“…io te sovra te corono e mitrio”
Sulla scia ancora assai… spumeggiante delle emozioni, delle intuizioni, dei pensieri nati durante i tre giorni di Sacrofano, vorrei condividere una suggestione dantesca, che mi si è offerta più volte durante le riflessioni di Marco sulla regalità di cui ciascuno di noi è portatore, e sul significato autentico dell’essere ‘re’ e ‘sacerdoti’.
La suggestione nasce dai versi del Canto XXVII del Purgatorio, non foss’altro che per la sua parte finale: la doppia incoronazione di Dante, re e sacerdote di sé stesso: “…io te sovra te corono e mitrio”, dice solennemente Virgilio nell’ultimo verso.
Il momento in cui ciò avviene non è casuale e questo è forse l’aspetto più interessante e congruo con il percorso di Darsi Pace: siamo nella fase conclusiva dell’esperienza purgatoriale vera e propria: Dante ha attraversato tutte e sette le cornici della montagna ed è in procinto di uscire dall’ultima: solo dunque al termine del percorso di integrazione delle proprie parti malate (perché altro non è il Purgatorio dantesco) questa incoronazione può essere ricevuta. E, re e sacerdote di sé stesso, può finalmente entrare nel Paradiso Terrestre, come ci racconteranno i canti dal XXVIII al XXXIII della seconda cantica.
Ma l’uscita dal sistema delle cornici non è evento naturale e automatico: molte cose devono ancora avvenire e molte azioni il pellegrino deve ancora portare a compimento.
Il canto XXVII, non per nulla assai movimentato e simbolicamente denso, ce le racconta.
Intanto la grandiosa apertura, nel segno di una Croce che si disegna su tutto il globo terrestre – ovvero il luogo in cui si svolge la nostra avventura di esseri umani -, e che evoca esplicitamente il Cristo (Gerusalemme è indicata come il luogo “laddove il suo Fattor lo sangue sparse”): le note ci spiegano diligentemente che nei versi iniziali Dante sta segnalando l’ora del tramonto, facendo riferimento, come spesso accade in Purgatorio, all’ora corrispondente di Gerusalemme, antipodale rispetto al Monte Purgatorio, nonché ai luoghi-limite – secondo la geografia dell’epoca – occidentale (l’Ebro, “Ibero”) e orientale (il Gange). Sul piano letterale, affermazione corretta. Ma quanto spessore simbolico assume il segno che rinvia all’Incarnazione, evocato nel momento decisivo della conclusione del percorso di integrazione?
L’intero Purgatorio non può che collocarsi sotto il segno del Cristo e della ‘nuova umanità’ da Lui inaugurata, che si fa testimone vivente di un Dio/Amore incondizionato; una nuova umanità dunque radicalmente dedita alla pace, radicalmente anti egoico-bellica – a costo della propria vita – radicalmente anti-sacrificale (paradossalmente!) e consapevole della propria “trave nell’occhio”; d’altra parte, l’intero Purgatorio non sarebbe concepibile senza il Cristo – e difatti nulla del genere esiste nelle tradizioni non cristiane, almeno a mia conoscenza. Non potrebbe esistere la possibilità cioè di assumersi la responsabilità dei propri errori e di rientrare in contatto con le energie mal canalizzate che li hanno resi possibili (talvolta necessari?), per integrarle e trasformarle.
Non sono mai riuscita a considerare il Purgatorio dantesco come luogo di punizioni e torture inflitte dall’esterno ad anime che comunque si sarebbero macchiate di peccati ‘veniali’: non ci sono nelle cornici guardiani che sorveglino i penitenti, eventualmente punendoli se si distraggono, e le anime, alcune delle quali tutt’altro che peccatori ‘veniali’ – basti pensare a Manfredi – non solo accettano, ma addirittura desiderano, come ci viene detto in alcuni casi, di intraprendere il faticoso percorso di rielaborazione e ricostruzione della propria autentica dignità di esseri umani, di modificare le proprie errate abitudini (mentali, comportamentali, emotive, fisiche…), di ricontattare le energie potenti e vitali che ne sono all’origine.
Più che di penitenze, parlerei di ‘esercizi’.
Quale il fine? Riconnettersi alla propria potenza.
Ma… siamo in grado di sostenere la nostra reale potenza?
Ecco, per me, il senso profondo e autentico del passaggio attraverso la cortina di fiamme, il nuovo rito, la nuova prova iniziatica che, in Purgatorio. XXVII, attende Dante. E possiamo forse stupirci della riluttanza del pellegrino davanti alla nuova esperienza? Siamo sicuri di non avere, noi tutti, timore della nostra potenza, siamo sicuri di non preferire la fuga di fronte alla piena responsabilità di sé che essa comporta?
Fatto sta che Virgilio, la ragione, con tutti i suoi buoni argomenti, con tutta la sua calda persuasività, con tutte, appunto, le sue ‘buone ragioni’ – e quante ce ne mette! -, nulla può in questo frangente e non riesce a convincere Dante ad attraversare le fiamme.
E’ solo il riferimento a Beatrice – al quale in extremis Virgilio si decide a ricorrere -, a un amore vissuto e desiderato con tutto il proprio essere, a generare lo scatto decisivo della volontà, sorretto dall’ardente desiderio e guidato dalle forze spirituali, che Dante menziona esplicitamente (“Guidavaci una voce che cantava/ di là; e noi, attenti pur a lei/ venimmo fuor là ove si montava.”, Purg. XVII, vv. 55-57).
Trovo straordinaria la Commedia perché mai in essa viene meno la consapevolezza, e quindi la cura, l’attenzione per l’essere umano che Dante è, che tutti noi siamo, dall’inizio alla fine.
Stare a contatto con un gradiente così alto di intensità… stanca (quanti di noi non hanno sentito la necessità di riposare domenica pomeriggio, di ritorno da Sacrofano?): Dante ha bisogno di dormire; fa del gradino della scala che gli si prospetta davanti il proprio giaciglio e si addormenta, vegliato dai suoi Maestri.
E sogna: ovvero entra in contatto con la sua Anima, che gli viene incontro gioiosa, cantando e raccogliendo fiori, sotto le sembianze della biblica Lia – ma incomparabilmente più bella rispetto alla versione originale. Una Lia/vita attiva che ha fatto bene la sua parte di lavoro e sa che l’altra parte di sé, Rachele/vita contemplativa, attende serena.
Solo ora Dante è pronto: al risveglio si predispone a salire la ripidissima scala che lo separa dal Paradiso Terrestre e che il desiderio di arrivare in cima gli rende facilissimo superare.
E sulla soglia del “loco/ fatto per proprio de l’umana specie” (Par. I, v. 57), Virgilio, il Maestro, che sta per cedere il passo a una superiore Maestra, pronuncia le ultime parole che gli sentiremo dire nel poema: “Lo tuo piacere omai prendi per duce./[…]Libero, dritto e sano è il tuo arbitrio/ e fallo fora non fare a suo senno./ Perch’io te sovra te corono e mitrio.” (Purg. XXVII, v. 131, vv.140-142).
La regalità, il cui pensiero ci ha guidato in questi giorni grazie alle meravigliose parole di Marco, è coscienza della propria potenza, assunzione di responsabilità verso sé stessi e verso gli altri, testimonianza di libertà, desiderio intenso di entrare nella felicità, punto di partenza per concepire l’audacia del volo in Paradiso.
p.s. mi sa che Dante è stato il primo a iscriversi a Darsi Pace…
Cara, sono felice di vedere pubblicato l”articolo che ti avevo stimolato a scrivere e che mi hai fatto l’onore di farmi leggere in anteprima.
È bellissimo!
E collima in modo illuminante con quanto abbiamo vissuto a Sacrofano!
Grazie Maria Teresa!
Grazie Maria Teresa per questo bellissimo post. Da sempre amo Dante e sento una forte analogia o direi insieme a te un’ assonanza spirituale tra Darsi Pace e la Commedia. Le tre Cantiche e le Tre annualità, Marco Poeta Dante Poeta , il ripetersi di importanti nodalita’ nel Triennio e nelle tre Cantiche , basti pensate al VI canto di Dante e ai Sesti incontri nelle annualità
L’ uso della Lingua Italiana e delle Parole nella Poesia di Marco e in Dante.
Il percorso…
Insomma posso dirlo erano anni che aspettavo un post come il tuo. Non sono un italianista ma spero proprio tu possa continuare in questo lavoro di ricerca, la Poesia è vita e ci feconda. Grazie grazie