Ecco, lo sapevo che saremmo arrivati lì. La domanda è pressante. Sento l’attesa del mio interlocutore. Cerco affannosamente nel mio cervello per recuperare una risposta che non ho.
Piacerebbe saperlo anche a me. Avere una diagnosi cui appellarsi, un’etichetta da esporre, un nome da pronunciare, una specie di “tana libera tutti” che metta la mia ansia in pace e plachi la bramosia di chi mi sta davanti.
Le cose però non sono sempre così nette e chiare.
Senza un codice preciso secondo le classificazioni internazionali delle patologie, la medicina pare non saper come funzionare. Il medico è disorientato. La descrizione soggettiva gli è del tutto insufficiente.
Appiattiti sul riduzionismo dell’oggettivo misurabile, l’esperienza esistenziale è confinata ad aneddoto tollerato. Cosa provi davvero non conta. Conta solo ciò che le analisi mostrano, l’evidenza della prova inconfutabile.
Io invece sfuggo ad ogni classificazione, difficile mettermi un bollino addosso. Ho la vita infragilita al limite dell’autosufficienza per aver seguito le indicazioni terapeutiche di ogni tipo e dosaggio, rigorosamente sotto prescrizione medica. Accondiscendente e ligia al dovere di obbedienza al sanitario di turno, sono sempre stata persona ad altissima compliance: cosa tenuta in gran pregio dal prescrittore, elogiata per l’ossequio al blister.
Non si può però giocare con i veleni e poi pensare di farla franca. Adesso tutto il peso mi viene addosso, con una compenetrazione di esiti sul corpo che però non corrispondono ad una diagnosi da manuale. Sono senza nome.
Questo comporta il confinamento in una sorta di limbo vergognoso. Senza quel codice non sei nessuno.
Stai male ma non lo puoi dire, non ne hai diritto, infondo: che cos’hai? Se non lo possono dire le analisi, vuol dire che non hai niente, sei sano come un pesce.
Questo atteggiamento viene fuori ancora più chiaramente nell’ambito della medicina legale, la disciplina che si occupa, tanto per intenderci, ad esempio dei procedimenti di invalidità civile, dei rinnovi delle patenti di guida o del porto d’armi. Già la dicitura “medicina legale” è un ossimoro che lascia trasparire l’irrigidimento difensivo dell’Io umano separato, spaventato e perciò contrappositivo che l’ha messa a punto.
Avere una diagnosi ufficiale è un orgoglio di identità, sei categorizzato in modo socialmente accettabile e chi arriva ad avere quel codice si sente finalmente riconosciuto. Non importa se si tratti del medico o di un amico, il pregiudizio è lo stesso: sei legittimato a dire che stai male soltanto a fronte di una diagnosi precisa.
La mentalità sottesa è la stessa ed è curioso notare che spesso anche il suggerimento che arriva a ruota è il medesimo: fare altre analisi.
Noi esuli periferici, guardati con sospetto, non troviamo casa.
Una delle cose più dolorose è la negazione del proprio vissuto.
Lo sanno bene le persone che sopportano dolori molto intensi che non hanno un riscontro nei reperti di una risonanza o di una TAC. “È tutto nella sua Testa”, “ha una bassa soglia di tolleranza al dolore” sono frequenti “spiegazioni” addotte anche dagli operatori sanitari.
Una volta, un’oculista era riuscita a dirmi: “In base allo stato dei suoi tessuti oculari, lei dovrebbe vedere meglio di così!”; “certo, piacerebbe tanto anche a me poter vedere meglio di così…” era stata la mia risposta silenziosa che non avevo osato proferire.
Certamente avere una diagnosi codificata aiuta il medico ad orientarsi nel da farsi terapeutico. Tuttavia, questo dovrebbe essere l’ultimo passaggio di un lungo percorso relazionale che consenta alla persona di esprimere il proprio vissuto. Il ruolo maieutico del medico permette al paziente di far emergere ciò che lo affligge veramente.
Qui però occorrono altre abilità:
la disponibilità all’ascolto, prima della perizia nel leggere un’ecografia;
il riconoscimento dell’altro per dare credito ai suoi racconti, prima di buttarsi a capofitto sul valore della glicemia;
il rispetto delle credenze dell’altro anche quando sono molto diverse dalle proprie, prima di prescrivere un farmaco;
la conoscenza e l’integrazione del contesto familiare, sociale, lavorativo, prima dell’invio allo specialista;
l’accoglienza del mistero della vita umana, prima di considerarla un puzzle da risolvere.
Proviamo allora a deporre l’ossessione del codice a tutti i costi e restiamo aperti alla complessità della vita, in tutte le forme in cui si manifesta, consapevoli che la sua eccedenza non potrà mai essere incanalata nelle nostre egoiche strettoie.
Soltanto il respiro profondo di un io relazionale potrà prendersi cura del rantolo per trasformarlo in parola che guarisce.
Mi sono sempre stupito di una cosa: amiamo noi stessi più degli altri, eppure teniamo più all’opinione degli altri su di noi che alla nostra:
– Appunto (C’È La Vittima Che Diviene Complice “DEL CARNEFICE CIOÈ)/Tutti Noi Come (Delle Tessere DI UN PUZZLE)[]Siamo E -Dobbiamo Dare (Testimonianza ALLA SFIDA)..CI È Necessario Trovare (Di Volta IN VOLTA)\DIVENTARE (ASSIEME” Noi Stessi)/Perchè È Ciò (Che Siamo Venuti A FARE)\SULLA TERRA
Mi sono sempre stupito di una cosa: amiamo noi stessi più degli altri, eppure teniamo più all’opinione degli altri su di noi che alla nostra:
– Appunto (C’È La Vittima Che Diviene Complice “DEL CARNEFICE CIOÈ)/Tutti Noi Come (Delle Tessere DI UN PUZZLE)[]Siamo E -Dobbiamo Dare (Testimonianza ALLA SFIDA)..CI È Necessario Trovare (Di Volta IN VOLTA)\DIVENTARE (ASSIEME” Noi Stessi)/Perchè È Ciò (Che Siamo Venuti A FARE)\SULLA TERRA!
Carissima Iside,
grazie per questa riflessione così vissuta e sofferta in prima persona. Spero possa giungere il messaggio laddove serve veramente: a chi si trova a gestire e governare i processi di diagnosi e cura, ma anche tutta la gestione amministrativa e la politica che ci sta dietro.
L’operatore sanitario, in primis il medico, dovrebbe essere un attento osservatore, non giudicante e molto accogliente, di chi trova di fronte a sé: una persona sofferente che chiede aiuto. La pratica meditativa ci aiuta proprio a trovare uno stato interiore di questo tipo, e solo da quel luogo è possibile curare. E’ fondamentale anche la visione dell’umanità, altrimenti come scrivi siamo solo “puzzle da risolvere”, e questa va ricercata sempre dallo stesso luogo, con uno studio che apparentemente non ha nulla a che fare con quanto l’università insegna agli operatori sanitari. Se non so amare chi ho davanti, come potrò prendermene cura? Il percorso Darsi Pace ci accompagna proprio in questa direzione, laddove è l’unione ciò che ricerchiamo, in un amore ben più grande della nostra finitezza. Ma prima di “Imparare ad Amare” c’è da “Darsi Pace” e da “Perdonarsi”, un lavoro che va scelto e portato avanti con serietà quanto lo studio e la pratica accademici.
Al di là di tutti i codici e delle diagnosi, con questa prospettiva la medicina diverrebbe la scienza che cura la persona e la sua anima, piuttosto che frammenti di corpi malati.
Condivido! Io ho avuto un’esperienza negativa con il medico del 118 che ho chiamato recentemente( purtroppo); dopo aver provato a rianimare mia mamma, è venuto da me con il foglio (credo)dell’ encefalogramma piatto e mi ha detto : “sua mamma, come immaginerà, non ce l’ha fatta”; fin qui tutto normale(diciamo normale) poi io ho chiesto, come se dalla sua risposta ci fosse qualche ‘possibilità’: “ ma di che cosa è morta?” E lui “signora, come facciamo a saperlo?” …nessuna parola di conforto, di vicinanza, un minimo di spiegazione, anche inutile, che potesse minimamente alleviare il mio sconforto doloroso per aver perso mia mamma in soli 30 minuti….ci vuole tatto, sensibilità, attenzione, cura …non siamo dei ‘pezzetti di puzzle ‘ siamo esseri umani!
Grazie infinite, cara Iside..
Non posso che limitarmi ad accennare quanto mi fa male constatare che nella realtà dei fatti la realtà medica è ancora molto ma molto lontana da tutto ciò..
Forse, anzi, di sicuro, approcci maggiormente relazionali sono rinvenibili tra i medici presenti nel nostro movimento Darsi Pace..
Non posso dirlo, perché non ne conosco nessuno.
Per quanto però posso osservare attorno a me, ahimé, poco di questo approccio è presente altrove fuori.
Confido che le cose cambieranno, anche se molto lentamente.
È molto avvilente sentirsi dire che un dolore è “tutto nella propria testa”, semplicemente perché non suffragato da test o esiti rapidi e a portata di un “click” diagnostico o laboratoriale.
Un caro saluto..
Grazie delle parole ben calibrate e.. che vanno dritto al sodo della questione!
A te ogni bene.
Simone
Grazie, le tue parole sono oro.
Leggere i vostri commenti, che provengono da prospettive ed esperienze molto diverse, mi dà un’ulteriore conferma della necessità vitale, per la nostra stessa sopravvivenza, di seriamente mettere mano all’aratro che dissodi la materia malleabile in na nuova figura di umanità.
Sopporto sempre meno i patetici tentativi di cambiamento declinati sulla modifica del dettaglio, spacciati per le innovazioni che risolveranno i problemi. Questo è il linguaggio del marketing. Ben altro è il linguaggio dello Spirito.
Ho molta fiducia nel rilancio di Marco Guzzi con il progetto de “La Nuova Età”. Spero davvero che questo sia appello di risveglio e di decisione, per ciascuno.
iside
Cara Iside prima di tutto colgo l’occasione del tuo post per salutarti, e poi in verità non ho molte parole per dare una risonanza alle tue così lucide e sofferte, se non che ti auguro una svolta che ti porti presto in un percorso di ricerca della salute che sia più agevole e più comprensivo delle tue istanze. Un abbraccio forte.