Ho sempre amato, di Ungaretti la poesia La Pietà.
E mi sembra un bel momento per rileggerla e meditarla, proprio la settimana pasquale, e in particolare il Sabato Santo, nell’attesa che c’è tra la morte di Cristo e la sua resurrezione. Un momento di sospensione, di inquietudine, di attesa e di preghiera.
Ciò che mi ha sempre colpito di Ungaretti è quella tensione spirituale che emerge da ogni sua parola, fin dalle prime poesie scritte in trincea. Lo stesso scrivere poesia, per Ungaretti, è un atto spirituale, un atto di ascolto da una fonte che ci trascende, dall’abisso che ci abita tutti. E in tal senso Ungaretti partecipa a quella linea poetica che sperimenta la scrittura come una pratica iniziatica, come nascita di un altro Sé dalla parola incarnata. Ungaretti sostiene fermamente che la missione della poesia moderna è, sostanzialmente, una missione spirituale: «in verità, tale è sempre stata la missione della poesia. Ma dal Petrarca in poi, e in modo andatosi, come s’è visto, giornalmente aggravandosi, la poesia voleva darsi a intendere che aveva altri scopi – riuscendo, quando era poesia, ad essere religiosa, anche contro ogni sua intenzione. Oggi il poeta sa e risolutamente afferma che la poesia è testimonianza d’Iddio, anche quando essa è una bestemmia». Anche nel grido di dolore o di disperazione questa poesia resta un’invocazione, una ricerca spirituale. E uno dei punti culminanti, per Ungaretti, di questa ricerca, è una poesia intitolata La Pietà.
Quando Ungaretti scrive La Pietà ha quarant’anni: è il 1928, e per le celebrazioni della Settimana Santa si reca al Monastero di Subiaco. Vi arriva il Giovedì Santo, giovedì 5 aprile, e partecipa agli esercizi spirituali pasquali. È un evento cruciale, una sorta di spartiacque nel mezzo del cammin della sua vita. Molti anni dopo, in merito a quella Pasqua a Subiaco, scriverà: «di ritorno a Marino dove allora risiedevo, d’improvviso seppi che la parola dell’anno liturgico mi si era fatta vicina all’anima» e «in quel momento mi scoppiarono nell’anima uno dopo l’altro, straziandomi, la Pietà e gli altri Inni». Gli Inni sono sette poesie che diventeranno una sezione della raccolta Sentimento del tempo, nel 1933.
Che cosa è successo? Forse in quell’istante, in quei giorni, in quel 1928 così fatale, c’è stata una svolta, un cambio di direzione, qualcosa comunque che attendeva di compiersi da anni, se non – forse – da sempre. Sicuramente da quando Ungaretti aveva iniziato a fare poesia. Già nel Porto Sepolto del 1916 aveva scritto, in un lampo di tragica lucidità, tre versi memorabili:
Chiuso tra cose mortali
(anche il cielo stellato finirà)
perché bramo Dio?
Dannazione è il titolo di questa poesia, perché esprime la condizione umana che è di per sé – da un certo punto di vista – una condanna a morte. Ancora peggio: tutto il senso che l’uomo può costruire è condannato ad essere distrutto. Come scriveva Bertrand Russell: «nessun ardore, nessun eroismo, nessuna intensità di pensiero o di sentimento possono preservare la vita individuale al di là della tomba, e tutte le fatiche delle varie età, tutta la devozione, tutta l’ispirazione, tutto lo splendore del genio umano sono destinati all’estinzione con la morte del sistema solare, l’intero tempio dell’opera dell’uomo sarà inevitabilmente sepolto sotto i detriti di un universo crollato».
Perché allora – si chiede il soldato Ungaretti – bramo Dio? Da questa condizione tragica, che i poeti romantici avevano descritto come “melancholia”, la mancanza strutturale e incolmabile dell’essere umano, non nasce solo un sentimento di disperazione, ma anche un intensissimo desiderio. In questo stato d’animo così radicale, succede che la massima disperazione e il massimo anelito coincidono. “Perché, nonostante io sappia che tutto finirà, bramo Dio?” Non è il desiderio di una figura religiosa che prometta un riscatto, ma qualcosa di radicalmente esistenziale, immediato: il desiderio di un assoluto che si opponga al nulla, di un qualcosa di Eterno che possa dare senso all’esistenza, qualcosa che possa sopravvivere anche all’annientamento della morte.
Ecco, forse nella Settimana Santa del 1928 Ungaretti capì che questa lacerazione interiore tra consapevolezza del nulla e desiderio di assoluto, questa “piaga misteriosa” (come la chiamerà in uno degli Inni) ha a che fare con l’evento della Pasqua. E scriverà La Pietà.
Torniamo ad oggi, al Sabato Santo, in cui Dio è morto ma non è ancora risorto. Nella storia dell’arte La Pietà è la raffigurazione del corpo morto di Gesù in grembo alla Madonna (e Ungaretti amava moltissimo le Pietà di Michelangelo: non tanto la celebre Pietà Vaticana ma quella di Palestrina e soprattutto l’incompiuta Pietà Rondanini). Il Maestro è stato ammazzato, il Re dei Giudei non c’è più, è morto, è finito, come tutte le cose di questo mondo. La Pietà rappresenta il momento più tragico della storia della salvezza, in cui il corpo del figlio di Dio è semplicemente un cadavere. Se anche Dio muore, vuol dire che non c’è proprio niente da fare, il nulla e il non senso trionfano sempre. Che cosa possiamo sperare?
Nel Sabato Santo – oggi – Dio è morto. Il Sabato Santo è ogni momento in cui sentiamo che Dio non c’è. Siamo semplicemente esseri mortali “chiusi tra cose mortali”. Non c’è nessun senso che possa sopravvivere a questo destino. Questa è la realtà: «sono un uomo ferito» è l’incipit della poesia.
A partire da qui però Ungaretti ascolta il silenzio dentro di sé e da quel silenzio nascono parole, come sempre nella sua poesia. Come in Dannazione c’era una disperazione dalla quale nasceva comunque un desiderio, così nella Pietà c’è un dolore da cui nasce comunque una pur minima speranza di rivolgersi a qualcuno. Più che un Inno, la Pietà è quasi un salmo: il salmo è infatti – nella Bibbia – il canto dell’uomo che nell’ora della paura, della fragilità, del più profondo senso di abbandono, quando sembra che non ci sia più niente da fare, in quel momento decide di rivolgere le sue parole a un Tu che lo possa ascoltare e salvare, anche se non esistesse, anche se fosse soltanto un’altra illusione di una mente sofferente, anche se tutto questo non avesse in realtà alcun senso. Questo è già – in realtà – un barlume di senso.
Nella notte più buia, si può tornare a sperare nella luce: anche se non la vediamo, non è detto che non ci sia. Questo è il senso della poesia di Ungaretti, anche se il Dio al quale si rivolge sembra assente, silenzioso, restio a rispondere alle invocazioni dell’uomo o a mostrare un segno della sua presenza. Ma forse è l’uomo che non vede ancora Dio, e che gli urla tutta la sua mancanza, la sua frustrazione, la sua rabbia.
I versi – spesso endecasillabi isolati – di Ungaretti sono come frasi ascoltate dal profondo di questo stato d’animo, e pronunciate nel silenzio, rappresentato dagli spazi. Ogni domanda sembra attendere una risposta, e al tempo stesso stimolare un’altra e più profonda domanda. Finché non si arriva al fondo, allo stato in cui anche il parlare è troppo: «sono stanco di urlare senza voce». Da lì arriva, quasi impercettibile, sottile, «la luce che ci punge». La ferita si fa feritoia.
Forse è proprio sentendo la mancanza di un senso che si può riconoscere il desiderio di un assoluto, e proprio rivolgendosi all’assoluto nel momento della sua assenza che si può ritrovare il contatto con il mistero di luce che chiamiamo Dio (non a caso “deus”, cioè Dio, e “dies”, cioè giorno, derivano dalla stessa radice DEV che significa “splendere”). Forse in questo Sabato Santo possiamo rileggere questi versi per ricordarci che anche quando Dio è morto possiamo continuare a cercarlo, e che proprio cercandolo lo facciamo rinascere, in noi e nel mondo.
Buona lettura e buona Pasqua.
Di seguito il testo completo della poesia, che potete anche ascoltare dalla voce dello stesso Ungaretti qui: https://youtu.be/T_0D0DlQXpI
LA PIETÀ
1928
1
Sono un uomo ferito.
E me ne vorrei andare
E finalmente giungere,
Pietà, dove si ascolta
L’uomo che è solo con sé.
Non ho che superbia e bontà.
E mi sento esiliato in mezzo agli uomini.
Ma per essi sto in pena.
Non sarei degno di tornare in me?
Ho popolato di nomi il silenzio.
Ho fatto a pezzi cuore e mente
Per cadere in servitù di parole?
Regno sopra fantasmi.
O foglie secche,
anima portata qua e là…
No, odio il vento e la sua voce
Di bestia immemorabile.
Dio, coloro che t’implorano
Non ti conoscono più che di nome?
M’hai discacciato dalla vita.
Mi discaccerai dalla morte?
Forse l’uomo è anche indegno di sperare.
Anche la fonte del rimorso è secca?
Il peccato che importa,
se alla purezza non conduce più.
La carne si ricorda appena
Che una volta fu forte.
È folle e usata, l’anima.
Dio guarda la nostra debolezza.
Vorremmo una certezza.
Di noi nemmeno più ridi?
E compiangici dunque, crudeltà.
Non ne posso più di stare murato
Nel desiderio senza amore.
Una traccia mostraci di giustizia.
La tua legge qual è?
Fulmina le mie povere emozioni,
liberami dall’inquietudine.
Sono stanco di urlare senza voce.
2
Malinconiosa carne
dove una volta pullulò la gioia,
occhi socchiusi del risveglio stanco,
tu vedi, anima troppo matura,
quel che sarò, caduto nella terra?
È nei vivi la strada dei defunti,
siamo noi la fiumana d’ombre,
sono esse il grano che ci scoppia in sogno,
loro è la lontananza che ci resta,
e loro è l’ombra che dà peso ai nomi,
la speranza d’un mucchio d’ombra
e null’altro è la nostra sorte?
E tu non saresti che un sogno, Dio?
Almeno un sogno, temerari,
vogliamo ti somigli.
È parto della demenza più chiara.
Non trema in nuvole di rami
Come passeri di mattina
Al filo delle palpebre.
In noi sta e langue, piaga misteriosa.
3
La luce che ci punge
È un filo sempre più sottile.
Più non abbagli tu, se non uccidi?
Dammi questa gioia suprema.
4
L’uomo, monotono universo,
crede allargarsi i beni
e dalle sue mani febbrili
non escono senza fine che limiti.
Attaccato sul vuoto
Al suo filo di ragno,
non teme e non seduce
se non il proprio grido.
Ripara il logorio alzando tombe,
e per pensarti, Eterno,
non ha che le bestemmie.
Caro Andrea, grazie per questa bellissima e matura riflessione. Ungaretti è sempre stato un mio “amore”, tu dai benissimo sostanza e consistenza a questo mio affetto, svelandone anzi la ragionevolezza profonda, proprio alla luce del nostro percorso di guarigione.
Un abbraccio.
Che bello, Andrea, grazie infinite di questo post, meraviglioso regalo – di Pasqua. Amo molto Ungaretti, poiché anche le sue parole sgorgano dall’ascolto di quel vuoto profondo cui si può accedere rivolgendo lo sguardo dentro di sé. Trovo gli ultimi tre versi di una pragmaticità e di un realismo quanto mai spaventosi. Ed è proprio così: è proprio in e da quel luogo di massima disperazione che la “luce che punge”, come una puntura di beatitudine, inizia a farsi strada. Quella è la via per incontrarla, che io pure sappia non ne esistono altre.
Un caro abbraccio e grazie ancora!
Simone
Grazie Andrea di questi profondissimi versi e del tuo commento, la poesia è luce che scava dentro e che libera il cuore. Buona Risurrezione!
Grazie Andrea per questo tuo dono Pasquale. Non conoscevo La Pietà, ne l’esperienza di trincea di Ungaretti. Mi ha molto colpito l’immagine di un uomo che difronte ad una possibile morte, nel frastuono della guerra, riesca a dare ascolto alla Parola che invece necessiterebbe di silenzio. Ma forse anche oggi, per chi sa ascoltare, è possibile sentirsi in trincea. “La ferita si fa feritoia”, da lì entra la Luce e possiamo guardare verso il vero nemico che ci abita. Il tuo commento mi è piaciuto quanto la poesia, complimenti. Buona Pasqua!