Pubblichiamo questa bella testimonianza di una nostra praticante: nonostante i 3 bimbi piccolissimi, è riuscita a prendere la seconda laurea e a trovare anche il tempo per sintetizzare la sua tesi di restauro in un post e in un breve video dedicato a noi.
A lei, a suo marito Maurizio, anche lui nei Gruppi Darsi Pace, il nostro ringraziamento e i nostri migliori auguri!
Sono Mariachiara e scrivo per gratitudine verso Darsi Pace.
Nel luglio 2020 ho terminato il percorso di studi in Restauro presso l’Accademia di belle Arti dell’Aquila, sotto la guida dei relatori Gabriella Forcucci e Gian Luca Tartaglia, diploma accademico che mi ha abilitato alla professione di restauratrice. Questi anni di studio hanno coinciso con un tempo di cambiamento radicale e Darsi Pace ne è stata, e continua ad esserne, parte fondamentale. È un tempo che mi ha visto diventare compagna di Maurizio (è grazie a lui che ho scoperto Darsi Pace), fare un’esperienza all’estero e, soprattutto, è il tempo che mi ha visto divenire madre.
È stato, tuttavia, anche il tempo del grande dolore, il tempo nel quale ho scoperto che non esiste una parola che definisca un genitore rimasto “orfano” di un figlio, il tempo del fango fino alla gola…il tempo della morte. Darsi Pace e le parole di Marco Guzzi mi hanno dato la possibilità di guardare al dolore della perdita del piccolo Paolo Jesus con occhi pregni di “presenza di senso”, mi hanno aiutato a vedere che quel fango poteva essere un’argilla purificatrice e la vicinanza dei praticanti è stata una carezza che mi ha accompagnato nella sofferenza.
Non vedo molto distanti il percorso proposto dai gruppi Darsi Pace e il mestiere di restauratore: chi restaura deve saper coordinare teoria a pratica in un unico lavoro e dare corpo a ciò che la riflessione filosofica ha elaborato mettendo nelle sue mani chimica, fisica, biologia, sapendo recuperare significato anche in ciò che sembra non averne più ed è forse, metaforicamente, il processo che ognuno dovrebbe compiere nella vita.
Condivido in breve con voi il lavoro realizzato a termine del percorso di studi. L’elaborato di tesi consta di due parti: uno studio di tipo tecnico laboratoriale e un approfondimento metodologico su tematiche di restauro.
Per la prima parte della tesi ho avuto la possibilità di restaurare la scultura lignea policroma raffigurante San Carlo Borromeo custodita nella parrocchia San Nicola a Pretoro, in provincia di Chieti. Il lavoro mi ha permesso di ripercorrere tutte le fasi principali del restauro di una scultura: il trasporto, la disinfestazione, il consolidamento di parti che potevano altrimenti andare perdute, la pulitura (durante la quale è stata riscoperta la decorazione della base che risultava totalmente coperta da uno strato di pittura sovrapposto all’originale), l’integrazione volumetrica delle parti mancanti e l’integrazione cromatica delle zone lacunose.
San Carlo Borromeo, scultura lignea policroma, Chiesa San Nicola, Pretoro. (grafico e foto di produzione propria)
Legno con attacco di insetto xilofago
Ogni fase operativa di un restauro è strettamente correlata ad una riflessione previa che porta alla scelta del tipo di criterio e, di conseguenza, del tipo di intervento da eseguire. Ci si apre alla consapevolezza che un approccio totalmente distaccato e algoritmico, come spesso ci si illude di ricercare, non può esistere in quanto la cultura personale, la conoscenza di ognuno e ciò che ci si aspetta di vedere in un’opera ci accompagnano sempre.
La seconda parte della tesi, ossia l’approfondimento metodologico, verte proprio sulla riflessione previa e sul leggero equilibrio che ogni restauratore si trova a ricercare nella linea che collega ciò che si deve togliere, con la pulitura, a ciò che si deve aggiungere, con l’integrazione.
Il ruolo del restauratore è molto delicato, in quanto deve scegliere cosa continuare a rendere leggibile in un’opera e, quindi, quale messaggio mantenere per il futuro. Lavorando sulla materia dell’opera d’arte il restauratore può scegliere in alcuni casi di “riempire” una lacuna, di colmare un vuoto che si è creato a causa di un evento accidentale (ciò che nella cultura generale ci si aspetta da un restauro). In altri casi può scegliere, dopo aver svolto tutte le operazioni necessarie perché l’oggetto non continui a deteriorarsi, di lasciare visibili i segni del deterioramento, i segni del passaggio del tempo sull’opera. Questi ultimi non sono necessariamente da considerarsi un danno perché possono raccontare qualcosa dell’opera. Si veda il caso di una “Madonna con Bambino” lacerata dai jihadisti i cui squarci sono stati lasciati visibili dal restauratore forse perché le ferite della persecuzione contro le minoranze religiose sono ancora troppo vive per essere colmate; o il caso del dipinto “Giocatori di carte” di Bartolomeo Manfredi danneggiato durante un attacco mafioso le cui lacune sono state lasciate a vista come monito per il futuro: un silenzio che grida contro tutte le mafie.
Generalmente la soluzione utilizzata nell’integrazione dell’immagine è la metodologia del tratteggio messa a punto negli anni ’40- ’50 da Cesare Brandi che consiste nel riempire le lacune con dei tratti, sul tipo della metodologia divisionista, con i quali ricostruire formalmente l’immagine in modo che l’intervento di restauro risulti invisibile ad un’osservazione dell’opera distanziata, mentre riconoscibile se si osserva l’opera da vicino. Questo è un ottimo compromesso che permette di lasciare visibili i segni del tempo e, nello stesso momento, di colmare le lacune cromatiche e ricostruire il testo dell’opera.
Le riflessioni che il restauratore si trova ad affrontate non possono essere svincolate dall’idea che tutti gli aspetti caratterizzanti l’opera d’arte siano importanti e fondamentali. Troppo spesso si cade vittima del rassicurante mondo “scientifico” dove per scienza si considerano solo la chimica, la biologia e la fisica: queste scienze, fondamentali per una buona operazione di restauro, non possono essere le uniche considerate quasi a voler giustificare una propria scelta critica solo con motivazioni legate alla materia dell’opera. Non ci si deve mai dimenticare che quella materia è portatrice di un messaggio!
Le riflessioni affrontate vogliono essere un piccolo tassello per giungere ad una visione differente dell’opera d’arte anche nel campo del restauro, visione che riconosce importanti e fondamentali tutti gli aspetti che caratterizzano un manufatto. Si ritiene indispensabile non solo la conservazione della materia e dell’immagine, ma anche delle emozioni, delle relazioni, dell’aspetto sentimentale, religioso, simbolico, dell’intangibile.
In questo continuo riflettere sulla ferite di un’opera d’arte, su ciò che esse sono state nella storia di quell’oggetto, sul perché si sono originate, su come trasformarle in uno squarcio di luce e non solo in un segno di sofferenza, nel leggere qualcosa anche lì dove sembra che tutto manchi di senso e non ci sia più niente da recuperare, nella ricerca della novità nelle tecniche, nei criteri e nelle motivazioni che guidano le scelte metodologiche, io vedo una grande similitudine col cammino della vita e con ciò che nei gruppi Darsi Pace si propone. L’uomo è considerato nella sua interezza, nella sofferente bellezza della sua storia. Ci viene ricordato che noi siamo un corpo, siamo uno spirito, siamo una mente, intimamente e fisicamente connessi con gli altri e con il mondo che ci circonda e che la trasformazione delle nostre ferite in squarci luminosi è un’opera di restauro non solo personale, ma ancestrale, collettivo, attuale e proiettato verso il futuro.
Non ho alcuna conoscenza di restauro, ma sono stata colpita dall’efficacia della metafora.
In particolare, la considerazione del rischio di ridurre la lavorazione dell’opera d’arte ai soli parametri tecnico-scientifici. Leggendo questo post, mi sembrava di essere dentro le tante riflessioni su questo tema che condividiamo nei gruppi di creatività culturale DarsiSalute e AltraScienza.
Non c’è ambito dell’umano che non sia indagabile scientificamente, in modo più o meno diretto: questo ha un tale fascino che cadiamo immancabilmente nella tentazione di considerare l’ambito scientifico l’unico rilevante, dimenticando invece che la verità tutta intera scaturisce dalla relazionalità, che amalgama per la coniugazione sapiente delle parti.
iside
Ciao Iside. In effetti è proprio questa considerazione che mi ha portato a fare l’approfondimento di tesi. Il modo di porsi alla vita si riflette necessariamente in tutto ciò che facciamo e incontriamo. Credo che il nostro operare sia uno specchio del nostro pensiero. Grazie
Mi associo a Iside e desidero farti i miei complimenti vivissimi.
Grazie
Lula