Tu non sei né freddo né caldo.
Magari tu fossi freddo o caldo!
Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo,
sto per vomitarti dalla mia bocca.
(Ap 3, 15-16)
Capita anche all’uomo meno “credente” del mondo di sperimentare talvolta un fervore istantaneo, uno scoppiettio imponente dentro di sé, una sorta di trasporto sublime a cui magari segue presto un’altra doccia fredda.. Che cosa accade dentro di noi?
Che cosa alberga nel profondo dell’animo umano? C’è qualcosa che non conosciamo del tutto sotto alle croste friabili del nostro Io ordinario – friabili proprio in quanto la fragilità è un connotato intrinseco all’umano – e sotto alle reti fognarie che lo attraversano; qualcosa che sfugge, che scappa via come un pesce (“Il pesce scappa”, afferma Marco Guzzi nel suo testo La reclusa), e che non è catturabile né definibile dalla mente ordinaria.
Già nella primissima tradizione filosofica occidentale Eraclito parlava del fuoco come il principio base della vita (Logos), che Giovanni l’Evangelista riprende nel suo prologo (En archè en o lògos). Ricordo che buona parte della mia infanzia era caratterizzata da una sofferenza dovuta al costante tentativo di quanti mi circondavano di silenziare questo fuoco, di metterlo a tacere (avevo “troppo argento vivo addosso”, come mi si diceva), tanto che, nella convinzione che avessi bisogno di essere curato, prima ancora dei 10 anni di età fui pure portato da un guaritore esperto nella rimozione dei malocchi, poiché si credeva che molto del mio argento vivo provenisse da questo. A oggi mi rendo conto che tutta la mia vita successiva è stata in gran parte una costante fuga da un ambiente (familiare, ma anche sociale, come la scuola) che percepivo soffocare questo fuoco, nella speranza di poterlo custodire e sentire ardere ancora in me.
Tuttora, a volte avverto così forte l’impulso di questo fuoco che mi dà la sensazione di essere sul punto di impazzire – e col tempo ho compreso che il problema principale è solo riuscire a incanalarne la potenza, dandogli una forma – e che la mancata incarnazione di esso, la sua mancata traduzione in qualcosa di concreto e direzionato, che designa uno scarso contatto con la terra, può spianare la via a problemi di portata immensa per la nostra anima, in quanto separa, dentro di noi, il cielo dalla terra.
Durante il percorso comunitario terminato non molti anni orsono mi dicevano che ero un uomo ricco di passione, tanto che ricordo un’operatrice del posto che una volta mi chiese da chi in famiglia avessi preso quella “passione” che tanto mi animava ed io risposi: “Da mia madre”, pensando al suo carattere impetuoso e dirompente. Anche altre persone in seguito negli anni mi hanno riferito di vivermi come una persona “vitale”, sia nel bene che nel male, tanto nella gioia quanto nel dolore, anche allorché io non mi vivo come tale, anzi, persino quando mi sento vuoto e cavo come un marmo; eh sì, perché il vero problema è questo: non riuscire a incarnare del tutto il fuoco può generare un senso di vuoto interiore pazzesco. Oggi, poi, il problema di questa divaricazione tra cielo e terra è divenuto una questione collettiva: grazie al trionfo dei nichilismi consumistici contemporanei, che si sono potuti affermare soprattutto col crollo di tutte le ideologie negli anni ‘90, l’Occidente sguazza da tempo in una palude paurosa dove tutto viene continuamente normalizzato, appiattito, reso insipido e scialbo; dove niente di veramente nuovo, entusiasmante e vivificante sembra accadere.
Già Rimbaud, nella sua Soir historique, lo denunciava alla fine dell’800: “Un piccolo mondo livido e piatto si sta edificando”, e Montale, nei suoi Ossi di Seppia, qualche decennio più tardi, gli faceva eco: “Chi si ricorda più del fuoco che arse impetuoso nelle vene del mondo”, si chiedeva in Sul muro grafito. Ma cos’è tutta questa passione terribile per la vita che ci abita nel profondo? Da dove proviene? A lungo mi sono fatto (e tuttora mi faccio) queste domande, che la stessa scienza, accanto alla filosofia e alla metafisica, ha cercato e cerca ancora di indagare.
Dopo vari anni di riflessione e confronto con la psichiatria, ho realizzato, grazie anche al percorso in atto in Darsi Pace, che quella passione che ci abita, quel fuoco, è niente di meno che lo Spirito, che resta uno dei misteri più grandi in assoluto. È lo Spirito, col suo fuoco, ad animarci, nel bene o nel male – e questo è quanto d’altronde ci suggerisce oggi la stessa scienza più avanzata.
“Vorrei gridare: Basta! A volte, ma comprendo che il rifiuto mi distanzia dal fuoco, che nell’attimo di scarto, alza il suo rogo”, scrive Marco Guzzi nella poesia “Il dolore”.[1] È così: il nostro fuoco, sia pur nella sofferenza, ci chiede solo di assimilarci a lui, anche se riuscire a farlo spesso è difficile (poiché l’uomo ricade sempre nel suo stato di dimenticanza di base), pena il procurarci un bruciore ancora maggiore. È lo stesso Cristo Gesù che ce lo dice con chiarezza: “Io sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!” (Lc 12, 49). Noi, tuttavia, anche quando ce ne distanziamo, possiamo sempre riavvicinarci a lui, sebbene questo in un primo momento costi e ci abbrustolisca le dita, come il nostro Io in Conversione sa bene, quando ne sperimenta la prossimità. Lasciarsi andare, allora, alla sua potenza, abdicare completamente a noi stessi e a tutto ciò che sappiamo di noi, mentre lo sentiamo avanzare. Certo, il compito sovente è arduo, in quanto implica un costante morire – e anche perché il fuoco stesso si ri-vela continuamente, si manifesta cioè a tratti, ci si appalesa, ma poi si “vela-di-nuovo”, si ri-nasconde, in una spirale di aperture e chiusure infinita. È il gioco creativo dell’anima assetata di Dio, dell’Eterno, che, non essendovi permanente-mente in contatto, lo perde, ma poi lo cerca e ricerca come un amante, dando vita a una sorta di “tira e molla” o nascondino in cui due innamorati si avvicinano e poi si riallontanano, si donano vicendevolmente e poi si distaccano di nuovo, alla stessa stregua di due spasimanti che si stuzzicano e provocano a vicenda per suscitare l’uno l’interesse dell’altro.
È questo il sentire che almeno a me viene veicolato da un testo come quello tratto dal Cantico dei Cantici (Ct 5, 4-6): una sorta di gioco amorevole e amoroso tra l’anima e l’Eterno, tutto incentrato sul desiderio – e quindi sull’Eros del fuoco.
L’amato mio ha introdotto la mano nella fessura
e le mie viscere fremettero per lui.
Mi sono alzata per aprire al mio amato
e le mie mani stillavano mirra;
fluiva mirra dalle mie dita
sulla maniglia del chiavistello.
Ho aperto allora all’amato mio,
ma l’amato mio se n’era andato, era scomparso.
Io venni meno, per la sua scomparsa;
l’ho cercato, ma non l’ho trovato,
l’ho chiamato, ma non mi ha risposto.
Il calore rigenerante elargito dalla fiamma, che è poi il vero amore, scaturito dalla fede, quella dolcezza infinita e nel contempo stabile che è uno dei connotati dello Spirito, si collocano in un territorio per il nostro Io ordinario incontrollabile; sono qualcosa di inafferrabile, che ha a che fare con la gratuità e lo stupore: la visita dello Spirito nelle nostre “stanze” vuote non la decidiamo sempre noi; noi possiamo predisporci, grazie a pratiche come quelle elaborate e proposte in Darsi Pace, ad accoglierne l’arrivo svuotandoci “di ogni lordura”, come scriveva Montale in Mediterraneo – e puntualmente, se ci lasciamo cadere giù, la grazia arriva – ma lo Spirito, come spesso affermiamo anche nei nostri gruppi, è libero, fa come vuole; è una vera e propria ri-velazione. Per entrare in contatto con questo fuoco c’è comunque di mezzo la morte, che, lungi da essere un qualcosa di lugubre, è una delle esperienze più rigeneranti e profonde. L’Io Spirito infatti, che percepisce l’abisso in modo diverso dall’Ego, è felice di cadervi dentro, perché sente che solo quello è il luogo di congiunzione alla Sorgente. “Sollevate, porte, i vostri frontali, alzatevi, porte antiche, ed entri il re della gloria!”, ci ricorda il Salmo 23 (v. 7). La porta della morte, naturalmente, intesa come “passaggio” da compiere per arrivare a esperire la tenera apertura ricettiva della nostra anima mariana. O ancora: “Dolcissima è l’acqua che il cocco libera al taglio del machete”, afferma la voce altra che parla a Marco Guzzi alla fine della sua poesia “Viva l’Europa”. Questa riflessione, poi, l’ho collegata in seguito ad alcuni appunti che ebbi annotato tempo fa ascoltando me stesso:
“Anima mia, sei così inquieta; tormentata da un’inquietudine che ti divora da dentro; tu che hai fame, una straziante fame dell’Eterno, tu che desideri solo ricongiungerti a Lui, abbandònati adesso, abbandònati al suo flusso! Ti ricolmerà di oro, di tutto quel lusso che neanche immaginavi.
Eccomi, sto arrivando, scivolo giù nella bocca dell’abisso; scompaio, sprofondo, ma niente mi farà male. Sento che ci sei Tu ad accogliermi in un soavissimo canale. Ecco, sei vicino, uno stupore m’invade.. Sono qui, nuda tutta come una corte invernale; immergimi in Te, colmami del tuo miele. Stringimi, ti prego; non mi lasciare.
Anima mia, di nuovo sei nello sconcerto; quel raggio dell’Eterno che ti lambiva si è dissolto, si è ritratto nel suo misterioso antro. Ti senti mancare, lo so: avvilimento. Non ti rattristare, però, lo senti il vento? Ti dice che tornerà da te, visiterà ancora il tuo letto. Tu preparagli un giaciglio caldo, fatto del tuo oceanico e più candido silenzio. È così: Egli giunge da te e poi scompare nell’Immenso. Ma non disperare: anche quando sarai ritornata nel sordo uragano, serba in te il Suo ricordo; e Lui non ti sarà lontano.”
Ed è sempre il Cantico stesso che celebra questa passione, la soavità del morire nel fuoco dello Spirito (Ct 8, 6):
Mettimi come sigillo sul tuo cuore,
come sigillo sul tuo braccio;
perché forte come la morte è l’amore,
tenace come il regno dei morti è la passione:
le sue vampe sono vampe di fuoco,
una fiamma divina!
Quando almeno io riesco a realizzare, anche solo in minima parte, queste parole, avverto tutta la potenza inenarrabile di quello sguardo infinito intriso di benevolenza che si dilata dentro di me, nelle mie membra. Esclamo, insieme ad Ungaretti nella sua poesia Sereno: “Mi riconosco immagine passeggera presa in un giro immortale”. E, rinato, rinasco; ecco il mistero del Battesimo. Un flusso di bontà sento scorrermi dentro – ogni pensiero “cap-tivo” (cioè prigioniero) della mente – che, come ben sappiamo, domina il nostro Ego – viene sterminato e la mia anima si fa simile al calice di un fiore tutto proteso e aperto al mattino per accoglierne la rugiada (quanto d’altronde l’icona simbolica stessa dell’Immacolata Concezione ci rivela), che poi altro non è che quel senso di soavità e struggimento proveniente da un abbandono sempre più profondo. “Dolce è il morire”, avrebbe cantato qualche antico poeta come Leopardi, che non a caso aveva ben intuito il nesso abissale tra Amore e Morte, tematizzandolo nella sua celebre poesia omonima. Ed è così in effetti: lasciarsi cadere giù, nell’oceano di noi stessi come un sasso nel mare, accettare di passare da quella valvola che è la morte, la rinuncia a sé, spalanca portali di soavità inaudita e permette di entrare nella dimensione contemplativa.
Quando l’attuale Occidente e la struttura egocentrata su cui esso si regge si sarà ricordato di queste piccole ma grandi cose, l’impulso del fuoco, l’impulso travolgente del Cristo che avanza, che noi stiamo ibernando dentro di noi, come afferma Marco Guzzi[2], si risveglierà inondando di nuova bellezza il nostro splendido pianeta. Purtroppo neanche lo stesso Cristianesimo oggi è esente dalla paralisi che attanaglia i nostri corpi e il nostro tempo: il rischio che sta correndo è quello di diventare annacquato, una sorta di pane inzuppo in una brodaglia di buonismi moralistici. Il Cristianesimo, lungi dall’essere un coacervo di mistificanti apologie di figurine da album estrinseche all’uomo, esiste per farci archi frizzanti pronti a scoccare la freccia del nostro essere più ardente contro le pareti diroccate di noi stessi e del mondo, non per ridurre gli uomini a delle sogliole svogliate e svuotate di vita che strisciano sul fondale dell’esistenza. La coscienza cristica è qualcosa di infinito che non è facile descrivere col linguaggio ordinario, tanta è la sua potenza. È ora di tornare a sentire, in un momento storico dominato dal rischio di un’imminente guerra nucleare e da un esiguo numero di potenti che si attaccano come sanguisughe a un potere fallace quanto illusorio, che “il piccino fermento del (nostro) cuore non è che un momento del tuo”, come scrive Montale appellandosi, con quel “tuo”, all’alterità dell’uomo, all’Altro-da-Sé, da lui ravvisato nel mare. Poeti come Montale, del secolo scorso, avevano d’altronde intuito l’esistenza di un “oltre” che è possibile raggiungere, indicandocene la strada, un’ulteriorità che si trova al di là dei nostri recinti o del nostro “muro con in cima cocci aguzzi di bottiglia”[3]. È giunto il tempo di superare persino loro, di spingerci al di là, di far nascere una nuova stirpe di aedi – per tentare di incarnare il fuoco vivo che possiamo incontrare in quelle zone dell’anima – e per regalare scrosci di linfa fresca all’albero decrepito e incancrenito di questo mondo che è attecchito su un “terreno bruciato dal salino”[4].
“Si può portare il fuoco sul petto senza bruciarsi i vestiti, o camminare sulle braci senza scottarsi i piedi?”, si legge in Proverbi 6, 27-28. Forse no. Ma allora vale la pena chiedersi: e se allora bruciare non fosse tanto poi un male? Pur facendo, naturalmente, male?
[1] Cfr. M. Guzzi, Parole per nascere, 2014, ed. Paoline, pag. 41
[2] Cfr. M. Guzzi, Darsi Pace, 2004, ed. Paoline, pag. 171
[3] E. Montale, Ossi di seppia, nella poesia Meriggiare pallido e assorto.
[4] E. Montale, Ossi di seppia, nella poesia Portami il girasole.
Dalì è finito dall’esorcista!
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https://cultura.biografieonline.it/metamorfosi-narciso-dali/
https://www.thedaliuniverse.com/it/news-telefono-aragosta
Un magnifico post caro Simone che ho letto più volte con grande piacere. Sento la tua storia molto vicina, è quello che racconti e ciò che direi anch’io se dovessi parlare dello spirito. Leggendo mi è venuto in mente una canzone di una grande cantante che amo molto e seguo con grande piacere: Alice, la canzone si intitola: “come un sigillo”. Sono unito con tutto il cuore a ciò’ che racconti nel tuo post. Ringrazio degli stimoli che ho ricevuto, dei chiarimenti che hai trasmesso, e di questa tua bella e ampia esposizione. Un caro saluto e un abbraccio da Fabio.
Grazie Simone per il tuo scritto che mi ha commosso, perché ha toccato punti caldi, brucianti di quel fuoco che ben descrivi . Un fuoco che brucia il legno vecchio delle nostre illusioni e purifica tutto, dalle nostre labbra impure ai nostri pensieri giudicanti. Il lavoro spirituale consiste nel bruciare legna diceva un maestro, e la sua luce permette di vedere meglio aggiungo. Grazie ancora per questa condivisione così sentita e così preziosa
Grazie Simone
Grazie di cuore a voi tutti, amici, dei vostri commenti e delle consonanze. Lo Spirito è vita, in ogni suo colore e chiaroscuro. Noi lo dimentichiamo troppo spesso, io stesso. Il post vuole esserne un promemoria pure per me.
@Fabio: Ti ringrazio infinitamente per la vicinanza che mi esprimi. E che ricambio anch’io, pur non conoscendo la canzone di Alice, ma conoscendo un estratto della Maitrāyaṇya Upanishad che mi aiuta molto: “La beatitudine che sorge nello stato di supremo assorbimento, quando la mente purificata si è acquietata nel Sé, non può mai essere espressa a parole! La si deve esprimere direttamente, da sé, nel proprio intimo essere.” (VI, 34, 9). Un Sé, diremmo noi, che ci parla e ci rivela a noi stessi.
Ti abbraccio, un saluto
@Francesca: Grazie anche a te della risonanza. Non posso che convenire con te su tutto ciò che hai scritto. E i pensieri maledetti è giusto che si facciano cenere nella camera del focolare che è la nostra camera, cenere sopra alla quale il fuoco può divampare. L’unica cosa davvero ardua, almeno per uno come me, resta la sua incarnazione. Senza la quale corriamo molti rischi..
Un abbraccio anche a te, grazie ancora
@Salvatore: grazie mille anche a te, caro amico.
Possiamo tutti proseguire nel nostro percorso di vita col sigillo del fuoco impresso sul petto e imparare a farlo ardere, senza vergogna né ritenzioni.
Grazie di nuovo, Simone