Pubblichiamo l’intervista, curata da Diego Lenzi, praticante dei gruppi Darsi pace e laureando in psicologia clinica presso l’Università Carlo Bo di Urbino in dialogo con Marco Guzzi.
L’intervista è stata pensata e realizzata per essere inserita come capitolo nella tesi di laurea magistrale di Diego, e ha quindi un valore scientifico e accademico di rilievo. È fonte di gioia il constatare che iniziano ad esserci delle tesi di laurea che parlano esplicitamente dei gruppi Darsi pace, e del lavoro e dell’opera di Marco Guzzi.
Come movimento Darsi pace riteniamo infatti che questa fase storica sia propizia per l’emersione di una cultura capace di coniugare e integrare diversi ambiti del sapere umano, superando così un certo riduzionismo e specialismo accademico, che soffoca spesso la creatività e l’originalità del pensiero.
In questa intervista Diego è riuscito con successo a fare interagire le questioni psicologiche fondamentali, come la natura relazionale dell’Io e la salute mentale, con quelle spirituali, come la natura unitaria della realtà e la trasformazione dell’anima come benessere integrale.
In questo senso Psicologia e Spiritualità possono dialogare fornendo un contributo rivoluzionario, sia per la guarigione interiore, sia per la trasformazione della società, grazie all’emersione di un paradigma nuovo, capace di dare voce e corpo alla Nascita di una Nuova Umanità.
Buona Visione!
Grazie a Diego e a Marco per questa intervista, che farà storia così come tutti gli approfondimenti che necessitano di essere fatti sul rapporto tra la psicoterapia e l’annuncio di una Nuova Umanita.
Credo, nel mio piccolo, che vada re-interpretato il significato del transfert e controtransfert del processo relazionale psicoterapico e psicanalitico.
Il terapeuta non è uno specchio riflettente, asettico e neutrale, ma un co-costruttore insieme alla persona analizzando che anch’esso co-costruisce il chiarimento di chi si è, il Chi Sono!
Non potrà dirlo nessuno il Chi Sono, nè il terapeuta ne il maestro, ne chicchessia, ma lo svelamento (iniziatico) potrà essere favorito da tutti i procedimenti anche tecnici e di metodo che portano la diade terapeuta-analizzando ad accoglierlo, osservarlo, definirlo, il chi sono, come un frutto, come un germoglio, una pianta che prende vita e cresce.
E per fare ció c’è bisogno di tempo, spazio, e direi soprattutto aver fatto prima di tutto su di se come terapeuta l’esperienza dell’analisi canonica, e l’esperienza della trasformazione in Cristo.
E allora, a tali condizioni il terapeuta non interpreterà la conoscenza, ma sarà solo un accompagnatore, che attraverso le vicende della relazione con la persona del paziente-iniziando, si fara vita ad un incontrarsi conoscersi e riconoscersi fatti della stessa materia, delle stesse pene, delle stesse emozioni, desideri e bisogni di qualsiasi altro essere umano, e poi di aiutar-si a comporre insieme il progetto di vita, il compito per cui siamo sulla terra per se stessi e per gli altri.
Quindi analisi come un processo di svelamento del proprio compito.
Direi che, da questo punto di vista, mi piace pensare alla terapia come un processo vocazionale di comprensione di ciò che ci sarà da fare qui sulla terra, e che se non lo fai tu non lo potrà fare nessuno al posto tuo. Così comprendiamo anche perché ogni essere umano è biopsichicamente unico al mondo.
La terapia del futuro la vedo così, come uno svelamento vocazionale, così come è stato per me fare la mia analisi e il cammino in Darsi Pace, che ancora continuo e senza conformarmi a nessuna identità costituita particolare, ma sempre disposto ad ascoltare, ascoltarmi, e accogliere l’aiuto divino che mi indica la direzione è ciò che è meglio.
La diade, nel transfert come nella relazione reale non fantasmatica,alla pari nei ruoli diversi, potrà condividere in una comunione profonda l’esserci, la presenza, l’essere impotenti spesso, la cura, il sostegno per la vita,… di entrambi.
Ho scritto ciò che mi è venuto, per contribuire a mio modo ai temi così belli e complessi sollevati dall intervista. E invio senza rileggere.
A presto.
Michele
Grazie per questa bella intervista-dialogo, tra Diego e Marco.
Davvero grazie per le parole dette e ascoltate.
Grazie Michele per la condivisione della tua esperienzia.
Nel mio piccolo ho percepito che questa terapia dell’anima, questo rapporto di cura, che per ora è clinico, è in realtà ciò che siamo chiamati a fare come umanità, in una esperienza comune.
Scoprire sempre di più, nel profondo di noi stessi, che non c’è separazione tra il dare ed il ricevere, tra il prendersi cura e l’essere curato, il soggetto che opera è sempre lo Spirito, è solo lo Spirito che è in grado di dare in abbondanza e di ricevere abbondantemente, con la stessa gioia, con la stessa riconoscenza, con la stessa gioia, pur nel dolore e nella fatica dell’esperienza umana.
Lo Spirito che nel Padre dona con gioia la vita, perchè è la sua natura, è lo stesso Spirito che nel Figlio gode e ringrazzia nel ricevere, e nel donarsi a sua volta.
Un caro saluto ed un rigraziomento a tutti noi quando cerchiamo di realizzare questa relazione.
Ciao
Stefano
Esatto Stefano, concordo molto!
??
Caro Marco, è molto bello questo dialogo e ascoltare è stato un piacere! Mi fa quindi piacere riportare di seguito un bel dialogo con lo psichiatra e psicoterapeuta Aldo Carotenuto che tu hai tenuto in una trasmissione di “Dentro la sera” di trent’anni fa. E il discorso è ancora valido a tutt’oggi e conservo queste registrazioni come perle preziose. Grazie per gli stimoli e i chiarimenti che ricevo ascoltando ciò che proponi e il pensiero e le idee che trasmetti. Un caro e affettuoso saluto. Fabio.
Dal ciclo di trasmissioni “DENTRO LA SERA”
Argomento: “A CHE SCOPO……?”
INTERVISTA
“Questa sera stiamo tentando di vedere quanto una sensatezza, un orizzonte di scopo
finale, possa essere necessario, o sia comunque presente nella nostra vita. E abbiamo
voluto chiedere al professor Aldo Carotenuto, che è uno psicoanalista che insegna
psicologia all’Università di Roma, se l’indagine, la riflessione psicoanalitica, abbia
individuato anche nelle strutture profonde, inconsce, della nostra anima, qualcosa come una
struttura di senso.
Nel grande schema della psicologia analitica di Jung, c’è un’idea che potremmo dire
finalistica, forse, della psicologia dell’uomo, cioè, sembra dirci Jung, che la nostra anima,
è quasi strutturata attraverso delle prove, a percorrere un processo, una sorta di processo
di individuazione. Ecco, si può parlare in questo senso, di uno scopo inscritto nell’anima
dell’uomo?
Si. Noi potremmo parlare quasi di una “intelleghia”, per la quale abbiamo un percorso
da fare, e questo percorso è poi il destino individuale di ciascuno di noi. Io, uso dire:
‘Ognuno di noi ha una domanda fondamentale alla quale rispondere. La capacità di un
uomo, di saper rispondere alla sua domanda, implica un percorso tortuoso, difficile, che è
l’equivalente dell’uccisione dei mostri, che compaiono sulla nostra strada. Però, bisogna
fare attenzione: noi non abbiamo mai un’arma prima, l’arma l’abbiamo dopo, cioè nel
momento in cui ci siamo mossi. Se rimaniamo fermi mai nessuno ci potrà aiutare.”
Tante volte, anche forse nel nostro tempo in modo più doloroso, si ha proprio una
percezione di disorientamento, cioè ciascuno di noi si può chiedere quale sia questo
scopo, o fa fatica a percepire quale sia quest’itinerario di individuazione, o fa fatica
persino a percepire che esista questo.
E infatti, una delle malattie che Jung incontrava molto spesso, è una malattia che
incontriamo ancora adesso, e cioè: la mancanza del senso della vita. E allora è proprio
questo significato, è proprio il senso dell’esistenza che va recuperato. Però, questo
recupero è del tutto individuale e non ci possono essere maestri al di fuori di noi.
Ma quale può essere un primo passo, se è possibile naturalmente, genericamente, o
per lo meno, da un punto di vista formale, per una persona che avverta acutamente lo
sbandamento, e l’assenza di un contatto con un proprio itinerario.
L’unica cosa, il primo passo che sembra semplicissimo, è quello di rifiutare, cominciare
a rifiutare, di fare cose che non piacciono, e cominciare a fare soltanto le cose che
piacciono. Può sembrare banale, ma impostare la propria vita soltanto sulle cose che
piacciono è difficilissimo, però è l’inizio del riscatto.
E quindi, potremmo dire che lo scopo, lo scopo che è inscritto nella nostra stessa vita
profonda, ci lancia dei cenni attraverso il nostro sentire.
Il nostro sentire, e il nostro avvertire, che quella strada che intraprendo, è la strada che
soddisfa le mie esigenze più vere, e più profonde.
Quindi, il fine è già presente nei mezzi, nei percorsi mediani che debbo attraversare
per raggiungerlo.
È possibile pensare in questo modo, e quando, per esempio, un paziente sofferente,
capisce questo, non si può immaginare che forza riesce a sviluppare nel proseguimento
della sua vita.”
Grazie, caro Fabio, davvero un bel ricordo….. un abbraccio. Marco
Caro Fabio che bella questa trascrizione!
Ho amato molto Carotenuto, ho letto alcuni suoi libri… e ora scopro che è entrato in contatto con Marco!
Che bello! Tutto converge.
Un abbraccio,
Marco