardi che mio fratello questa mattina ha bevuto succo di frutta per colazione…
La natura non sopporta il vuoto e cerca di riempirlo il prima possibile – e così fa il nostro cervello.
Ciò accade anche dal medico. Neanche il professionista sanitario si sottrae agli automatismi cognitivi di specie. Certamente padroneggia le statistiche legate alle varie patologie, alle interazioni tra farmaci, agli effetti collaterali ma di fronte al non sapere rischia di scivolare nella tentazione di colmare il vuoto, invece di lasciare l’incertezza per ciò che è da consigliare a partire dalla mancanza di informazioni.
Abbiamo però degli antidoti da giocare e un po’ di prevenzione da mettere in atto.
Intanto possiamo lavorare sulla consapevolezza del funzionamento della nostra mente e imparare a riconoscere le trappole in cui rischiamo di cadere.
Rimaniamo umili, raso terra, non diamo niente per scontato.
Ricordiamoci del mistero che è la vita, lasciamo andare l’arroganza di credere di avere tutto sotto controllo, non abbiamo paura di ammettere di non sapere.
Scendiamo nella profondità della relazione dove la fiducia oltrepassa ogni prescrizione, dove il sentire viene prima del misurare, dove ogni persona ha un valore inestimabile, dove i medici sanno guardare nella storia dei loro pazienti e lì riconoscere le tracce di ciò che è appropriato, dove i medici, nella dignità del loro ruolo, sanno ascoltare, accompagnare, prendersi cura.
Fuori da ogni retorica, dentro i corpi di ognuno di noi, esseri umani.
Interessante analisi.
Grazie Iside per i tuoi interventi sempre illuminanti.
Grazie Iside, per aver affrontato un tema interessante ma difficile e averci fornito dei chiarimenti molto utili! Leggo sempre con grande interesse i tuoi interventi.
Buonasera. Interessante analisi dalla quale mi è scaturisce una domanda:
esistono in questo mondo medici capaci di esercitare la loro professione in libertà, scienza e coscienza,
dove il sentire viene prima del misurare, dove ogni persona ha un valore inestimabile, dove i medici sanno guardare nella storia dei loro pazienti e lì riconoscere le tracce di ciò che è appropriato, dove i medici, nella dignità del loro ruolo, sanno ascoltare, accompagnare, prendersi cura?
Nellamia storia personale, tranne rarissimi casi che ho avuto la fortuna di incontrare e che mi terrò ben stretti, i medici applicano protocolli blindati come se avanti a loro ci fossero polli in batteria (figuriamoci io fossi un medico avrei riguardo anche per i polli) senza minimamente analizzare l essere umano davanti a sé.
Sì, Paola, hai ragione ed è proprio per questo che, sia pure in modo molto modesto nella nostra piccolezza, vorremmo operare nel gruppo di creatività culturale DarsiSalute.
Persuasi dalla visione a larghi confini di Marco Guzzi, lavorando su di noi con il metodo dei gruppi Darsi Pace, leggiamo la nstra piccolezza come un seme gettato per provare intanto a focalizzare i nodi problematici. Abbiamo bisogno di recuperare un nuovo senso di umanità che riguarda ciascuno di noi, per poi farlo lievitare nel significato delle professionalità sanitarie, negli amministratori, nei politici e in tutti noi.
Noi abbiamo fiducia che una nuova forma di umanità stia già nascendo, ma sappiamo anche che siamo agli albori di questa nuova era. Perciò ciò che veddiamo è ancora tanta tanta umanità vecchia, come dentro di noi.
Abbiamo bisogno di aiutarci reciprocamente a nascere, sia come pazienti sia come operatori sanitari.
Soltanto dentro un’umanità nuova, relazionale, libera e aperta potremo uscire dalle morse della fissità dei protocolli, delle tempistiche, dell’erogazione di prestazioni come se fossero bulloni usciti da una fabbrica.
Il lavoro è lungo, siamo solo all’inizio, ma appunto ci impegniamo con l’entusiasmo dei principianti.
Grazie a Pasqualino e a Palma per il vostro apprezzamento.
iside
Grazie a voi Iside. E per realizzare ciò noi saremo al vostro fianco con la nostra saggia meditazione in attesa di godere della trasformazione in atto.
Un abbraccio
Grazie cara Iside, apprezzo molto questo scritto, apprezzo l’opera, direi sotterranea e costante, alla quale voi di Darsi Salute vi state dedicando. Leggendoti, mi viene davvero voglia di “reclamare” più umanità nel mestiere di medico! Ma poi mi guardo dentro, e mi chiedo, morbidamente ma sinceramente, “ma io quante volte manco di umanità nel mio lavoro di scienziato?”
Veramente oggi devo ricominciare da me stesso, l’aiuto che posso dare (contro la disumanizzazione, contro la guerra, contro la divinizzazione del mercato e dell’efficienza) è questo. Il resto per me son chiacchiere.
Cercare in me i semi di quella Nuova Umanità che deve esistere, per forza, deve esistere perché io ne ho bisogno (può esserci un bisogno senza risposta? Mi rifiuto di credere che viviamo in un Universo dispettoso).
Aggiungo solo questo. Tanti problemi ben descritti nel tuo post, credo abbiano come radice comune, il fatto che ancora (nonostante tutti i risultati della fisica moderna, vorrei dire) pensiamo di avere una “visione oggettiva” del mondo. Il medico vede X e Y, e agisce di conseguenza. Ma X e Y dipendono da quella domanda che Marco rivolge sempre all’inizio dei corsi “Come stai? Come state?”. Se ha litigato con la moglie la sera prima, non è lo stesso medico. Se ha scoperto che il figlio si droga, se ha una relazione problematica con un’altra persona, se dentro si sente perso o abbandonato, non è lo stesso. Non vede le stesse cose. Non può prendere le stesse decisioni, a parità di fattori esterni (se pur questo vuol dire qualcosa).
Non c’è una visione oggettiva del mondo (per alcuni non c’è neanche un mondo oggettivo). Ecco l’inganno. Il medico deve attingere al fatto che è donna, che è uomo, accogliere la propria umanità, non cercare più di simulare una macchina artificiale, di misurarsi a prestazioni per ora, a numero di pazienti per giorno. Sarà mai possibile? Credo che implichi un cambiamento profondo nella società, nella scienza (medica e non), nella politica, anche nel senso religioso.
Ma ecco, io devo tornare a me stesso, il resto poi verrà.
Il punto di partenza / di irradiazione è sempre la persona che voglia scoprire la propria (vera) umanità. Se non lavoriamo a questo livello di amalgama spirituale abbiamo già perso in partenza, nonostante tutti gli sforzi che possiamo mettere in campo.
iside
Quello che mi viene da dire, per prima cosa, è che le linee guida e gli studi scientifici sono degli strumenti in mano ai medici, e come giustamente dici, cara Iside, è compito di questi utilizzarli al meglio. Il problema si sposta quindi sul singolo medico, una persona, come ognuno di noi, che deve lavorare su se stesso e nel suo delicato lavoro essere il più disponibile possibile ad un esercizio della verità e del bene. Se già fosse chiaro questo sicuramente molte cose andrebbero diversamente, molto meglio direi. Se questo fosse riconosciuto a livello sociale le università e i vari corsi sarebbero impostati diversamente: la crescita personale, interiore e umana sarebbe almeno una materia di studio, ma anche una vera e propria esperienza considerata fondamentale lungo tutta la formazione e carriera del clinico.
Dimentichiamo invece troppo facilmente (quasi per costituzione) che non siamo infallibili, ne onniscienti, ne tuttologi. Così di fronte ad un cosiddetto “problema di salute” occorrono, contemporaneamente a studio ed esperienza, tante importanti qualità: delicatezza, attenzione, sensibilità, ascolto, diligenza, etica, fermezza… Qualità che, come ricorda giustamente il caro Marco Castellani nel suo commento, possono fluttuare da un momento all’altro. L’importante è riconoscerlo, da entrambe le parti. Non ci si può rivolgere al medico pensando di trovarsi di fronte ad un oracolo infallibile, allo stesso tempo il dottore ha il dovere di curarsi e aggiornarsi per donare il meglio possibile di sé.
Purtroppo oltre ad essere umani, noi medici siamo anche sovraccaricati di burocrazia, tempi di lavoro sempre più rapidi, enormi responsabilità, rischi professionali, cambiamenti rapidissimi nella gestione delle cure, richiesta di rientrare in limiti di spesa stringenti… Quando ci troviamo di fronte ad una persona dovremmo avere invece tutto il tempo e il modo per studiare a fondo il caso e gestirlo al meglio.
L’articolo richiama ad un altro grande problema: dove può arrivare la scienza? Qui non entro nel merito, ma è evidente che ci sono grossi limiti, e il medico ha il difficile ruolo di mediatore, per utilizzare quel poco di comprensibile nella cura dell’infinito mistero della vita umana.
A me, che spesso mi trovo sull’altro lato dello stetoscopio, viene da chiedermi: di cosa ha paura un medico, un infermiere, un terapista quando ha di fronte a sé una persona che gli sta chiedendo aiuto? Qual è la paura che lo irrigidisce e lo distanzia? In che senso mi percepisce come una minaccia?
Come posso aiutarlo a sentirsi più disteso e tranquillo, metterlo a suo agio, contribuire allo scioglimento della separazione che ci rende sospettosi?
Siamo tutti vulnerabili, non importa se siamo il medico o il paziente.
Come Etty Hillesum voleva aiutare Dio a nascere dentro di lei, allo stesso modo abbiamo bisogno di aiutarci reciprocamente a nascere come creature sempre più umane. Di là da ogni identità di ruolo. La cura dell’umano che è comune è lo sfondo dentro cui poi tutto il reste può prendere forma.
iside