Quando lo sentii per la prima volta sulla BBC, ne fui piacevolmente colpita, direi ammirata. L’avevo considerato un passo in avanti, come del resto era stata presentata la notizia.
I medici di medicina generale inglesi hanno la possibilità di prescrivere non soltanto farmaci, ma anche prestazioni sociali.
Se una persona mostra segni di depressione in un ambiente di vita piuttosto isolato, il medico ha la possibilità di inviarla, tramite regolare impegnativa, ad un centro che in modo specifico si fa da tramite verso le realtà associative della zona.
La persona così potrà trovare occasioni di incontro con altri svolgendo attività che possano attirare il suo interesse e attivare le sue risorse di coping.
Invece cioè di prescrivere un farmaco antidepressivo, quando evidentemente la situazione non sia così grave da prevederlo, il medico può attingere ad un altro livello di assistenza.
Inoltre, i medici inglesi possono anche rilasciare prescrizioni comportamentali.
Molte volte i guai alla nostra salute arrivano da stili di vita inadeguati. Non è quindi tanto il caso di affrontare il problema con la meccanicità del farmaco, ma di provare ad indirizzare la persona verso dei cambiamenti di abitudini che le sono dannose o di introdurne di nuove che le siano di aiuto.
Il medico allora effettua una regolare prescrizione, dove alla persona è assegnato un compito ad esempio in termini di alimentazione o di attività fisica, con le stesse modalità e quindi con la stessa autorità che l’impegnativa conferisce, con relative posologia e modalità d’uso.
Passato l’entusiasmo, ho iniziato a riflettere sulla portata del significato di una cosa di questo tipo.
Mi sono allora chiesta: com’è che siamo finiti a prescrivere l’ordinario dell’umano vivere?
L’approfondimento della conoscenza di tipo scientifico nel senso logico-matematico che ha preso il sopravvento ha portato ad una frammentazione del sapere in discipline sempre più specializzate.
La grande mole di dati che abbiamo a disposizione difficilmente si adatta ad una visione globale e complessiva. La suddivisione aiuta a focalizzare l’attenzione su porzioni sempre più specifiche della materia di studio.
Tuttavia, proprio come nell’ottica, l’ingrandimento è inversamente proporzionale al campo visivo: più ingrandiamo un’immagine, più diventiamo consapevoli di particolari piccoli, ma più restringiamo il campo e cioè perdiamo il senso del contesto.
Inoltre, la traduzione del contenuto delle discipline scientifiche in linguaggio matematico aumenta enormemente l’esattezza con cui quei contenuti possono essere espressi, utilizzando ad esempio equazioni per descrivere le attività enzimatiche e quindi i fenomeni biologici.
Per non parlare poi del fascino dei numeri per la loro immediata chiarezza.
Leggere 350 alla voce colesterolo sulle analisi del sangue ha un effetto molto più d’impatto, anche per il profano paziente (certo con il rinforzo dell’asterisco), piuttosto che leggere una dicitura del tipo “valore elevato”.
A scuola era lo stesso: avere scritto “insufficiente” sul diario o un inequivocabile 4 faceva una bella differenza.
Tutto questo sapere ad altissima precisione è senza dubbio molto utile per i ricercatori. È un grande strumento anche per il clinico che è all’interfaccia tra il paziente e i suoi dati.
Questa minuziosità del dettaglio però rischia di intrappolarci, fagocitando una conoscenza analogica, descrittiva che deriva da una sapienza trasmessa tramite le relazioni significative che costruiamo nella nostra vita.
Uno degli inghippi è che, dopo aver fatto il movimento in uscita da sé verso l’oggettivo numerico-scientifico, non facciamo più il movimento inverso: dalla conoscenza digitale a quella esistenziale.
La riduzione specialistica espressa nella forma dei dati richiede un esperto per essere interpretata correttamente. Così l’esperto esterno diventa colui che ha la competenza di sapere cosa è bene e cosa non lo è per la nostra salute.
In questo modo, espropriati di una conoscenza umana del vivere, perdiamo la saggezza, la sapienza intrisa di esperienza di vita che si accumula abitando sempre più a fondo il nostro stare al mondo.
Confinati in un movimento di sola andata, demandiamo ai dati il potere di descriverci senza che però ne abbiano l’abilità.
Non più capaci di tornare nella giusta dimensione esistenziale, non esercitiamo più la sensibilità del sentire come la vita si manifesta dentro di noi.
Per condurre una vita bene-stante, non abbiamo bisogno di un’accuratezza infinitesimale, come il panettiere non ha bisogno di una bilancia che arrivi alla terza cifra decimale.
Quella precisione chiede di essere incorporata a scala umana, in una sapienza che ci è propria in quanto esseri umani che raccolgono in sé la conoscenza di una cultura tramandata nelle generazioni.
Andare in bicicletta, per i superavanzati tecnologici, pare preveda almeno il misuratore di potenza sulla pedalata, il sensore della resistenza corporea al vento, il monitoraggio continuo del ritmo cardiaco, tutto collegato al computer sul manubrio, doppio check con lo smart watch al polso.
Eppure siamo dotati di sensori sensibilissimi che ci fanno sentire la piacevolezza del vento sulla nostra pelle, che ci fanno percepire la forza impiegata dalla muscolatura delle gambe nella pedalata che ci dà un rimando di padronanza, mentre un allenamento nell’ascolto ci può insegnare a sentire il battito cardiaco per intonarci al movimento. È il gusto del momento presente disteso su ciò che stiamo facendo per cui non serve nessun misuratore esterno.
Molti anni fa, sul lavoro, nella segreteria dell’ambulatorio di neuropsichiatria infantile, giunse la richiesta di una mamma per un supporto, perché non sapeva come dire al bambino, figlio del marito, che sarebbe arrivato un fratellino.
La generazione, che dovrebbe essere una dimensione intrinseca alla vita e per noi umani avere un portato simbolico potentissimo, non riesce più a suscitare un senso di competenza proveniente dal fatto stesso di essere un essere umano.
Più di recente, ricordo la richiesta pervenuta al servizio di psicologia degli adulti per un supporto ad una ragazza il cui padre aveva avuto un incidente mortale nei minuti precedenti. Lo zio, smarrito, vagava per i corridoi dell’ospedale per cercare l’intervento urgente di una psicologa che desse la notizia alla ragazza.
Anche in questo caso, la mentalità acquisita dell’esportazione all’esterno ha risucchiato la fiducia nella capacità umana di affrontare anche il drammatico. Mentre è proprio nel drammatico che, più che mai, abbiamo bisogno dell’affetto di chi ci conosce bene per virtù di legame, e non di un estraneo tecnico.
Pertanto, invece di demandare, avremmo bisogno di riappropriarci della capacità di ascolto sottile. Infatti, scivoliamo via velocemente sulla buccia e non addentiamo la polpa sottostante, quella che si può raggiungere soltanto a partire da un ascolto concentrato, costante, perseverante dei moti interiori e delle ondulazioni del corpo.
Nascere come nuova umanità vorrà dire anche questo: riconoscere la sapienza in tutto ciò che porta ad un incremento dell’umano, in una sintesi sensata tra la conoscenza che ci arriva dai millenni che ci precedono e la conoscenza precisa della scienza acquisita di recente, facendolo senza paura, nell’abbandono fiducioso nella creatività della vita che ci abita.
L’ideologia consumistica è notevolmente accresciuta con il bisogno indotto delle più moderne protesi , quali anche l’illusione della IA parrebbe volerci sostituire la testa, l’anima e il cuore pensante. Rimpiango la mia infanzia quando cadendo, imparavo che mi facevo male e piangevo , poi i bambini sono stati rivestiti di tanti accessori spesso inutili, quali i paraginocchi, i paragomiti, il caschetto, gli occhiali e di tanta robotica che i bimbi si portano addosso, evitando loro di fare l’esperienza più sensibile del proprio corpo.
Il corpo umano è già di per sè uno stupendo sistema di emozioni, di gusti e sapori, di godimenti e di allarmi protettivi della nostra integrità e salute che dobbiamo solo imparare ad ascoltare e riconoscere vivendo e liberandoci dai condizionamenti di chi ci vuole educare a diventare loro docili strumenti inermi e controllabili dal Sistema della paura , della guerra, delle tante infelicità suicidali.
Che succederà quando l’essere umano perderà persino la memoria di sè stesso e non saprà più chi è ? O ci siamo già ? Ma se è vero che la Verità è come l’olio mescolato all’acqua…….verrà a galla e di nuovo, ancora una volta , dopo esserci fatti del male, piangeremo in modo naturale!
Grazie Iside per questo contributo molto preciso, grazie per questo ulteriore tassello ad una riflessione importante nella quale ci stai accompagnando con i tuoi ultimi post. Lo scientismo, stavo pensando, ci fa riparare dentro un flusso di dati e poi ci sentiamo sempre più inadatti a gestire la realtà, con i suoi traumi e le sue inedite bellezze. Io stesso l’ho appena sperimentato per un evento luttuoso che ha colpito una persona che conosco: mi sono sentito di colpo travolto, sballottato fuori centro, con la spiacevole sensazione di non poter essere d’aiuto.
Tra l’altro lo scientismo è una cattiva filosofia, una filosofia povera, mi pare proprio Guzzi lo dicesse nell’intervista sulla scienza. Così ricavo anche da questa citazione da Mancuso:
“Il riferimento d’obbligo è il teorema di incompletezza di Kurt Gödel formulato in duplice forma nel 1931, mediante il quale colui che viene considerato uno dei più grandi logici di tutti i tempi dimostrò che all’interno di un sistema matematico esistono preposizioni che il sistema non riesce a «decidere», non riesce cioè a dimostrare se sono vere o false: insomma esistono delle verità che non sono dimostrabili. Il che significa: assumendo il mondo quale sistema logico-matematico, risulta la legittimità, se non addirittura la necessità, di altri linguaggi oltre alla logica matematica per indagare il mondo stesso. È quindi la stessa logica matematica rettamente esercitata a dichiarare i propri limiti, rendendo impossibile l’ideale scientista di considerare il mondo come un grande palazzo di vetro dove ogni dettaglio si comprende con la mente e si domina con la volontà, dove insomma non c’è nulla di più grande dell’esattezza scientifica.” (Vito Mancuso, “Io e Dio”)
Dunque, è paradossalmente “per logica” che devo uscire dal mondo logico-matematico e abbracciare prospettive meno digitali ma più ampie. Non è scontato, in quanto siamo profondamente intrisi di questa mentalità da “big data”, anche quando ci rendiamo conto della situazione e vorremmo uscirne. C’è veramente bisogno di una ri-educazione, un ri-equilibrio dei nostri universi. Forse questo sarà nascere come “nuova umanità”. Sicuramente è molto urgente (e lo dico pensando a me stesso, prima che ad altro o altri). Molte grazie!
Meraviglioso articolo. Grazie, grazie….dettagli che esprimono la sostanza, ci fai vedere fili che collegano ed altri che scollegano. Una narrazione scientifica e critica, con un punto di arrivo preciso….
Carissima Iside,
grazie per queste tue riflessioni, che condivido pienamente. Mi chiedo spesso anch’io perché ci manca questa capacità di ascolto, questa sensibilità che potrebbe guidarci verso una vita più sana e relazioni migliori. Evidentemente anche questi sono segni della caduta dell’umanità dalla quale vogliamo di salvarci, e che solo una nuova umanità può veramente superare.
Ritornare alla nostra umanità e rinnovarla dall’interno è il cammino che desideriamo effettuare ogni giorno. In questo ascolto che è Relazione col Princupio Creatore troviamo la pace. Tutto il resto è di più, che può essere talora d’aiuto, ma spesso ostacolo e devianza dal Senso ultimo.
Dimentichi di questo, possiamo anche disimparare a mangiare, a relazionarci… a vivere.
Grazie cara Iside per le tue riflessioni, che sento molto utili per ri-cordare, ri-tornare, ri-creare noi stessi in Dio.
Davvero abbiamo barattato la primogenitura per un piatto di lenticchie.
Posiamo dunque i mascheramenti di elmetti e paraginocchia, scardiniamo da dentro la logica troppo stretta di ragionamenti insufficienti, assorbiamoci nel Principio per farci canali di grazia e di vita perché, come dice Guzzi, tutto ciò che non nasce non ci interessa.
iside