Tempo fa ero deciso a comprendere e a penetrare fino in fondo il mistero della Croce; mi ero messo in testa di “capirlo” – anche se tutto ciò non era sintomo di una velleità arbitraria, questo bisogno al contrario scaturiva genuinamente dallo sgomento che la lettura dei brani della Passione di Cristo suscitava in me e dalle domande che questo stesso sgomento mi dettava nel cuore: “Cosa ha a che vedere questo scempio – questo scatenarsi così terribile di violenza
– con me?”; “In che senso e in che modo tutto ciò mi dovrebbe salvare?”; “Perché Gesù si è volontariamente consegnato ai suoi carnefici? Perché ha scelto e voluto dare sè stesso?”; “Cosa significa la Croce? Quale è il suo senso?”
Riconosco a queste domande un loro grado di legittimità; tanto più perché esse sorgevano come risonanza alla lettura dei brani evangelici della Passione, e non erano quindi pretenziose curiosità intellettuali. Con questo mio domandare ero risoluto, deciso ad
“abbordare” la Cosa stessa, a penetrarla, saperla, comprenderla, capirla; ero – in una parola – in cammino verso di essa. Molto presto però mi sono iniziato ad accorgere che questo cammino era, in realtà, sbarrato. Con tutto il mio insistente domandare non mi ero mosso di un passo dal punto di partenza, non mi ero cioè per nulla avvicinato alla Cosa stessa. Domandando, mi sembrava di approssimarmici, ma in realtà rimanevo sul posto ,giravo in tondo. Il mistero della Croce continuava a rimanermi inacessibile, sigillato.
Beninteso: già il domandare del mistero della Croce, benchè destinato ad arenarsi, rappresentava qualcosa di più della mera indifferenza verso di essa. Quest’ ultima è assenza totale di rapporto, ignoranza che non sa di sè. Al contrario domandando
genuinamente della Cosa si istituisce con essa già un rapporto, la si porta nel proprio sguardo, ci si fa attenti e pensosi nei suoi
confronti, si lascia che essa ci provochi e ci interpelli, la si
“intenziona”, ci si concentra su di essa, la si fa entrare nel cono di luce della coscienza etc.
Tutto ciò è certamente vero: il domandare è un portamento più raccolto dell’indifferenza. Eppure esso non è sufficiente ad assicurarci una risposta.
E la risposta infatti non arrivava e io stazionavo impietrito nelle mie domande. Con il senno di poi potrei dire che il cammino verso la
Cosa, cioè verso l’esperienza di una possibile risposta alle mie domande, non solo era sbarrato, ma fin dall’inizio non esisteva. Via, cammino in greco è odòs. Un met-odo ci illustra come percorrere rettamente il cammino per giungere alla mèta posta alla sua estremità, al punto estremo rispetto al nostro punto di partenza, che è il domandare. Un metodo dei misteri però non esiste e non esisterà mai. L’illazione più diffusa arriverà a sentenziare che “la mente umana non può, per sua naturale finitezza, comprendere i misteri della fede”. Questo luogo comune manca però di specificare cosa sia la “mente umana”, quali siano le sue reali possibilità e cosa significhi “comprendere”.
In ogni caso una cosa era certa: la risposta alle mie domande – se pure ve ne era una – non ricadeva nell’ambito in cui queste ultime si muovevano e avevano preso luogo; anzi: eccedeva radicalmente questo ambito, cioè il mio punto di partenza in modo tale che un piano svolgimento del percorso – dal punto di partenza (domanda) alla Cosa (risposta) – immanente allo stesso ambito del domandare, cioè incapace di fuoriuscire da esso, – quindi diciamo uno svolgimento orizzontale e lineare come appunto suggerisce
l’immagine dell’odòs, del cammino – non avrebbe mai potuto assicurarmi il termine di quest’ultimo: la risposta, l’esperienza della Cosa stessa.
Potremmo dire che la risposta non si trovava e non si trova mai sullo stesso piano, alla stessa altezza della domanda – ma sempre
più in alto o più in basso di essa; sicché lo svolgimento immanente dell’ambito proprio della domanda si rivelava costantemente
incapace di giungere a una qualsivoglia risposta.
Arenatomi nelle sabbie mobili delle mie domande, la ricerca aveva subìto una battuta d’arresto. Sentivo che questo arresto non era una sventura accidentale o il segno di una inguaribile deficienza della “mente umana”, cioè di una impossibilità assoluta di
“comprendere” i Misteri. Al contrario l’arresto era essenziale alla
Cosa stessa e dunque, in quanto apparteneva alla logica più intima dei misteri, come tale doveva essere da me accettato, accolto, con umiltà.
Arrestarsi dinnanzi al mistero non significa confessarne l’aporeticità insolubile, non equivale allo scivolamento in uno scetticismo senza consolazione che ritiene dogmaticamente che, a queste domande, non vi sia risposta alcuna, affatto e mai.
L’arresto è una prova di umiltà, innanzitutto. Arrestarsi dinnanzi al mistero ( di Dio, della Croce, dei dolori della Madre di Dio etc.) significa riconoscerlo (confessarlo) come mistero. L’arresto, lungi dal rappresentare una fine inconcludente della ricerca, è l’inizio del corretto rapporto con Ciò stesso che si ricerca.
Nel suo arrestarsi, e soltanto in esso, l’uomo fa esperienza del mistero in quanto mistero, cioè riconosce ciò che ad esso è dovuto secondo la sua propria essenza. Questo ancora non avveniva – o avveniva in misura molto ristretta e sfumata – con il domandare. Il mistero in quanto domandato non è ancora il mistero in quanto mistero. Posta in mezzo fra i due vi è l’esperienza dell’arresto, che è innanzitutto il fallimento del domandare, il suo arenarsi.
In effetti domandare lo si può di tutto. Con questo “di tutto” ciò che vi è di più alto e straordinario appare insieme a ciò che vi è di più scialbo e ordinario, in uno stesso amalgama indifferenziato. Proprio il veto che il mistero stesso, a partire da sè, oppone al domandare, arrestandone il movimento, proprio nell’arresto che questo subisce
in modo conforme all’essenza di ciò che domanda, preserva e custodisce il mistero stesso dal suo appiattimento in una totalità indifferenziata dove ogni cosa è uguale a tutte le altre.
Dall’arresto scaturisce il riconoscimento che è confessione del rango e della unicità di ciò che prima si interrogava all’interno della totalità omogenea di ciò che è interrogabile: “non di tutto si può domandare” – o, almeno: “non ogni cosa è interrogabile allo stesso modo”.
Cerchiamo adesso di penetrare ancora più in profondità nell’essenza dell’arresto: esso, come tale, non è la risposta alle nostre domande. E’ piuttosto l’esperienza della impossibilità di una risposta ad esse conquistata attraverso sforzi e forze solo umane, siano essi ascetici, intellettuali o altro: è quello che prima avevamo denominato uno svolgimento del cammino di ricerca lineare e in sé conchiuso, perchè immanente al suo punto di partenza, quello in cui il domandare stesso si radica.
Diciamo adesso che tra il punto di partenza (domanda) e il punto di arrivo (mèta, risposta, Cosa) non vi è un cammino, ma un salto. Alla risposta non si arriva “passo dopo passo”, cioè mediante un camminare che è un avvicinamento progressivo alla mèta, ma con un vero e proprio salto che interrompe bruscamente ogni linearità del nostro domandare e camminare-verso.
In termini teologici potremmo dire che, nel punto di partenza, lo stato dell’io che domanda non è ancora uno stato di grazia. Più precisamente: non lo è del tutto e pienamente: l’assenza totale di grazia sarebbe infatti l’indifferenza nei confronti dei misteri della fede. Già il fatto che di essi si domandi testimonia invece della presenza di una pur minima operazione di grazia nei nostri confronti. Il domandare, quando è autentico e non è un arbitrario capriccio, è sempre suscitato dal mistero stesso, è già una piccola
grazia. Fintantochè lo domandiamo stiamo tuttavia fuori dal mistero, ovverosia non siamo in uno stato di piena grazia.
Nell’arresto ci sentiamo come bloccati; questo blocco però, se sopportato fino in fondo, può trasformarsi in qualcosa di altro, può mostrarsi essere ciò che inizialmente non sembrava: il blocco può mutarsi in attesa e questo perché il blocco è, in realtà e fin dall’inizio, nel suo fondo più intimo, un’attesa. L’arresto può segnare la fine disillusa di ogni ricerca come anche può aprirci a un rapporto con ciò che si ricerca più originario ancora di quello determinato dal domandare. Questa possibilità di un rapporto altro – più radicale e abissale di ogni domandare, di ogni intenzionante dirigersi verso qualcosa – col mistero va sotto il nome di attesa. L’attesa è una forma di abbandono. Chi attende però ad-tende, tende verso qualcosa; eppure questa tensione, in modo diametralmente opposto a quella che si dispiega nel domandare, è una tensione quieta e rilassata: tendere non significa più dirigersi verso qualcosa, cercandolo al modo della domanda, ma piuttosto abbandonarvisi.
Nell’attesa come abbandono il punto di partenza è rovesciato: ora il mistero non è più il domandato, ma l’atteso. Proprio con
l’abbandono, che mai rappresenta l’effettiva rinuncia alla ricerca, al movimento del dirigersi, questo stesso movimento è assunto in esso e trasfigurato. L’abbandono quieto dell’attesa che ha conosciuto l’arresto è la forma più alta del cercare. Una forma che può esprimersi solo attraverso paradossi: è un cercare che non cerca, un cercare che reiteratamente rinuncia a trovare, a conquistare, ad attivarsi per fare bottino e che, però, proprio in questa rinuncia, si realizza e si manifesta come cercare, cioè: proprio nella rinuncia trova.
Questo dinamismo paradossale è stato messo in luce, una volta per tutte e con precisione straordinaria, nei pochi versi che compongono il Salmo 132.
Nell’attesa facciamo spazio vuoto in noi e intorno a noi affinchè la Cosa stessa, che abbiamo saputo perdere, ci raggiunga da questo
nostro perderla, sopraggiungendo in noi e intorno a noi, secondo i suoi modi e con i tempi che essa giudicherà opportuni, proprio quei tempi che sono gli attimi della nostra salvezza:
“Dobbiamo arrivare al punto in cui il nostro intelletto, vale a dire il pensiero comune, si arresta per mettersi in movimento in modo diverso” (Heidegger, Eraclito, Mursia, pg.85)
Caro Andrea Granata,
che tipo di movimento diverso deve fare il nostro intelletto, cioè il pensiero comune?
Silvia Fusco
https://www.stateofmind.it/2023/06/falso-se/
Forse potremmo fare un movimento dal Falso sè al Vero sè tramite un oggetto transazionale
Ci serve un pupazzone per la transizione per aprirsi al parradosso creativo?
https://www.spiweb.it/la-ricerca/ricerca/oggetto-transizionale/
Grazie
Silvia
Cara Silvia, tutto il testo di Andrea non fa che tentare di descrivere questo movimento diverso.
Almeno così a me sembra….
Far tacere un certo domandare, fermarsi, porsi in ascolto e attendere.
Un abbraccio! Paola
Proprio così..
fermarsi e lasciare che la Cosa accada secondo modalità che non rientrano nel nostro “domandare”…sarebbe come imbottigliare il mare !
Ciao, Maria Carla
Bellissimo Andrea, grazie di questo prezioso scritto!
“L’abbandono quieto dell’attesa che ha conosciuto l’arresto è la forma più alta del cercare.” Grazie caro Andrea per questo scritto davvero prezioso, che porta sollievo al cuore e rilascia la tensione esagerata dell’ego raziocinante.
Leggendo, mi rendo conto di quanto questa “resa” sia anche una sconfitta per l’ego e una porta di ingresso per qualcos’altro. Il mio ego non conosce altro che il ragionamento e con quello pensa di sostenersi, bello riscoprire stamattina, che fuori dai miei pensieri circolari esiste un mondo, ben più gioioso ed assolato.
Grazie di cuore, caro Andrea.
Ho apprezzato moltissimo questo tuo testo. Molto tecnico, debbo ammettere, ricco anche, se vuoi, di tecnicismi che, magari, ai non addetti ai lavori di filosofia come me possono risultare, di primo acchito, più ardui. Ma dopo due-tre letture e riletture, sono riuscito a comprendere tutto.
E te ne sono grato, poiché le tue parole illustrano il movimento che abbiamo bisogno di compiere e ricompiere, sempre quello, sempre lo stesso, ma spesso proprio così difficile da realizzare: spegnere la mente, lo stesso interrogarsi, abdicare a ogni domanda, facendola naufragare, e poi “annegare” nel Vuoto.
Il tuo articolo lo leggo proprio (non a caso) in un momento preciso (a proposito di coincidenze..); questa mattina mi chiedevo infatti se davvero questo Vuoto, questo Niente in cui l’Occidente e la Chiesa oggi sguazzano sia qualcosa di negativo.
No, non lo è.
E comunque sia: l’attesa (del miracolo, della Cosa, dell’evento) è tutta abbandono.
Come scrivi anche tu. Quanta verità racchiusa in questo!!
Alle volte mi sorprendo del mio stesso chiacchiericcio mentale; e mi accorgo: devo farlo naufragare. Punto. Il resto viene da sé.
Grazie mille anche per aver illustrato come lo stesso itinerario che porta a interrogarsi e poi a spegnere lo stesso atto di porre domande passi per il percorso iniziatico, da un Io in Conversione, che inizia a entrare nel mistero, fino agli stati più profondi ed elevato della relazione.
Un caro saluto e grazie ancora!! Un testo preziosissimo per tutti noi.
Simone
La resa.
Cosa significa?
Attendere che altri decidano per noi in nome di Dio?
Attendere che la Cosa arrivi?
Forse dovremmo bilanciare bene l’attivo con il passivo e richiamare la nostra adultita’e la nostra capacità di fare responsabilmente delle scelte.
So che molti pretendono che gli altri si arrendano e che eseguano ciò che ad altri, anche in nome di Dio, sembra giusto, buono e bello ma io questa resa non la comprendo.
Siete sicuri di non arrendervi a degli uomini limitati come voi e non a Dio?
Anche io vorrei tanto arrendermi e far decidere ad altri della mia vita in modo da poter dire di fare la volontà di Dio ma non mi sembra corretto. Non riesco.
Non faccio polemica ma mi piacerebbe comprendere meglio la vostra posizione.
Ho letto il post ma non comprendo.
Altrimenti detto se l’ego non decide chi decide?
Grazie
Scusate il disturbo, il chiacchiericcio e le tante domande.
Trovo queste conversazioni molto belle e rare.
Grazie ancora.
Silvia
Grazie Andrea. Mi piace abbandonarmi nell’attesa.
https://www.giffonifilmfestival.it/news-giffoni-experience/item/10722-giffoni54-e-il-momento-di-riscoprire-i-legami.html