Dal pensiero filosofico alla pratica spirituale Il pensiero occidentale inizia con lo spostamento da CIO’ che è a ciò che E’. Questo spostamento accade nella poetica sostantivazione del participio e dell’infinito di un verbo: il verbo “essere”. La formula che ne deriva compare per la prima volta nel poema di Parmenide di Elea: essa suona: to eòn. Qui, per la prima volta, to eòn smette di significare semplicemente “ciò che è”, come probabilmente accadeva nel linguaggio parlato del tempo, per acquistare un altro significato – quello verbale, non più nominale, del participio stesso: non più (soltanto) ciò che è ma l’è di ciò che è. Tutto l’enigma del pensiero è contenuto nella doppiezza del participio sostantivato di eimì, cioè nel fatto che esso indichi contemporaneamente CIO’ che è e ciò che E’. E’ perciò essenziale al participio tanto la sua forma nominale (l’ente) tanto quella verbale (l’essere), cioè esso – to eòn – è entrambi.
Sostantivazione significa: s’è aperto uno spazio oltre l’ente immediatamente presente; che si possa gettare uno sguardo al di là del questo-ente è però, è bene dirlo fin da subito, una possibilità della lingua greca. Il trascendimento dell’ente presente è un segreto interno al linguaggio, niente di “naturale” o “ovvio” o “universale”. Alla lingua latina, ad esempio, non avendo essa l’articolo, rimane estranea questa possibilità, cioè rimane estraneo il pensiero filosofico.
Così Platone, dipendendo in questo da Parmenide, procederà con lo stesso meccanismo di sostantivazione, stavolta non di un predicato, ma di aggettivi. Ciò che opera nell’eòn parmenideo è lo stesso che opera nell’ eidos platonico.
Qualche esempio: “la brocca è sul tavolo”. Si indica questa brocca presente, offerta alla percezione; qui l’articolo determinativo “la” sta per uno dimostrativo. E’ come se si dicesse: “questa brocca – questa qui – è sul tavolo”.
Quando invece dico: “la brocca è utile per versare l’acqua” oppure “la brocca è un recipiente tondeggiante…” non si sta, con ciò indicando necessariamente questa brocca qui presente, una brocca particolare, ma bensì ogni brocca come tale, ovvero tutte le brocche: passate, presenti e future. Nell’ultimo caso il nome appare slegato dall’ente presente che esso indica, indipendente e autonomo rispetto a questo. Nominando gli enti li trascendiamo. Ma di che tipo di trascendenza si tratta qui?
Platone e Aristotele approfondiranno l’intuizione parmenidea – cioè la doppiezza interna all’eòn – uno con l’autò e l’altro con l’in-quanto. In entrambi i casi si tratta di modi in cui viene definitivamente chiarificata la duplicità iniziale e il suo rapporto interno.
Si cerca spesso di spiegare questo oltrepassamento dell’ente reso possibile dal nominare nei termini di “astrazione” o “pensiero astratto”. Con tutto ciò però non si è spiegato nulla. “Astrazione” è, in realtà, un movimento di allontanamento dalla cosa immediatamente presente, il suo farsi di sfondo nel nostro distanziarcene. Questa presa di distanza dall’ente è un evento del linguaggio (to eòn) ed è possibile in virtù di esso soltanto. Il pensiero dipende dunque dal linguaggio in cui si rivela, e non viceversa. Il distanziamento dall’ente immediatamente presente, dal “questo”, è il suo oltrepassamento: meta-fisica. Nell’anteposizione dell’articolo determinativo all’ òn CIO’ che è si fa di sfondo…a favore di cosa? Non di una cosa, ma del suo “è” che si rende così suscettibile di essere considerato separatamente dall’ente di cui è predicato. Finché permaniamo nella coscienza animale, irriflessa, esclusivamente percettiva non incontriamo altro che cose, che “ciò”. Solo quando ci siamo sufficientemente distanziati da esse compare “l’essere”. Nel to eòn accade infatti qualcosa di unico ( o forse viene a parola qualcosa di già iniziato dalla notte dei tempi): l’ente – il ciò – si fa di sfondo e, in questo suo retrocedere, emerge l’essere, l’è. Lo spostamento dell’attenzione da ciò che è al suo è è, al contempo, un innalzamento sopra le cose stesse.
Distanziamento dall’ente, oltrepassamento dell’ente, innalzamento sopra l’ente ci parlano tutti e tre dello stesso evento: quello che si comunica non solo nella parola, ma come la stessa parola to eòn. E’ molto probabile, come dicevamo, che qui, in Grecia, giunga a esplicita rivelazione di sè qualcosa che già da tempo era in atto da un punto di vista antropologico, qualcosa che non attiene alla “filosofia” come ambito separato di discipline ma allo stesso tragitto della specie umana su questa terra. Jung ad esempio parla di “individuazione”, termine che sta ad indicare non tanto il cammino di individuazione, quanto piuttosto quel lento processo di emancipazione della coscienza dall’immediato coinvolgimento con il mondo delle cose ( e degli spiriti), come è la partecipation mystique studiata da Lèvy-Bruhl nel caso degli uomini primitivi. Proprio svincolandosi dall’inconscio e dall’immediatezza dell’ente la coscienza giunge ad essere ciò che è. Forse la filosofia inizia quando questo movimento di progressiva separazione prende la parola.
Abbiamo, fino ad adesso, esplorato la traiettoria di un distanziamento da CIO’ che è tutta interno al complesso di ciò che è. Esso determina in maniera incisiva la storia di questi ultimi duemila anni, producendo – ad esempio – il cosidetto kathòlou, l’universale, che è all’origine dell’atteggiamento scientifico in generale. Potrebbe però darsi la possibilità di un distanziamento dall’ente che non si realizza più nella sostantivazione dei suoi predicati? Distanziamento totalmente altro da quello appena descritto? E’ possibile – detto altrimenti – esorbitare da ciò che è nel suo complesso? Esiste un distanziamento dell’ente che avviene nel segno del distacco e dell’abbandono? E’ ciò che si chiama, solitamente, e giustamente, pratica spirituale. Il primo distanziamento fonda la razionalità, il secondo la mistica. Il primo crea l’essere, il secondo introduce in un ambito rispetto al quale la parola “essere” risulta inadeguata. Nel primo avviene un farsi di sfondo della cose a favore di ciò che è ad esse comune. Nel secondo è lo stesso Sfondo di ciò che è nel suo complesso a emergere. Nel primo si eclissa CIO’ che è a favore di ciò che E’, nel secondo si eclissa CIO’ che E’ (nel suo complesso).
Questo distanziamento, che può essere prodotto “artificialmente” mediante una atto di volontà – e questa è appunto la pratica meditativa – è, in realtà, il mistero stesso della morte. Meditare è perciò uguale a morire. Morire, però, è lasciare ciò che è nel suo complesso, distaccarcene. Per cosa? Per andare dove? Questa domanda è legittima se, come è chiaro, la morte non si riduce al decesso biologicamente rilevabile. La morte è il distacco, il suo ricordo quella interruzione del rapporto esserci-ente, uomo-cose che ci “tira fuori” dal nostro ordinario essere immersi nel mondo.
Il senso della pratica spirituale (come atto volontario di abbandono) è la revoca dell’orizzonte della presenza (ciò che è nel suo complesso) che è essenzialmente lo stesso del morire. La meditazione è perciò la reale anticipazione della morte, il suo adesso che, pur rimanendo cronologicamente indeterminato, si fa, in forza del mio raccogliermi, questo adesso qui. La vicinanza della morte – il che non vuol dire la morte come decesso cronologico-biologico ma come stato del nostro essere – produce il distacco da ciò che è nel suo complesso.
Come accade questo distanziamento? E’ impossibile definirlo con precisione. Certamente, come dicevamo, è possibile produrlo artificialmente mediante uno spostamento dell’attenzione (pratica spirituale) che è naturalmente fissata su ciò che è. Spostarsi equivale però a decidere di morire adesso.
Decisione – comunque intesa: heideggerianamente o meditativamente – è recisione da ciò che è nel suo complesso, stacco e salto. Questo eclissarsi dell’ente nella sua totalità, anche se a volte può accadere in modo dolce e indolore, è però sempre un piccolo o grande sradicamento, una catastrofe, collasso della intera creazione che si mostra improvvisamente nella sua assurdità. Questo mostrarsi insensato di ciò che è è il suo venire risucchiato, aspirato via in un punto ben preciso. Il collo dell’imbuto in cui defluisce ciò che è è l’uomo. Questo punto di traenza – che attira a sé ciò che è – si apre in noi, e solo in noi può aprirsi, come uno squarcio. Proprio perché solo l’uomo, fra tutti gli altri enti, muore – cioè sa del nulla – egli è anche l’unico luogo in cui l’intera creazione può finire. Ciò che è può non esserci più perché esiste l’uomo e da quando esiste. Egli, e solo egli, costituisce, per la sua propria essenza, un attentato rivolto all’essere stesso: perché è nell’uomo che l’essere precipita, cadendovi dentro. È l’uomo ad avere in sé quella calamita che attira a sé tutte le cose – come in un gorgo – risucchiandole. E solo per questo l’uomo è per tutte le cose l’unica vera calamità. E ciò ben prima di ogni potere tecnico-scientifico di danneggiare materialmente il pianeta terra. Questo potere è cosa recente. L’uomo però è pericoloso allo stesso modo in cui era pericoloso 10, 100 o 1000 anni fa.
L’insensatezza è dunque, nel suo profondo, un movimento di risucchio. Questo movimento “transita” nell’uomo. Si origina e si apre in lui. Così in lui finisce – ma forse, proprio per questo, anche inizia – l’orizzonte di ciò che è. L’uomo è abitato e costituito da un movimento tale da – attraverso di lui – coinvolgere tutte le cose. Il “tutte le cose”, l’uno-tutto, ovvero l’essere è qui chiamato in causa in modo essenzialmente diverso rispetto alla metafisica. Esso non è più il prodotto di un distanziamento sostantivante, non fa cioè la sua comparsa da CIO’ che è, ma da quell’unico ente appellabile col pronome personale Chi e da questo Chi in quanto – ma ciò significa: proprio quando – muore.
L’adesso della morte ci offre un altro “da”, un altro punto di partenza. L’essere non è più il risultato dello spostamento da CIO’ che è a ciò che E’. Ciò che è nel suo complesso è invece esperito nel suo apparire a partire dalla sua negazione nell’attimo della decisione-recisione. Il “da” autentico, l’essenza dell’inizio, è tutt’uno con l’essenza della morte. Si può dunque affermare che l’inizio autentico è la fine o, il che è lo stesso, il Chi nell’attimo in cui si distacca da ciò che è nel suo complesso, ovvero nell’attimo in cui muore.
L’inizio è l’attimo della fine, non un qualcosa che sta’.
L’inizio come attimo è l’unico ente che finisce, l’unico in cui si apre la possibilità della fine di tutte le cose.
Da questo punto di vista l’idealismo tedesco rappresenta una controfigurazione dell’inizio dal momento che, in esso, il trascendimento dell’ente nella sua totalità, ovvero l’assolutezza dell’Io, è esperito come reflexio (Kant) o intuizione intellettuale (Fichte) e non ancora nel morire e come morire.
Lo spostamento da CIO’ che è a ciò che E’ ci parla dunque, in ultima analisi, di un oblio del Chi. L’intera storia del pensiero – dalla Ionia a Jena – parrebbe precipitare in quel punto in cui la terza persona singolare del verbo essere, l’è, viene commutata nella prima persona, nel “sono” dell’ Io-Sono.
Ed è solo alla fine di questa storia che la sperimentazione iniziatico-filosofica dei gruppi Darsi Pace trova il suo legittimo inizio.
Ciao sono Iva,DP1. Vediamo se ho capito: per sperimentare il cammino iniziatico dei gruppi Darsi Pace,dobbiamo spogliarci di tutto il carico del mondo che noi abbiamo risucchiato come una calamita, ma di cui siamo anche calamita’,
arrivare alla nostra essenza CIO’ CHE E’, morire e arrivare all’ abisso dell’ IO SONO,il divino che c’e’ in noi.
E NAUFRAGAR M’E’ DOLCE IN QUESTO MARE.
Ho capito qualcosa? Grazie
È un linguaggio tecnico che appare difficile tradurne il significato.
Quindi queste parole per me come credo per molti restano in ostacolo per la comprensione.
Gradito una sintesi che con parole più comuni faccia cogliere il significato di quello che di essenziale si vuol comunicare. Grazie
Grazie Andrea, molto interessante. Buon Natale e Buon Anno