In questo film del 2016 il regista Denis Villeneuve ci stimola a una riflessione su quanto complesso sia il dialogo con ciò che è altro da me, sia esso fuori di me o dentro. E come si sarebbe potuto affrontare in modo originale questo tema se non facendo ricorso a ciò che è altro da noi per eccellenza? A ciò che è, appunto, alieno?
I film sugli alieni mi fanno quasi sempre storcere un po’ il naso, ma in questo caso e in questa cornice ermeneutica gli spunti di riflessione arrivano copiosi. Molti di questi, per ovvi motivi di brevità, sono lasciati a chi vorrà approfondire la visione.
Il film si apre con il palesarsi sul pianeta Terra di alcuni (12) monoliti di origine sconosciuta, degli oggetti non identificati: si manifesta l’Alterità. La reazione delle persone è ovviamente di sconvolgimento e terrore, ed è curioso notare un cambiamento di coordinate dei vari apparecchi elettromagnetici e addirittura dello spazio-tempo a cui siamo abituati: il verticale, all’interno dello spazio alieno, diventa orizzontale. Quando nelle nostre vite sempre molto “ordinate” irrompe qualcosa di imprevisto, ne rimaniamo “scombussolati”, le nostre bussole cognitive non sono più in grado di orientarci e il nostro reticolo di coordinate categoriali non è più una gabbia sufficiente a catturare ciò che non è sotto il nostro diretto controllo, nonostante tutti i nostri sforzi disperati. Questo sembra dirci il regista in questi primi minuti.
A questo punto, si notano chiaramente le due risposte principali di fronte al manifestarsi dell’alterità. Una dottoressa in lingue, incaricata dal Governo degli Stati Uniti di capire che cosa fossero venuti a fare gli alieni sul nostro pianeta (interessante che l’incaricata della mediazione sia un’esperta del linguaggio, del logos, della parola), tenta un approccio dialogico, mentre, allo stesso tempo, altri funzionari del governo stanno preparandosi a entrare in guerra: approccio bellico. Sono essenzialmete questi i modus operandi che ci è dato di utilizzare: la chiusura – “ogni guerra è difensiva” – e l’apertura al dialogo. L’uno, quello bellico, consiste nella chiusura fondamentalistica verso ciò che viene da fuori (o “peggio”, da dentro), verso ciò che non rientra nel nostro recinto di certezze e che (paradossalmente, nel caso di ciò che viene da dentro e quindi ci è più intimo) non possiamo immediatamente afferrare-possedere; l’altro, quello dialogico, molto più faticoso, ha come fondamento il riconoscimento dell’altro-da-me come soggettività autonoma verso la quale tendere per un’integrazione e un arricchimento reciproco, e dell’alterità interna (sembra un ossimoro) come di quella fonte da cui proviene la vita. Quest’ultimo approccio, però, non è immediato, non ci viene naturale, passa anche dall’acquisizione esperienziale di una postura, di un modo d’Essere-in-Relazione: bella e commovente a tal proposito è la scena (minuto 36’) in cui ha inizio il dialogo vero e proprio con l’altra forma di vita. La linguista inizia un avvicinamento agli ospiti, tramite l’insegnamento delle prime parole utili a instaurare una conversazione proficua, e anche l’alieno inizia a usare il proprio linguaggio. Nessuno dei due interlocutori sa niente a priori sul linguaggio dell’altro. La linguista si avvicina a poco a poco, anche fisicamente: compie uno sbilanciamento verso l’alterità per comprenderne meglio il messaggio e per facilitare la conoscenza reciproca. Si de-centra, l’Io si avvicina al Tu. Tutto questo è finalizzato alla formulazione della domanda: “qual è il vostro scopo qui?”. Interessante: questa domanda – emblema dell’approccio dialogico – presuppone che l’Alterità abbia uno scopo, abbia un significato, qualcosa da dirci. Ma ci torneremo.
La fatica dell’avvicinamento all’alterità è resa plasticamente: la progressione nel dialogo viaggia per step e subisce rallentamenti e stalli. L’apertura all’alterità è qualcosa di molto delicato, va gestita con sensibilità, il rischio altrimenti è di esserne soverchiati, ma allo stesso tempo ha bisogno anche di molto coraggio, direi di fede. Al minuto 45’ la dottoressa incaricata dell’ingeneroso compito, estenuata e frustrata, compie un altro gesto creativo ed emblematico: si toglie la visiera protettiva, scatenando lo scandalo e la preoccupazione della squadra al lavoro con lei. Un altro gesto di avvicinamento all’altro, una chiara rappresentazione di come, per conoscere veramente l’altro e farsi conoscere, ci sia bisogno gradualmente di spogliarsi. Spogliarsi della propria armatura protettiva che, difendendoci, impedisce di far entrare veramente qualcuno, sgombrarsi dalle rigide sovrastrutture egoico-belliche che ci imbrigliano e non ci permettono di essere in un atteggiamento veramente dialogico, creare quello spazio che permette la nascita di qualcosa di Nuovo, togliersi quella visiera che ci ostacola nel vedere veramente l’altro ed esserne visti e, finalmente, riconoscerlo. Non c’è vera conoscenza senza la progressiva nudità. Piccolo scatto in avanti: Nel film (minuto 86’) si arriva all’incontro vero e proprio, al congiungimento compiuto, in cui non ci sono più barriere protettive e schermature e le due parti (la linguista e uno degli alieni) arrivano a toccarsi, a stare l’uno di fronte allo sguardo dell’altro, al “volto dell’Altro” (Levinas, 1961). Nella totale apertura, avviene una sorta di fecondazione.
Dicevamo, c’è uno scambio di linguaggi: c’è quindi uno scambio di prospettive da cui osservare la realtà. Nel film, l’alterità della prospettiva altrui è portata all’ennesima potenza, poiché il linguaggio alieno è di tipo non lineare e abbisogna di un pensiero di tipo divergente e non rinchiuso nei nostri canoni pre-de-finiti, per essere tradotto.
Minuto 66’: c’è un problema. Finalmente la linguista riesce a formulare agli alieni la richiesta “qual è il vostro scopo qui?” facendosi comprendere dagli interlocutori. La risposta aliena è un ideogramma dal significato tenebroso che adesso lei è in grado di capire: “offrire arma”. Subito assistiamo, anche qui in modo magistrale, alla tipica e immediata reazione di chiusura: visto il messaggio, interpretato come ostile, le grandi potenze mondiali interrompono il dialogo e alcune di esse passano all’attacco dei siti alieni. Anche qui l’interruzione della comunicazione è rappresentata in modo sublime: campeggia perentoria la parola “disconnected” sugli schermi delle nazioni che fino a pochi secondi prima erano in collegamento telematico fra loro. Si crea un’interruzione, una separazione. Come la lezione fenomenologico-clinica ci insegna, l’interruzione del dialogo con l’alterità porta alla patologia psichica; allo stesso modo, in ambito sociale, questa chiusura porta alla guerra (in qualsiasi forma, dalle parole velenose alle armi chimiche). Dall’avvicinamento precedente, passiamo quindi all’allontanamento: i monoliti alieni si spostano, si allontanano dal luogo precedentemente occupato di qualche centinaio di metri. La relazione è sempre oscillazione, danza.
Nelle relazioni, la vicinanza è ciò che consente la reciproca conoscenza, ma è anche qualcosa di “pericoloso”: il “movimento” dell’altro, anche il più innocente e insignificante, può provocarmi dolore, posso interpretare una carezza come uno schiaffo, un sorriso come un ringhio. Sappiamo bene quanto questi attacchi siano molte volte solo percepiti, non intenzionali, e questo è proprio il caso del film. Ogni messaggio, viaggiando verso l’esterno, porta con sé un certo carico di ambiguità, non è più sotto il nostro controllo e, di conseguenza, spesso genera un fraintendimento. Diciamolo così: Io penso qualcosa. Provo a dirlo, ma ciò che dirò sarà necessariamente diverso da ciò che pensavo. Tu ascolti, ma capirai sicuramente qualcosa di diverso da ciò che ho detto. Farai dei pensieri su ciò che credi di aver capito, ma ovviamente questi cambieranno ciò che credevi di aver capito. Quello che porterai via con te, alla fine, sarà qualcosa di completamente diverso da ciò che pensavo io. È un’arte difficile, quella di comunicare. E l’”arma” offerta dagli alieni era un qualcosa di molto diverso dall’interpretazione umana di quella parola.
Nessuna arma. L’offerta degli alieni del film di Villeneuve è un dono. E diciamo così: questo dono non consiste nel dono in sé, il dono è la possibilità di acquisire la capacità di scartarlo. Mi spiego: il dono, in questo caso, non è un oggetto, è un metodo. Il dono degli alieni – tralasciando tutta l’enorme riflessione sulla temporalità – è la possibilità di apprendere l’arte del dialogo. E come? Grazie al loro “linguaggio”: un linguaggio non lineare, un linguaggio palindromico, universale, che però, per essere compreso integral-mente, ha bisogno della collaborazione di tutta l’umanità (lascio a chi vorrà vedere il film il meraviglioso processo di questa scoperta, “partorita” dalla linguista). Forse è proprio qui che sta la Verità: in questa “mossa”, dal contenuto alla forma, non in un concetto, ma nel mettersi veramente in comunicazione con l’altro. Eccolo il dono dell’Alterità! Un linguaggio che se penetrato fino in fondo si fa pensiero, che scardina la nostra concezione del tempo e dello spazio, si fa prassi esistenziale e ci costringe a entrare in dialogo con noi stessi e con chi ci sta accanto, riconoscendo e poi trascendendo le differenze, avvicinandoci a ciò che è Altro da noi e donandoci energia vitale per la nostra fioritura. La salvezza quindi non è un oggetto, non è in un luogo. No, a quanto pare. La salvezza è tra noi, è nel “tra”. È “in mezzo” a noi.
Questo, in conclusione, è il messaggio portatoci dall’Alterità incarnata dagli alieni del film. Alla domanda “qual è il tuo scopo qui?”, arrivati a questo punto possiamo rispondere in sua vece in maniera più chiara: dire alle persone qualcosa su di loro che ancora non sanno e che le faccia “rinascere dall’alto”, mettere le persone in dialogo con loro stesse e fra loro, spingendole dolcemente così sul Cammino imprevedibile ed entusiasmante dell’Unificazione e della Pace. Lo scopo è donarsi Pace, è Darsi Pace.
Eccolo il lascito dei dodici monoliti atterrati sulla Terra. Dodici, proprio come le Tribù di Israele.
“I farisei gli domandarono: – Quando verrà il regno di Dio?
Gesù rispose loro: – Il regno di Dio è in mezzo a voi!”
(Luca 17, 20-21)
Ho visto il film e mi ritrovo in questa riflessione/visione. La paura dell’ ignoto, del non comprendere, quindi di essere offesa, ferita e infine annientata è forte direi che è il combattimento fisico/spirituale quotidiano che ci porta alla chiusura verso tutti e tutto. Ad un rifiuto. Così si è già morti e questo mi riporta alla mente una frase del Cristo: ” lasciate che i morti seppelliscano i loro morti”. È qui come la protagonista del film che c’è l’apertura incondizionata che ci fa intravvedere l’Altro e l’oltre. Grazie.
Grazie Gianmarco, la profondità della tua osservazione mi apre al mistero e alla verità della relazione, realtà vivente da scoprire, infinita mente che si svela e si rivela nella nudità di ciò che ancora non conosco di me e da chi è altro da me.
Che meraviglia!
Leggendo questo testo ho subito pensato: queste sono le recensioni che vale la pena leggere, quelle dal sapore iniziatico… Quelle che sanno guidare nelle profondità di un’opera, cogliendone le tonalità esistenziali, comuni all’esperienza di ogni essere umano.
Anche qui, come in ogni altro ambito, la pochezza della rappresentazione lascia sempre insoddisfatti, soli in sala con i popcorn…
iside
Complimenti per la riflessione molto originale su un film che adoro e che avrò visto almeno 4 volte e sicuramente dopo questa tua anche 5, mi hai fatto venire di nuovo la voglia…
Come dici, questa presenza dell’Alterità porta sconvolgimento, un messaggio che non offre risposte definitive ma ci invita a riflettere su questioni come il tempo, lo spazio, la vita in maniera profonde, a considerare nuove prospettive e all’importanza dell’empatia e dell’amore per costruire un futuro migliore.
Francesco F