Inizio con una storia vera, ma essendomi giunta tramite un passaparola, la pongo nel cassetto degli aneddoti. Non per questo ha meno valore, almeno per quel che mette in evidenza.
Una collega mi ha raccontato che una sua amica era stata operata di nuovo, per tamponare alcune complicanze che si erano presentate dopo un precedente intervento chirurgico.
Data la natura dell’operazione, in ospedale le stavano effettuando iniezioni di eparina per la prevenzione di trombi. Un giorno un’infermiera arriva con una nuova pillola dicendole che è un farmaco coagulante. Avendo la signora fatto notare l’opposta funzione dei due farmaci, chiede spiegazioni e il medico risponde: ma lo dice l’algoritmo!
Detta così può sembrare strano, certamente il racconto potrebbe non essere preciso. Vorrei però partire dalla percezione della paziente e quindi da ciò che è stato da lei raccolto, per cui deve pur esserle arrivato qualcosa di vero, non fosse altro che in termini di un clima che si respira.
Ogni volta che una nuova tecnologia viene messa a punto e lanciata sul mercato, la si presenta come ausilio che aumenterà la precisione con cui si potrà effettuare una determinata funzione. Se l’intelligenza artificiale legge una TAC, lo farà senz’altro in modo più accurato, riuscendo ad individuare anomalie che sfuggirebbero all’occhio umano.
Si aggiunge subito però che l’ultima parola sarà sempre del medico che dovrà valutare la situazione particolare.
In un sistema di mondo sempre più tecnocratico, è molto alto il rischio che questo secondo passaggio si sgretoli fino a rimanere del tutto disatteso, demandando pressoché totalmente alla macchina, all’algoritmo, e indietreggiando nella competenza del professionista.
In questa distopia, che vediamo avvicinarcisi a sempre maggiore velocità, l’analisi del sangue, l’ecografia, l’algoritmo ecc. diventano il nuovo idolo cui ci si genuflette, a cui si sacrifica ogni altra capacità precipuamente umana: l’intuizione, l’abilità di fare sintesi dell’esperienza accumulata in anni di professione, il riconoscimento del paziente come persona con esigenze specifiche da far mettere su misura la lettura delle analisi, la formulazione di una diagnosi, come la prescrizione che ne potrà derivare.
Tutto ciò ha però conseguenze pesanti.
L’essere umano è ridotto a parametri, una collezione di dati interpretabili matematicamente.
Il medico, ma anche l’infermiere, il fisioterapista, il logopedista ecc. si riducono a tecnici che svolgono in modo più o meno automatico operazioni codificate da protocolli stretti.
Il paziente è un organismo da riportare entro i limiti di norma, decisi altrove, da chi predispone linee guida calcolate su base statistica cui non interessa minimamente la sorte di quella persona, perché non ha proprio neanche più il concetto di persona.
L’operatore sanitario, diventato un tecnico che segue procedure, non ha bisogno di avere un’autonomia professionale, un bagaglio di esperienza di familiarità con l’umano da farglielo sentire.
Se l’essere umano è ridotto a meccanismo, lo si può agevolmente appiattire sullo schermo di un dispositivo, dove i grafici e le loro aree diversamente colorate sono la nuova forma del corpo.
Con una tale visione retrostante, è chiaro che quando il meccanismo si guasta lo si debba aggiustare riportandolo alla performance iniziale. Alla macchina non si chiede nessun acconsentire, ma al massimo il consenso che, con faccia tosta sgomentante, riusciamo a chiamare informato.
Eppure c’è tanto disagio, tanta franca sofferenza, sia da parte degli operatori sanitari sia da parte dei pazienti.
Per ora, sentiamo lo stare male, ma facciamo ancora fatica a risalire alla sua radice.
Se però ci fermiamo ad ascoltare ciò che ci affligge talvolta fino all’angoscia, non possiamo non sentire come la negazione del mistero che siamo sia una fonte di bruciante dolore che chiede cura.
Nel momento in cui ci rendiamo conto della profondità misteriosa di ciò che l’umano è, allora non possiamo non reagire cercando fonti di sollievo, in cui la dimensione spirituale che ci costituisce sia finalmente ascoltata.
Il medico quindi si potrà sollevare dal vincolo ideologico che lo lega alla macchina, potrà utilizzare davvero gli ausili tecnologici appunto come ausili, riguadagnando la sua autonomia professionale che gli dà parola prevalente.
Saprà ritornare a toccare il suo paziente, ad auscultarlo, palparlo, dargli la consolazione del contatto della pelle che sa trasmettere vibrazioni di reale vicinanza.
Il medico saprà allora guidare il suo paziente nel viaggio della conoscenza di sé, perché stanno già camminando insieme nello stesso percorso.
Impareranno insieme, medico e paziente, ad abitare la potenza della corporeità umana, la sua capacità omeostatica di ritrovare equilibri perduti. Certo non occorre avere fretta, la guarigione ha i suoi tempi che non possono essere assoggettati alla frenesia di un mondo in accelerazione catastrofica.
Allora lo sguardo del medico diventa la più potente radiografia perché va ben oltre l’osso, la sua presenza rassicurante calma gli eccessi, le sue parole sono i farmaci che ci servono per avviare la cura.
Ho iniziato con un racconto, concludo con un altro.
Un’amica di mia madre, ormai ultraottantenne, mi raccontava come sua figlia molto piccola manifestava un malessere che loro come genitori non riuscivano a capire. Portata dal medico, quell’uomo la guarda, la osserva con attenzione, sa leggere i movimenti della bambina e fa diagnosi di cistite. Le analisi avrebbero confermato e gli antibiotici avrebbero fatto il resto.
A noi ipertecnologici una narrazione del genere sa di retrogrado e proviamo pietà per quei poveri medici che non avevano attrezzature su cui contare; i più cinici si spingono fino al disprezzo, ritenendo che oggi noi abbiamo a disposizione ben altre capacità diagnostiche.
A me pare invece che noi siamo caduti nella trappola della lusinga ammaliante della tecnologia per la quale la complessità del reale è la risultante di una somma aritmetica delle parti, mentre la complessità della vita sgorga per eccedenza e perciò è sempre molto di più della somma delle parti.
Questa eccedenza è l’impronta dello Spirito che rende la vita il mistero che siamo e da cui siamo chiamati per una fioritura eternamente inedita.
“Grazie” all’algoritmo, il medico si svincola dalla fatica e dalla responsabilità: smette di ragionare e il suo lavoro diventa più facile, permettendogli di “sopravvivere” meglio ai carichi (anche orari) a cui viene sottoposto, inoltre si libera dal peso della responsabilità, perché se si verifica l’errore che nuoce al paziente, la colpa sarà dell’algoritmo che dovrà essere migliorato e modificano e nel frattempo… si soffre e si muore.
Iside Fontana ti ringrazio, perché con questo post mi consenti di fare un’ulteriore riflessione: sapete che mancano all’appello tantissimi medici di base, che i medici andati in pensione non sono stati sostituiti? Quando la lacuna sarà incolmabile, anche col super-lavoro dei medici rimasti, come si sopperirà? Ci avete pensato? “Intelligenza Artificiale”… Devo aggiungere altro?
Grazie cara Iside, ancora una volta sollevi temi importanti attorno alla salute e ai sistemi di cura, mettendone in luce quelle carenze apparentemente marginali, secondo i protocolli o le linee guida, che invece rendono conto dell’atroce carenza di umanità che si può incontrare. Non parli certo di maltrattamenti o danni volontari, ma della freddezza e del distacco che si può percepire quando chi si ha di fronte non ci riconosce come esseri dall’immenso valore. Quelle situazioni in cui il cuore si congela e si capisce che non c’è altra via se non aggiustare qualcosa qua e là nel proprio corpo.
In genere mi trovo dall’altra parte, sono uno di quei medici che stanno sopportando e subendo un sovraccarico lavorativo citati da Giulio nel commento precedente, e so quanto sia facile cadere in questa dimenticanza e quanto sia invece necessario richiamarsi continuamente ad una sensibilità che non veda solo corpi malati da aggiustare seguendo gli algoritmi, ma ciò che vi “vive dentro”. Tu scrivi qualcosa di bellissimo e tanto desiderato, che richiama metodi terapeutici da riscoprire, ma che allo stesso tempo richiede impegno da parte di tutti e che difficilmente si può realizzare nei tempi e nelle modalità di un ambulatorio superaffollato:
“Il medico saprà allora guidare il suo paziente nel viaggio della conoscenza di sé, perché stanno già camminando insieme nello stesso percorso.
Impareranno insieme, medico e paziente, ad abitare la potenza della corporeità umana, la sua capacità omeostatica di ritrovare equilibri perduti. Certo non occorre avere fretta, la guarigione ha i suoi tempi che non possono essere assoggettati alla frenesia di un mondo in accelerazione catastrofica.”
Questo significa smettere di ragionare in modo meccanicistico e favorire una relazione che salvi entrambe le parti, dove i principali medicamenti sono fiducia ed empatia.
Lo sappiamo bene, questo modo di svolgere la professione medica è l’esito di un sistema sanitario che chiede prestazioni e non relazioni. Questo sistema sanitario è l’esito di un modo di governare il servizio pubblico dimentichi di essere al servizio. Questo governo è a sua volta l’esito di una politica Smarrita e asservita ad un sistema economico finanziario predatorio.
alla fine, torniamo sempre lì: all’antropologia di guerra che ha bisogno di conversione per un’antropologia
di relazione.
iside
Grazie cara Iside, perché ci ricordi instancabilmente e sempre molto ragionevolmente che non siamo macchine e non siamo riducibili ad insiemi di dati, tabelle e numeri. Dimorando nel fatto che siamo “di più” di quanto questa civiltà del “capitalismo della sorveglianza” vorrebbe farci credere, iniziamo a curare il nostro profondo disagio, ritroviamo la preziosità della nostra natura. Nella contestazione continua e precisa (indispensabile, scrive Marco Guzzi in “La politica di una nuova umanità) delle storture di questo sistema, davvero il punto di rottura diventa “il punto di uno sbocco”.
La luce non c’è ancora, qui, ma già si vede.
Grazie davvero.
La cara figura della levatrice d’antan quanto sarebbe utile e necessaria, e magari incoraggerebbe a far figli anche giovani donne impaurite che subiscono come tutti una condizione di vita isolata.
Levatrice, medico condotto, prossimità ed umanità sono valori che, in forme nuove, vanno recuperati.
E’ propri vero, cara Iside, il riconoscimento de “la dimensione spirituale che ci costituisce” sarebbe la prima terapia.
Ma non ci viene data e non possiamo aspettarla dai governi che sono sotto scacco di un’Europa che, in questo momento, è imperniata su principi di arido razionalismo e tendenti alla società-alveare.
Io credo che molti, anche tra quanti agiscono seguendo l’algoritmo, siano convinti della verità di riflessioni come la tua che necessariamente porteranno ai cambiamenti necessari.
Cara Iside,
Un grazie veramente infinito di queste riflessioni profonde sul tema anche a me molto caro del rapporto medico-paziente e della prassi terapeutica vigente. Ne sono interpellato in prima persona e non solo perché mi ammalo spesso.
A volte, davanti a relazioni mediche dove quel che avverto è solo una muraglia di fredda distanza e separazione oggettivante, mi dico che no, non può essere così, che quella percezione non è reale. Anche quando il rapporto fa male. Anche quando cerco o mi ritrovo a dovermi sforzare di comunicare, che so, a uno psichiatra, che la mia anima ha una forma ben precisa, per quanto capace di contenere il Tutto, e che non può essere ridotta a un cumulo di carne o a una semplice ‘sostanza’ a cui debbano essere rifilati farmaci e basta.
Molto spesso mi scontro con l’impotenza, con la non comprensione dall’altra parte, con il dolore di sentirmi solo in una relazione di cui avrei bisogno invece di sentire un immenso calore – poiché solo quello potrebbe salvarmi – in quell’istante – e non sordità. Ma ho smesso da tempo di rimproverare ai medici questa loro modalità di agire: noto sempre più che anche loro sono vittime della mia stessa alienazione e distorsione.
Questo allieva un attimo la mia irreale pretesa di vivere le cose diversamente, mi aiuta ad accettare di più.
Certo, non è tutto; non si esaurisce qui; il nostro lavoro, di ricostruzione pubblica e politica, deve proseguire.
Nondimeno, viverla così, almeno in questa fase storica molto caotica e di riassestamento, mi aiuta a vivere, forse, con un briciolo di serenità e di speranza in più.
Ti ringrazio ancora tanto e ti abbraccio.
Simone