“Tutto ricomincia dal suo inizio ad ogni istante. Il passato non è che la prefigurazione del futuro e nessun avvenimento è irreversibile, nessuna trasformazione definitiva […] si può anche dire che non si produce nulla di nuovo nel mondo, perché tutto è solamente la ripetizione degli stessi archetipi primordiali”.
Questa frase di Mircea Eliade, grande storico delle religioni del ‘900, ci parla dell’esperienza della temporalità del mondo mitico, quella in cui nostri antenati, per millenni, sono stati immersi. A me sembra che tutto il senso di questo passo si addensi intorno alla parola “nuovo”. Cosa significa esperire il tempo in riferimento a un mistero di novità? Com’è che la rigenerazione cultuale del tempo – per esempio nella festa babilonese dell’Akitu – pur significando essa il suo rinnovamento, rimane estranea al nuovo? Cos’è, in definitiva, veramente “nuovo”? Come può tutto ciò che è nuovo mantenersi tale, in una perenne e inesauribile inizialità?
Chi annuncia il nuovo? I profeti. Il loro messaggio è straordinariamente lontano e diverso da ogni mistica: l’attenzione e l’ascolto che questi dedicano a ciò che, per ogni mistica, sono meri “fatti”, che – in linea di massima – nulla hanno a che fare con il divino, è profondissima. Von Rad parla di “un ascolto quanto mai vigile e attento dei grandi movimenti e delle grandi trasformazioni storiche del loro tempo”, infatti: “tutta la predicazione dei profeti è contrassegnata da una straordinaria mobilità e duttilità nel seguire i fenomeni storici”. Il profeta – come anche, seppur in modo più elusivo e implicito, l’apocalittico – è legato indissolubilmente alla contingenza della sua “ora”, con tutti i nomi concreti: Assur, Sennacherib, Babilonia etc. Così Heidegger, rispetto allo Jetzt holderliniano, si chiedeva: “«Ora»: quando è questa «ora»? […] L’ora indica certamente il tempo di Holderlin e nessun altro”. Ci si potrebbe però chiedere: perché ancora oggi leggiamo testi così profondamente incastonati e dipendenti dal loro tempo, tempo di nessun altro? Che senso ha continuare a leggere Isaia adesso che non c’è nessun pericolo “assiro” all’orizzonte? Perché in generale questi oracoli, così profondamente situati in un’ora e in un luogo contingenti, dunque irripetibili, sono stati tuttavia messi per iscritto (prima) e conservati nel canone (dopo)? Com’è possibile che l’ora storica in cui parla il profeta, pur essendo innegabilmente la sua, è anche la nostra? E’ cioè la Stessa (Heidegger)? Com’è che l’irripetibile è anche l’infinitamente ripetibile? Su questo enigma temporale si fonda la possibilità della tipologia, che non è tanto l’applicazione estrinseca di un metodo esegetico a un testo già bell’e chiuso nella sua datità, quanto piuttosto il modo in cui il traditum viene originariamente tradito, ossia il movimento stesso della tradizione, dai profeti all’evento neotestamentario.
Il nuovo di cui parlano i profeti sorge dalla lacerazione del non-essere-Sé-stesso del popolo, oppure – secondo il principio sostitutivo (Cullmann) -del Re del popolo. È quella che Eric Voegelin chiama esperienza dell’abisso della differenza. Il “non” apre infatti un vuoto in questo presente: è dall’abissalità di questa assenza – la lontananza del popolo da Dio e dunque da Sé come popolo-di-Dio, mediatamente: la corruttela della terra di questo popolo; – che sorge l’attesa speranzosa che il popolo – e, con esso, la terra- ritorni a Sé, nell’attimo iniziale della sua creazione come popolo-di-Dio. Questo movimento è presente, ad esempio, in Osea come ritorno al punto-zero del deserto (cfr. anche Ger 16, 14-15 e Ger 23, 7-8). Di fatti il popolo rinasce dal suo vuoto in cui esso è posto = 0, questo è il senso scandaloso del cosiddetto YOM YHWH. In cosa consiste però la sua intollerabilità? In questo: che il racconto che si voleva “fondativo” – Abramo, la promessa della terra, l’alleanza al Sinai, Davide – qui non fonda più niente, non assicura più la presenza nella sua stabilità. Non è un caso che la prima volta che venne a parola l’annuncio dello YOM YHWH – con Amos – esso venne innanzitutto contro chi lo attendeva: “Vae desiderantibus diem Domini…”: se infatti il mito, come racconto delle origini, è un argine tecnico di protezione contro ogni possibilità di crisi della presenza (De Martino), la profezia è anti-mitica perché lascia accadere l’inizialità di questa origine alla fine, con ciò rovesciando la narrazione dell’autoctonia nell’imprevedibilità di uno sradicamento, e la sua capacità fondativa in una forza (autodecostruttiva) di sfondamento-espropriazione della presenza stessa. In direzione di cosa? Della semplice catastrofe? Oppure del nuovo dopo la notte? È a questa altezza che va pensato il conflitto fra Geremia e i falsi profeti. Proviamo a comprenderli…Questi ultimi infatti si fondano sulle stesse tradizioni d’elezione d’Israele! Essi, di fronte al pericolo neobabilonese, non fanno che rispondere ripetendo “giustamente” le parole che YHWH aveva un tempo pronunciato con la sua bocca ad Abramo (“abiterai la terra”) e a Davide (“in pace e sicurezza”). Il cortocircuito interno a Israele che già Amos, un secolo e mezzo prima, aveva innescato si rende qui ancora più esplicito: Geremia – la parola di Dio (Ger 1,9) – è confutato con le parole dello stesso Dio! “Templus Domini! Templus Domini! Salvi sumus!” e così via… In cosa consisterebbe allora la loro “falsità”? Forse nell’aver “mitizzato” le tradizioni d’elezione trasformandole in senso unilateralmente fondativo, con ciò rimuovendo l’esposizione abissale al “non” della differenza che caratterizza non solo la vicenda biografica di Geremia, la sua “passione”, bensì mediante lui, per contrazione, l’essenza stessa di Israele? Che enigma è mai quello per cui proprio la fedeltà massima a Israele (i falsi profeti…) è, in realtà, il tradimento più grande a Israele stesso (…che infatti morranno di spada!)? Nel dramma della lotta fra profezia “vera” (Geremia) e falsa profezia si celano dei vertici speculativi la cui densità neanche 2000 anni di pensiero filosofico-occidentale arriverà a uguagliare. Qui, per chi ha occhi per vedere, è già presente la passione di Cristo: qui, in questo contrasto fra l’Israele di Geremia e l’Israele dei falsi profeti già traluce l’accusa che porterà il “Messia” Gesù sulla croce: l’accusa di essere un falso Messia. Come i falsi profeti, profetando per Israele contro Geremia si oppongono al senso stesso di Israele, così Geremia – PROPRIO tuonando contro Israele – diventa un Israele abbreviato, il popolo intero contratto in un singolo, avversato necessariamente dallo stesso (anti-)Israele. Geremia diviene il luogo in cui Israele entra in contraddizione con sé stesso: Geremia diventa Israele. La passione che soffre – che nulla ha a che fare (come ben dice Buber) con la vicenda intimista di “conversione” di S. Agostino cui più volte, inopportunamente, è stato accostato – , la passione che soffre, similmente a quella che poi soffrirà Cristo, è il dolore della lacerazione che oppone Israele a sé stesso: in Geremia – come più tardi in Cristo – Israele divora e uccide Sé stesso: la sua verità. Infatti nella contesa intorno alla messianicità di Gesù di Nazareth è proprio l’essenza del popolo messianico – cioè Israele – a esser posta di fronte a sé stesso sì che nella condanna a morte che ne segue è Israele a venire crocifisso per mano di Israele e in suo luogo. Cos’altro è in gioco sulla croce se non la contrapposizione fra l’Israele contratto in Cristo (verus Israhel secondo i cristiani) e l’Israele che, nel nome del Messia, cioè in definitiva nel nome di Israele, lo crocifigge?
Tornando all’Antico Testamento: il ritorno del popolo al suo attimo formativo-principiante è ricreazione di Dio attraverso la catastrofe. Di fatti questo ritornare non avviene nella sfera rassicurante del culto o della prassi rituale, da cui pure esso potrebbe aver preso il suo linguaggio (Gressmann, Gunkel). Il ritornare apre il fondamento (l’inizio) a partire dallo s-fondamento della sua assenza, cioè lo apre come ad-veniente (finale): avvento e parusia del nuovo come di-nuovo-in-Sé, novità di Sé come popolo-e-terra; il “non” scava il solco profondo della differenza, della distanza e lontananza da Sé all’interno della altrimenti chiusa e ben compatta identità (di sé con sé), rigoglio effimero e tronfio di una presenzialità certa di sé stessa attraverso una pratica solo cultuale-sacrificale. Lasciando erompere l’annuncio dello YOM YHWH i profeti tentano di invertire la tendenza dell’Israele della tarda monarchia a rifluire nel mito, a concepire il suo essere di popolo nel senso di una presenza garantita e senza differenza, cioè tendenzialmente a-storica. L’annuncio profetico è l’incisione dell’apertura di uno iato interno alla stessa identità: è la sua negazione. Israele è questa negazione di sé e, proprio per questo, negazione del mondo dei popoli. Egli è tale finché si mantiene in questa negazione di sé che apre al nuovo: l’attesa di esso non è che la via sofferta della nostra rinascita. Così il giudizio che Israele subisce è svelamento – attraverso la sua personale sofferenza di popolo – dell’abissale distanza dei popoli, cioè annuncio della loro (potenziale) rinascita. Israele è così già, in qualche modo, un giudizio universale abbreviato, anticipato (nel tempo) e ritagliato (nello spazio). Il suo senso è quello di subire, per gli altri popoli, cioè in loro luogo, e in modo quasi accelerato, il giudizio divino: Israele soffre l’avvento della sua stessa novità e solo per questo indica – attraverso la sua passione – la via che egli stesso ha percorso agli altri popoli, redimendoli.
Non si deve dimenticare che già il movimento dell’Esodo, con la distanza che apriva fra popolo-di-Dio e popolo naturale, ordine della regalità divina e ordine di quella umana (faraonica), non era solo un atto di accusa contro l’Egitto da parte di Israele, ma sempre anche un’accusa di Israele a sé stesso: un’autoaccusa necessaria allorché l’Israele post-salomonico diventerà l’Egitto di sé stesso, recludendosi nella stessa tomba dalla quale era uscito. Tutto ciò che Israele dice o immagina degli altri popoli lo dice contemporaneamente di sé, in quanto l’altro-popolo è anche al suo interno: la contrapposizione di Israele alle Genti è, perciò, innanzitutto una contrapposizione interna, di Israele a Israele. Ciò diverrà palese solo con i profeti però, il cui esserci sarà eletto teatro vivente di questa autocontraddizione. La loro parola è scandalosa perché afferma: l’Esodo, in quanto cammino, non si compie una volta per tutte. Ciò significa che Israele non solo è chiamato a vivere il dinamismo esodale di uscita dal mondo degli imperi cosmologici, ma a soffrirla come movimento di uscita da sé, dunque autonegazione, per tutti gli altri popoli, come abbiamo detto. Questa duplicità – ignorata per esempio da Jan Assmann – portò Israele a suicidarsi come entità politico-statuale, cioè a cessare di esistere (YOM YHWH) per iniziare a esistere come Israele. Ciò non sarebbe stato possibile se dei folli di Dio non avrebbero visto in Israele lo stesso l’Egitto dal quale esso era fuggito tempo addietro, se non avessero affilato le loro lingue contro Israele e in nome di Israele stesso. Questo è il senso della profezia: mantenere aperto il presente al suo avvento, cioè relativizzarlo, impedendo che si chiuda in sé e la storia, che è questo restare-in-cammino, sotto la sua cupola dorata, cessi. Tutto l’Occidente trae il suo respiro da quella che, laicamente, potremmo chiamare una autocritica. Ma “krisis” è la parola che nella Septuaginta traduce “Giudizio”.
Grazie caro Andrea,
forse Maria è l’inizio di questo perenne rinnovamento/realizzazione? se io non sono (vuoto mariano), realizzo l’IO SONO?
Forse solo attraverso l’immacolata, anima concepita non separata, e che non separata si concepiosce, entra per sempre quell’ora che è sempre adesso? In questo momento incondizionatamente nuovo sempre e per sempre, eppure mai uguale a se stesso? In un perenne processo di realizzazione?
Forse grazie all’immacolata entra finale-mente il giudizio di questo mondo/popolo/israele/io separato?
ancora grazie e un caro saluto
Stefano
Grazie
Grazie
desidero dire a Lia Riggi di san Cataldo che anche e specialmente nella CHIESA cattolica ed apostolica si entra in relazione con il Cristo Risorto.
Stamattina durante la meditazione all’alba mi è affiorato un pensiero, legato alla lettura del commento di Stefano, sul vuoto che cerchiamo di fare in noi, ed il pensiero era che Maria nella Grazia del non essere concepisce l’Essere.