Alcuni giorni fa scartabellavo della vecchia documentazione sanitaria e mi è venuto sotto mano un grosso plico di campi visivi: una bella collezione, da quando ero bambina a quando la cecità ha messo termine a questa girandola dell’inutile.
Era iniziato tutto in modo molto ragionevole. Una bambina stava perdendo vista senza una diagnosi e senza una causa nota, quindi il monitoraggio dell’andamento del campo visivo pareva cosa buona e giusta. Negli anni però la faccenda si è avvoltolata a tal punto che la ritualità del campo visivo annuale era rimasta in sottofondo, senza essere messa più in discussione.
In realtà, già prima di arrivare alla cecità totale, avevo deciso di mettere fine a quella agonia oziosa.
Infatti, la domanda che mi si poneva davanti era: ma perché lo faccio?
Che il referto desse un rimando di peggioramento era inevitabile e direi scontato. Non c’era comunque nulla da fare sul versante terapeutico. Dunque: qual era il senso di quell’esame annuale?
Durante una visita ginecologica, la figlia di mia cugina aveva scoperto che il suo bimbo in utero aveva quattro cisti ad un rene. Questo ha scatenato una serie di ecografie a raffica durante tutta la gravidanza, praticamente ogni quindici giorni.
Anche in questo caso mi sono fatta la stessa domanda, anzi l’ho condivisa con mia cugina, la futura nonna. Dal momento che i medici avevano detto loro che non si sarebbe potuto intervenire in alcun modo, fino alla nascita del bambino, quando un’ecografia sul bimbo stesso sarebbe stata più rivelativa.
Mia cugina non ha neanche capito la domanda, tanto questa mentalità è impregnata dentro la nostra carne.
Un’amica di mia madre, con metastasi diffuse in tutto il corpo, comprese le ossa, si era sentita prescrivere un busto che la signora aveva vigorosamente rifiutato, inorridita all’idea del dolore supplementare che avrebbe dovuto sopportare.
Un medico amico di famiglia le aveva dato ragione in questo rifiuto.
La situazione era talmente grave che, qualche settimana dopo, la signora sarebbe morta.
Qual è l’obiettivo di prescrivere un busto ad un moribondo?
Come faccio spesso, inizio le mie riflessioni a partire da storie di vita vissuta, a me vicine, senza pretese di significatività statistica.
Eppure proprio dall’esperienza sul campo, si può ricavare qualche pensiero.
In modo un po’ provocatorio, mi verrebbe da suggerire di provare a fare un esercizio, seduti su una sedia di un corridoio di ospedale. Ad occhi aperti, lasciamo che le scene ci scorrano davanti, mentre ne prendiamo distanza, come facciamo con i pensieri durante la meditazione.
Vedremmo un variegato campione dell’umano andare avanti e indietro: persone traballanti dall’andatura incerta, mamme che tengono stretti per mano i loro figli, donne dal passo deciso di chi sa esattamente qual è lo studio in cui hanno appuntamento, carrelli spinti da personale in divisa. Insomma, un gran traffico che, nella presa di distanza dell’espiro, trasmette un senso di spaesamento.
Qual è l’obiettivo?
Il modello economico fondato ormai esclusivamente sul profitto, che ha nella tecnologia il suo braccio destro e nella politica il suo portaborse, sta velocemente assoggettando la sanità alle logiche del mercato: smantellare la sanità pubblica perché i servizi sono equiparati al passivo per cui ci deve essere tolleranza zero, finanziare la sanità privata facilmente convertibile in un’industria da cui spremere denaro.
Si entra e si esce dagli ambulatori come merce in lavorazione in una fabbrica.
Il medico, ridotto ad “operatore” sanitario, da dietro uno schermo supervisiona la linea produttiva, mentre gli strumenti diagnostici eseguono prestazioni su pazienti che assomigliano sempre di più a polli sui nastri trasportatori.
Del resto, le conseguenze non possono che essere figlie delle premesse.
Se le premesse sono:
● fare profitto tramite un consumo spinto fino allo spasmo, il tutto ben coordinato tra i grandi gruppi finanziari, le grandi multinazionali e le banche;
● allargare l’uso della tecnologia, diventata strumento molto potente di governo coercitivo, mediante la standardizzazione che spersonalizza;
● ridurre la persona ad agglomerato di dati gestibili da algoritmi;
● instillare la paura, nel nostro caso delle malattie;
● usare il ricatto della sicurezza per giustificare ogni politica che si allinei alle strategie di controllo.
Le conseguenze in ambito sanitario saranno ciò che vediamo:
● condizionamento pervasivo delle coscienze al punto da escludere ogni messa in discussione del modo di vivere che non sia espressione della dinamica produzione-consumo-profitto-(per-pochi);
● slittamento massiccio dal fisiologico al patologico: questo porta le persone ad interpretare la ordinaria variabilità individuale come deviazione patologica da uno standard fornito dall’esterno su base probabilistica;
● forte ampliamento della categoria dei sintomi, quindi parallelo conveniente ampliamento delle terapie;
● persone spaventate che leggono ogni lieve modificazione del loro corpo come sintomo di patologia;
● la prevenzione interpretata per la maggior parte nella forma delle analisi strumentali.
A questo punto, forse, l’obiettivo diventa più chiaro.
Nulla che abbia a che vedere con la salute, con la cura delle persone.
Un obiettivo, invece, centrato sulla macchina dei soldi, che lavora incessantemente e di cui noi ci ritroviamo più o meno inconsapevoli maglie del suo ingranaggio.
Andrea Bellaroto, in occasione della Festa della nuova umanità che si è tenuta ad Ivrea il 25 novembre 2023, ha usato una bellissima immagine, molto evocativa. Andrea l’ha riferita alla scuola e suonava così:
la scuola è diventata una catena di montaggio che produce pezzi di ricambio per un tir che sta andando a schiantarsi contro un muro.
Noi potremmo dire:
La sanità è diventata una catena di montaggio che produce pezzi di ricambio per un tir che sta andando a schiantarsi contro un muro.
Se vogliamo evitare lo schianto o almeno attutirne l’impatto, occorre andare ancora più a monte e raggiungere il tipo di essere umano che ha potuto creare tutta questa distorsione.
Abbiamo bisogno di:
● incontrare il cuore dolente che, imbrigliato nell’angoscia, urla con rabbia distruttiva tutto il suo dolore;
● curare le ferite di un’umanità che si è costruita sulla contrapposizione e sul conflitto;
● riconoscerci come persone, “un mistero e una ricerca eterna di libertà, di giustizia e di pace”;
● accogliere ciascuno nella sua unicità e quindi nel suo talento creativo;
● scoprire con gratitudine il potere curativo della relazione umana;
● assecondare le potenzialità di guarigione già presenti nella corporeità umana;
● trovare poche terapie essenziali che, con gentilezza, sappiano ricondurre la persona ad una condizione di salute per lei realistica e quindi accettabile;
● utilizzare con sapienza la tecnologia, in modo che diventi supporto che si armonizzi nella relazione di cura;
● riconoscere il valore medicamentoso di ogni forma espressiva di sé.
Allora la sanità non sarà più appiattita alla gestione istituzionale della macchina biologica.
Sarà invece un progetto di custodia dell’equilibrio dello stare al mondo; l’esito di una rete relazionale che sappia farsi grembo di nascita del mistero che ciascuno di noi è.
Mi permetto di dissentire.
I malesseri dell’umano, come noi impariamo in questo gruppo, sono veramente infiniti e non possono essere riversati sui medici.
Chiedo ai medici e ad una medicina sempre piu’ specializzata e tecnologica che curi tempestivamente dalla malattie e prolunghi la vita migliorandone fino all’ultimo la sua qualità ed è già tantissimo e purtroppo non sempre è possibile, nella consapevolezza di avere ovviamente davanti delle persone spirito e non solo delle macchine biologiche.
La cura del cuore è compito di tutti e di ciascuno secondo le proprie competenze e le proprie biografie e non solo del medico!
Questo è solo un mio temporaneo punto di vista.
Credo che le spalle dei medici italiane siano già molto cariche e sovraccariche di responsabilità.
Forse dovrebbe dire cosa ne pensa a riguardo un medico.
Grazie dello spunto di riflessione.
Silvia
Sono d’accordo Iside ed anzi considero preziosi questi momenti di riflessione che tu ci porti.
In un caso recente, ho avvertito una fortissima impressione di essere dentro un ingranaggio che alimenta sé stesso, e soprattutto alimenta il profitto delle case farmaceutiche. Soffrendo di pressione alta mi sono stati prescritti anti ipertensivi. Se non che questi farmaci – ho scoperto assumendoli – inducono vari effetti collaterali (di cui stranamente si parla poco e nemmeno i medici sono propensi a parlare). Ora per uno di questi effetti particolarmente spiacevole, mi sono rivolto ad uno specialista, che mi ha semplicemente consigliato un’altra pillola (poi ho scoperto, molto costosa), tanto per “mitigare” il danno della prima. Dunque, doppio guadagno, possiamo dire.
Ora, è chiaro che la pressione alta non va bene ed è molto pericolosa; ma siamo certi che prima di arrivare ad una pillola, sia stato fatto tutto il possibile per mitigare il problema in altri modi, o con dosi minori? O siamo solo bersagli ideali per le case farmaceutiche, e lo siamo più andiamo avanti con l’età, da spremere fino all’osso? Sono state “assecondate” tutte le mie possibilità di guarigione, prima di mettermi sotto chimica (a vita) ? Ma quanto tempo un medico (di base o specialista) può dedicarmi davvero, come persona? Alla fine, prescrivere una pillola costa poco ed impiega poco tempo. E mette il medico al riparo da ogni lamentela.
La lista delle cose di cui abbiamo bisogno, Iside, sarebbe bellissima da attuare. E’ veramente un manifesto di una nuova scienza medica. Che aspettiamo davvero tutti, con la speranza di tornare “persone” nella nostra irresistibile unicità.
la crisi della Sanità ha avuto inizio con l’istituzione delle Aziende Sanitarie. Di colpo il Medico è rimasto imbrigliato negli iter burocratici e, a poco a poco, è venuto meno quel rapporto empatico con il Paziente ( divenuto “Utente” ) e si è guardato più ai bilanci che al benessere delle persone.
È certamente vero che i medici e tutti gli operatori sanitari nel servizio pubblico sono sotto una forte pressione per un carico di lavoro ormai oltre i limiti anche soltanto dell’efficienza prestazionale.
Capisco le perplessità di Silvia, tuttavia mi chiedo se veramente possiamo pensare di ottenere risultati di cura affidandoci in modo spinto alla tecnologia e alla specializzazione disciplinare, demandando altrove la cura dell’anima.
Temo che questa compartimentazione di competenze stia mostrando tutta la sua fragilità, oltre che il franco danno.
In Dp, impariamo che ognuno di noi è un mistero in cui lo spirituale e il biologico sono co-originari, ne cerchiamo l’esperienza nella pratica meditativa per scoprire che il corpo umano ha una sua organicità complessiva che non può essere frazionata, pena la sconfitta dell’umano stesso.
Purtroppo, tutti, medici e pazienti, siamo vittime dello stesso sistema dela guerra in cui i principi di riferimento sono fuori dalla cornice del prendersi cura.
Il medico è schiacciato nel sistema della medicina difensiva, dove è più tutelante seguire le linee guida in modo stretto piuttosto che modellarle sull’esigenza di una situazione specifica perché il rischio di denuncia ormai è altissimo. Al riguardo, avevo trovato piuttosto rivelativo il documentario “Quel qualcosa in più” di Nicole Smith.
La denuncia di una medicina troppo positivista, facile preda del ricatto della difesa, con perdita dell’autonomia professionale del medico sono questioni che Ivan Cavicchi, ad esempio, pone da anni (e di cui avevamo parlato già diversi anni fa su questo blog).
I pazienti, da parte loro, sono nella stessa trappola della medicina del consumo (espressa dall’aziendalizzazione della sanità, come scrive Attilio), per cui un medico è considerato bravo perché prescrive tante medicine ed analisi. Molto scrupoloso, una mia amica ha definito il cardiologo che l’ha tenuta sotto controllo per più di un anno, con una serie infinita di analisi, ripetute nei mesi, quando era francamente chiaro fin dall’inizio che un episodio di palpitazione era correlato alla situazione altamente stressante che la mia amica stava vivendo (come è poi stata la diagnosi finale del cardiologo). Il fatto è che la paura fa novanta e per il medico è molto meglio un falso positivo piuttosto che rischiare anche vagamente un falso negativo. Così i falsi positivi si moltiplicano all’inverosimile con grande soddisfazione del paziente che quindi rinforza, con il suo atteggiamento, il comportamento. Perché difficile che qualcuno denunci un medico che abbia prescritto l’ennesima analisi o abbia prescritto il farmaco che va per la maggiore; molto più facile invece una denuncia a seguito di un falso negativo, anche se statisticamente la probabilità è decisamente inferiore.
Salvo poi pagare un prezzo alto, come descrive Marco Castellani.
Perciò l’urgenza di un lavoro interiore serio, che riguarda ciascuno, in cui tenere insieme la totalità della persona, perché non si cura il corpo se non si cura l’anima, dato che sono sinonimi.
iside
Grazie Iside anche per questa articolata risposta.
Mi viene da essere contento, in questo scenario obbiettivamente problematico, che vi siano ambienti come Darsi Pace dove ancora si può vedere tutto questo (chi è totalmente dentro il meccanismo a mio avviso nemmeno lo vede più, convinto della sua inevitabilità) e iniziare anche un percorso di progressiva liberazione. Diceva Guzzi che il primo passo è guardare senza sconti quello che c’è, solo così si potrà cambiare.
L’accenno ad Ivan Cavicchi mi ha ricordato di quanto fosse coraggioso quel documento degli “Stati Generali della professione medica” che giustamente portasti alla nostra attenzione, cara Iside, e quanto sia – purtroppo – ancora largamente disatteso. Ma per quanto disatteso – e non mi pare si possa dirne altro – quel documento dimostra che la coscienza per un passo avanti c’è, ed è anche autorevolmente espressa.
Grazie Iside per le tue riflessioni che trovo molto precise poiché indagano tutta la sfera del rapporto medico-paziente-salute-luoghi-modalità.
Una lunga storia fatta di sofferenze l’ha costruita a noi sino ad ora.
Anche questo ambito, come sappiamo, oggi è lo specchio del conflitto che l’uomo vive dentro di sé.
Come hai ben detto ci si dimentica del paziente, che non solo può essere curato, ma supportato a curarsi prima di tutto. Questo chiaramente non lo dico io, ma tutte le medicine tradizionali, antiche della terra che in parte abbiamo abbandonato. La loro scienza è legata soprattutto ad una esistenza in dialogo e direzionata costantemente da una coscienza sovrasensibile e totipotente che è l’essenza dell’uomo donataci da Dio. Dobbiamo ritracciarla senza nessun limite, neanche per tutte le meraviglie tecnologiche che siamo stati in grado di inventare, una delle espressioni tangibili dell’uomo creativo.
Per ciò che riguarda i medici porto la mia testimonianza diretta “veramente incisa nella mia carne”😂 più e più volte, come tanti… La figura del medico necessita di una vera e propria rivoluzione anch’essa, dovrà cambiare e cambierà in relazione, come accennato prima, alla riformulazione del ruolo che che può avere nello stato di salute del “paziente” ; troppo potere, ma allo stesso tempo anche troppa responsabilità sono attribuiti al medico, che spesso si vuole arrogare diritti che non ha (di vita o di morte), qui s’infilano molto bene le torture strutture egoiche del mondo (case farmaceutiche, profitti,…) come tu hai perfettamente descritto. Anche nel complesso percorso verso la guarigione psico-fisico-spirituale siamo chiamati a costrure nuove identità, partendo come sempre da un io sempre più integro che stiamo imparando a conoscere. Grazie