Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!
(Purgatorio, canto VI vv. 76-78)
Il 14 settembre del 1321, a Ravenna, moriva Dante Alighieri. Nel commemorare questo momento storico abbiamo deciso di fare un’analisi del Sommo poeta con l’aiuto del professore Gianni Vacchelli, evitando in tutti i modi di ripetere la solita manfrina su quanto è bella la Divina Commedia e su quanto sia “romantico” il Canto di Paolo e Francesca. No, grazie, Dante non merita facili lusinghe. Egli va ricordato e studiato innanzitutto per la sua radicale prospettiva di denuncia politica e poetica; per il suo sguardo epopteico, ovvero mistico-panoramico, che ha segnato un cambio di passo rivoluzionario sia per ciò che riguarda la poesia, intesa come esperienza di scrittura spirituale, sia per ciò che concerne il proprio giudizio che fu spietato nei confronti del pensiero politico e teologico allora dominante.
Dal nostro punto di vista, infatti, il carattere politico e insieme iniziatico del poeta fiorentino è l’aspetto più importante su cui occorrerebbe porre l’attenzione. Egli è stato certamente anche il più grande costruttore della lingua italiana, un ricercatore e un acuto filosofo; oltre che un genio della precisione ritmica con cui riusciva a comporre i suoi celebri endecasillabi. Ma, ciò che spesso viene colpevolmente rimosso è che la sua grandezza risiedeva nel fatto che: da una parte, riusciva sì a spiccare il volo verso orizzonti meta-fisici, usando uno stile che era allo stesso tempo “volgare” e “aulico”; ma, dall’altra, si è anche sempre sforzato di penetrare le limosità della terra attraverso un pieno e faticoso coinvolgimento personale in quelle che erano le strutture politico-amministrative della sua difficile città d’origine. Strutture che, per chi conosce un minimo le diatribe sanguinose che ci furono durante tutto quel periodo storico a Firenze, chiamare “belliche” o “violente” significa usare degli eufemismi.
Dunque è il connubio inedito fra alto e basso, fra Spirito e Materia, tra mente e azione a rendere Dante Alighieri un poeta unico e impressionante. Un poeta, in questo senso, dell’avvenire. In lui non c’è mai il segno di un rifiuto definitivo del mondo. Anzi, pur conoscendo l’abisso terribile che dimora nell’essere umano, ma anche l’assoluta luce del Cielo divino, egli ha sempre cercato di lavorare con la parola poetica ad un livello orizzontale, sul piano quindi dell’Incarnazione dello Spirito assoluto nella Storia umana temporale. Per questo motivo molti studiosi di Dante descrivono la sua intera opera nei termini di una costante sinechia tra gli opposti; di una “tenuta insieme”, spesso faticosa e rischiosa, di quegli elementi che sono apparentemente contrastanti ma che, invece, se ben amalgamati, possono rivelare l’unità misteriosa (Cristo-logica) esistente fra Parola, Visione e Azione nel mondo. Se poi Dante sia riuscito o meno in questa impresa, non sta a noi giudicarlo. Certo è che, letta in tal senso, la sua visione poetica e filosofica, unita al suo impegno politico contestativo, tendeva sicuramente a raggiungere questo fine ultimo, diciamo, di sintesi unitiva e sostanzialmente emancipativa rispetto al delirio della Separazione egoica.
Secondo alcuni storici medievisti, come il nostro Alessandro Barbero, quando Dante cominciò a scrivere l’incipit della Divina Commedia — «Nel mezzo del cammin di nostra vita/ mi ritrovai per una selva oscura,/ ché la diritta via era smarrita» — il poeta si trovava nel bel mezzo di una crisi esistenziale che, però, era, molto probabilmente, dovuta a una sua forte sofferenza nel dover prendere atto di come la miseria spirituale e la corruzione viscerale dilagante, stessero dominando il cuore dell’ordine politico di cui lui faceva parte (nello specifico dei Guelfi bianchi, ma non solo). Questo fatto era per lui qualcosa di terribile e di inaccettabile. Più in generale, l’immoralità diffusa in tutto il sistema politico di allora era diventata per Dante una problematica endemica e di fatto irrisolvibile. Lo schifo e lo sconforto che provava nello scendere a patti con quelli che lui stesso condannava alle pene dell’inferno, lo portò a inabissarsi in un’amarezza interiore che lo costrinse a intraprendere il viaggio dentro le oscurità della propria — e dell’altrui — condizione umana.
Il viaggio di Dante è, senza ombra di dubbio, un itinerario iniziatico. Egli è uno dei Grandi iniziati, come direbbe Schuré, che hanno reso un contributo fondamentale per lo sviluppo della coscienza sulla terra. Ciò non soltanto perché si è dedicato all’arte della poesia; ma, specialmente, perché nella sua riflessione filosofica e politica (pensiamo ad alcune attualissime pagine del Convivio o del De Monarchia) ha tentato di risolvere le criticità politiche del suo tempo coltivando una mentalità psico-logica che era già fuori dagli schemi prestabiliti. D’altronde, il bisticcio fra poesia e ragione è qualcosa di atavico nella storia dell’Occidente. Eppure: «Il poeta [Dante] può trattare concetti filosofici, non come materia di discussione — scriveva T. S. Eliot ne Il bosco sacro —, ma come materia di visione». Perciò, diciamo pure che nella misura in cui egli è riuscito a convertire ogni miope razionalità dell’ego in perfetta “visione” mistico-teo-logica, è lì che si rivela davvero quale grande poeta nel senso spirituale e fondativo del termine. Poeta è infatti colui (o colei) che lavora sempre affinché la realtà, visibile e invisibile, possa contrarsi e dilatarsi all’infinito, seguendo il moto rigenerativo dell’universo.
La parola “iniziato”, associata al poeta, ci collega per forza di cose all’ambito della “visione”; che ci rimanda immediatamente al significato della “veggenza” oracolare. Dante fu un uomo, in questo senso, pre-veggente. In quanto riuscì a leggere in anticipo quello che sarebbe accaduto, ma che, pur essendo già sotto gli occhi di tutti, nessuno aveva il coraggio di prendere in seria considerazione. D’altronde, sembra essere proprio questo il destino dei grandi poeti di ogni epoca. Sono tutti in qualche modo segnati dalla ferita di un disconoscimento a tratti profetico, nel senso della figura biblica del Battista. Così fu anche il caso, a noi più recente, del poeta francese Rimbaud, ricordato a proposito da Vacchelli durante l’intervista. Anch’egli, a distanza di circa cinquecento anni dalla nascita della Divina Commedia, fece l’esperienza diretta di una discesa agli inferi. Ma, questa volta — come ci ha mostrato Marco Guzzi in L’Insurrezione — le sue “illuminazioni” lo portarono a sperimentare le bolge infernali della propria anima, senza più l’uso di alcun paracadute razionale (Virgilio); a scrutare così in modo pienamente apocalittico («io è un altro») ciò che oggi, nel 2023, stiamo tutti attraversando, di rado consciamente e, il più delle volte, ancora, inconsciamente.
Questo dialogo con Vacchelli sulla figura di Dante, poeta e politico, speriamo possa aiutarci a comprendere meglio come il poeta è, evidentemente, il politico. E di come — viceversa — un politico che non sia anche un poeta, nel senso di un essere perennemente in ricerca delle proprie origini spirituali, è destinato a restare intrappolato nella propria “selva oscura” interiore. Una selva che, senza nemmeno saperlo — dice Dante — è fatta di cupidigia, di superbia e di vanità. E non è forse questo ciò che constatiamo ancora oggi quando osserviamo lo stato di salute della nostra “classe dirigente”? Non siamo forse oggi culturalmente schiavi di questa contrapposizione fra poesia e tecnopolitica, fra arte e pseudo-scienza, fra Cristo e Mammona? Non dobbiamo allora adesso, come allora, ribaltare il teorema mortifero della cultura accademica predominante? Il messaggio di Dante è molto chiaro a riguardo; e ci esorta ad essere tutti avventurieri mistici e sognatori politici vigili e pragmatici. Due cose queste che, purtroppo, sono rare da trovare oggigiorno, tanto fra i “poeti” contemporanei quanto fra i “politici” che siedono tronfi e impuniti nei nostri parlamenti. Il rischio di ammalaci di un pesante cinismo cronico è molto alto, lo sappiamo. Eppure, la luce del Paradiso è sempre lì, in una dissolvenza vivente, pronta in ogni momento a guarirci e a incoraggiarci di non abbatterci di fronte alle sfide ardue del nostro tempo.
Grazie. Per questo contributo.
Grazie Davide. Ancor prima di guardare l’intervista, ti dico che questa è una lettura veramente interessante. Più che un articolo, un piccolo saggio, che nulla censura e proprio per questo si apre ad una concreta speranza. Così i Poeti escono dalla muffa accademica e riprendono vita, e ci interessano di nuovo. E di nuovo ci vengono a trovare e si propongono compagni per il nostro cammino – come la vera poesia, la vera arte, sempre fa.
Complimenti sinceri.
@Salvatore grazie a te per l’attenzione!
@Marco ti ringrazio per i complimenti. Sì, hai ragione, la forma è più simile a un saggio breve. E non escludo che nei prossimi anni possa arrivare a partorire qualcosa del genere anche in chiave materiale, editoriale. Sempre Spirito permettendo.
Un caro saluto, Davide