Qualche giorno fa, ad una cena con alcuni parenti, quando ho raccontato che sarebbe uscito un libro edito dalle Paoline contenente un mio saggio, ho riscontrato un atteggiamento evidentemente disinteressato, dovuto principalmente alla difficoltà di inquadrare questa mia attività in una cornice lavorativa chiara e definibile.
È quindi emersa una distanza abissale tra me ed i miei interlocutori, dovuta principalmente all’incomprensione del senso finale del mio impegno in cose come il lavoro interiore, la formazione nei gruppi Darsi Pace, gli eventi pubblici, la Nuova Umanità…
Dal mio punto di vista questa lontananza non è semplicemente legata a valori diversi (più o meno materialisti) ma è più ascrivibile ad una differenza generazionale profonda. Come tutti noi sappiamo, uno dei fini del progetto moderno è l’uscita dallo stato di minorità e di necessità.
Un osservatore particolare come Sri Aurobindo, nell’introduzione alla Sintesi dello Yoga, interpreta questo fine intrinseco nel pensiero moderno ed occidentale come un enorme sforzo dello Spirito avente come scopo l’elevazione della Mente Universale dalla dimensione mentale-materiale verso quella intellettuale e divina.
Da questo punto di vista, l’attenzione per le cose materiali è tutt’altro che alienazione ed il pensiero occidentale, con il «suo lasciarsi assorbire dalla natura materiale e dall’esteriorità dell’esistenza» getta le basi affinché «l’umanità nel suo insieme possa liberamente sviluppare il suo essere emozionale ed intellettuale al massimo delle sue potenzialità»[1].
La differenza generazionale è quindi una differenza legata al significato ultimo del nostro stare al mondo: se per la “vecchia” generazione il benessere materiale aveva uno scopo nobile (pensiamo ad esempio per una famiglia contadina di soli cento anni fa quanto eroismo ci fosse nel passare tutti incolumi un inverno, sani e salvi) oggi tutto questo semplicemente non basta più e non basta perché l’obiettivo è stato raggiunto. Ovviamente, ciò non significa che abbiamo tolto l’umanità dallo stato di necessità materiale, ma che abbiamo raggiunto la possibilità di farlo: oggi, dal punto di vista puramente tecnico, con i mezzi che abbiamo questo obiettivo è perfettamente alla nostra portata.
Caduta questa finalità implicita all’agire collettivo, frange di popolazione sempre più vaste vivono nel semplice nichilismo.
Il movimento l’Indispensabile, ad esempio, nasce e prende il nome proprio dal sentire una profonda mancanza di qualcosa di essenziale. Il suo nome è tratto dalle parole di addio scritte dalla giovane Francesca ai propri genitori prima di suicidarsi: «Posso solo dirvi che mi avete dato il necessario e il superfluo, ma non l’indispensabile…»
Dal mio punto di vista, questa tensione esistenziale è sempre stata uno dei sentimenti più forti e costanti della mia vita. Qualcosa che è sia un tormento, quanto ciò di più caro ed importante. Per chi, come me, fa di questo sentire il centro della sua esistenza, il mondo di oggi può apparire un deserto dominato da profonda rassegnazione e conformismo.
La condizione è quindi quella per cui, chi cerca il fine ultimo, si può appassionare, può “perdersi” in questo o in quell’impegno o distrazione, ma spesso ha come la sensazione di vagare senza trovare qualcosa che risuoni come “proprio”, dove cioè un lavoro o uno stile di vita o una meta qualsiasi sia in grado di rivelare il senso profondo dello stare al mondo, senza che questo “darsi” al mondo chieda come pegno proprio la rinuncia o l’accantonamento della ricerca del senso delle cose e dell’esistenza.
Se dovessi descrivere questo mio sentire con un’immagine sarebbe quella del mendicante o, meglio ancora, del vagabondo, alla ricerca della sua casa.
L’antropologo Ernesto De Martino usa il concetto di “patria culturale” per descrivere quello che intendo con casa, cioè una configurazione di elementi culturali in grado di strutturare il mondo della vita e dare una percezione di “domesticità” alla realtà che ci circonda. A me serviva una patria che desse spazio a questo anelito, e questo luogo l’ho trovato in Darsi Pace.
Quello che Marco chiama un “campo di eventi” è diventata quindi la mia casa, da intendere però non come un luogo fisso o una qualche setta chiusa ma bensì una scuola di vita in grado di rigenerare qualsiasi elemento della vita quotidiana, in grado quindi di rendere ogni aspetto del reale, ogni lavoro, ogni meta mondana un luogo potenzialmente capace di realizzare e rivelare il mistero della nostra esistenza. In un certo senso il cammino proposto nei gruppi può rendere ogni luogo dell’esistenza un luogo abitabile.
Io credo che nel libro “La politica di una nuova umanità” sia possibile intravedere un primo frutto di questa patria culturale. Ogni autore infatti, a partire da un particolare ambito, tenta di rigenerare il luogo della vita in cui si trova. Di conseguenza il mio studiare sociologia diviene rivelazione del Mistero dietro l’ignoto che avvolge sempre di più le scienze sociali, come mostra l’esclamazione iniziale dell’ultimo saggio di Ulrich Beck «Non capisco più il mondo»;
Per Andrea diviene trovare la forza ed il rigore per una denuncia seria dell’università, un ambiente che ancora abita ed ama;
per Luca è riconoscere e far riconoscere il cuore cristico universale che anima i popoli, tutti i popoli a partire dall’Europa, riconoscendo che l’amore per la storia che lo ha da sempre divorato è un amore per il Cristo;
per Davide ad esempio, diviene rivelare l’estrema profondità di realtà “di strada” come un passo di Break dance, o una frase di un film cult come Matrix;
per Francesco si tratta di donare la limpidità della sua mente attraverso la spiegazione cristallina di ampie tematiche culturali;
ed in fine per Gabriele si tratta di rivelare con grande coraggio e precisione il Cristo vivente, come unico e vero cuore pulsante del progetto politico e rivoluzionario occidentale.
Marco ha costruito una casa tenendo fede al Verbo ispiratore e, nelle sue possibilità, ognuno contribuisce al suo ampliamento. Questo testo è un valido contributo in tal senso ed un primo passo verso la bonifica del mondo.
Abbiamo una casa, con la Grazia e nel Giusto Spirito saremo in grado di ampliarne le mura ed invitare tutti, poiché nella casa del Padre, vi sono molte dimore.
[1] Sri Aurobindo, La Sintesi dello Yoga, volume uno, Lo Yoga delle opere divine, Ubaldini Editore, 1967 Roma, p. 21
Bellissimo
Grazie caro Diego,
un testo davvero bello prezioso,
da diffondere e custodire nel cuore.
Un abbraccio,
Francesco
Ciao! Bella questa immagine della casa da abitare, condividere, sostare, approdare, ma anche arredare con i propri mobili! ?Mi piace!
Grazie di cuore!!
Il libro l ho preso e ne userò pezzi per le mie classi quinte.( superiori)..che hanno bisogno piubdel pane dell indispensabile nelle loto vite e di case accoglienti !
Trovo straordinario come, nonostante il percepito “disinteresse” giustificabile o meno da parte di chi è – in qualche modo – più vicino, abbiate sentito forte il bisogno di “rigenerare il luogo della vita partendo dall’ambito in cui ci si trova” – impresa per nulla facile. Complimenti ! Siete un forte segno di speranza. Grazie
Caro Diego, molto interessante l’articolo e l’onesta nota biografica che inserisci all’inizio, riguardo il disinteresse “familiare” verso questa opera (che personalmente non vedo l’ora di leggere) e più in generale sulla realtà dalla quale questo libro viene generato. Non sono certo però che sia semplicemente un fattore generazionale, ma abbia anche variabili (psichiche e psicologiche) ben più complesse.
Altrimenti non mi spiego perché i miei tentativi di veicolare la Carta in famiglia (moglie e figli – dunque due generazioni – tutti impegnati nel lavoro, nello studio e nella vita sociale, in modo che definirei encomiabile) siano affondati nelle sabbie mobili di un cortese ma deciso disinteresse. Una certa diffidenza l’ho trovata anche tra compagni di “movimento” che conosco da diversi anni – abbiamo letto la Carta andando ad un ritiro, ma non posso esattamente dire che siano rimasti conquistati! Hanno reagito in quell’occasione con le “solite” domande “ma questi in realtà cosa vogliono?”, “vedrai che si buttano in politica”, e purtroppo non sono riuscito a portare la conversazione su un piano di maggiore realtà e anche utilità reciproca.
Credo vi sia un cinismo diffuso, una sensazione di “ma tanto niente può cambiare” (“There is no alternative” della celebre Margaret) – frutto probabilmente di un lungo lavoro sulle menti e sulle coscienze, ormai addomesticate – che è il nostro primo e maggior nemico.
Per me la Carta è uno strumento straordinario di aggregazione su certi specifici poli, aperto a tutti, al di là delle appartenenze – e per questo mi piace molto e l’ho sostenuta dove potevo. Ma c’è davanti a noi un lavoro che non deve essere (dico a me stesso) di “convincere” o “plagiare” nessuno, ma far uscire le nostre ragioni in modo ancora più nitido e cristallino. Per me, vuol dire intanto lavorare ancora su me stesso, in modo più allegro e deciso. In modo che il mondo, se ne possa accorgere.
Grazie!
Grazie Diego
L’esistenza della Carta rappresenta un momento particolarmente importante nella storia dei Gruppi, ora movimento, DarsiPace. Per me è rivelativa di un disegno più profondo, Marco direbbe Messianico e, in quanto tale, inevitabile. Come spiega Marco, la Carta è un esperimento, un laboratorio, ancora e di nuovo, dove tutto il lavoro di questi venticinque anni viene, appunto, calato nella storia, nella carne viva del contesto apocalittico che stiamo vivendo. Tutte cose queste che, in quanto praticanti, sappiamo che ci hanno condotto qui. Amo la politica e la storia almeno quanto disdegno i Partiti e la guerra e attraverso la Carta posso provare a vivere questo impegno, all’insegna della libertà e della condivisione. Qui sta un punto che ho capito essere fondamentale per me, quello di non proporre la Carta ma semplicemente di invitare a leggerla e raccoglierne la condivisione, laddove risuona negli altri, e non l’adesione ad essa. Almeno questo mi suggerisce la mia, fin qui brevissima, esperienza. La Carta risuona in ciascuno di noi così come in tutti coloro che ne condivideranno i contenuti, mi sento di dire che e’ un’offerta non una richiesta e le offerte possono anche non essere accolte a volte, dipende anche da come le si porgono. Personalmente, siccome non sono un bravo oratore, forse nello scrivere sono meno peggio, finora mi sono limitato ad invitare alla lettura, chiedendo di farmi poi conoscere le riflessioni ed i pensieri che ne fossero scaturiti. Questo almeno in un ambito di approccio personale mi ha molto facilitato e alleggerito. Ora attendo di poter leggere il libro he, ne sono certo, mi offrirà ulteriori spunti di riflessione su come relazionarmi con gli altri nel proporre la lettura della Carta. Per me questo è un esercizio estremamente utile per imparare ad ascoltare mentre in passato aderivo e andavo in battaglia, pronto a scontrarmi, mentre ora sento di dover ascoltare. Una grande lezione per me che spero possa essere utile al lavoro che stiamo facendo. Grazie
Grazie a tutti per i commenti, sono contento che questo articolo abbia suscitato interesse.
@Marco Castellani. Forse il termine generazione è un po’ ambiguo: il divario generazionale, per come lo intendo, è tra chi avverte l’insostenibilità di un certo modo di stare al mondo e la necessità di “un nuovo grande ciclo della storia” e chi non avverte questo. C’è chi non può non ascoltare la voce dell’abisso che abita il suo cuore ed il cuore del mondo e chi invece non avverte questo richiamo con particolare forza. In questo senso il divario generazionale non è cronologico ma dipende da cosa è al centro della tuo sentire e quindi genera il tuo stare al mondo.
Grazie Diego, la tua spiegazione illumina ulteriormente il tuo testo.
Molto fecondi questi scambi.
Un saluto!