Introduzione
In un momento storico in cui nel panorama musicale si è visto e sentito di tutto e di più, caratterizzato inoltre da un forte interesse (e possibilità) di recuperare quanto fatto in passato, sorge con ancora più urgenza la domanda: “perché comporre”?
Se nel secolo passato a questa domanda si era cercato di rispondere da un punto di vista strettamente artistico – ricercando “novità” di natura estetica/fenomenica che rompessero con quanto percepito fino a quel momento – adesso diventa possibile intravedere anche un nuovo interesse con cui “interrogare la domanda”.
Rispettando sempre l’esigenza personale di chiunque se la ponga, si schiude ora una chiave di lettura più “sociale” che trasforma la domanda: non più solamente “perché comporre?”, ma “a cosa serve che io componga?”, che servizio sociale/umano svolgo componendo? Come posso servire l’umanità attraverso la musica che andrò a scrivere?
Questa domanda rilanciabile adesso con una sensibilità più contemporanea può sia essere utilizzata per interpretare retrospettivamente la musica già scritta, sia impiegata per guidare il compito di scriverne di nuova.
Sguardo sulla musica di un compositore
Personalmente credo che la musica, per via del peculiare modo con cui intreccia ciò che esprime e ciò che non esprime (e che quindi è richiesto all’ascoltatore di completare), possa svolgere un importante ruolo nel “cristallizzare” delle esperienze di vita ed essere quindi utilizzata come strumento sia per osservarle per come si presentano, sia per mostrare come elaborarle per – ad esempio – riuscire a smuovere o a ri-muovere luoghi del nostro animo paralitici e quindi paralizzanti (per noi e per gli altri).
Ogni composizione è una sorta di “itinerario” che ci invita a percorrere un luogo del nostro animo/memoria, fornendo al tempo stesso la possibilità per notare qualcosa di nuovo, qualcosa che possa favorire una reinterpretazione più funzionale per il nostro vivere dei contenuti presenti in quel determinato “luogo di noi”.
Cosa quindi può cercare il compositore? Cosa quindi devo cercare io? Stati d’animo che non sono stati ancora ben raccontati.
Fino ad ora la ricerca compositiva è stata troppo incentrata sullo stile: un nuovo timbro, un nuovo accordo, una nuova scala, una nuova gestione dell’armonia, etc.
Se chiaramente la ricerca stilistica è stata promossa dagli imperativi di un nuovo contenuto che reclamava giustamente mezzi adatti per essere espresso, da un altro punto di vista si è rimasti troppo ciechi al fatto di aver elaborato una miriade di mezzi espressivi che – anche rimanendo se stessi senza evolvere ulteriormente in qualcosa di “esteticamente altro” – possono essere usati per esprimere contenuti “dicibili” attraverso di loro ma che ancora non sono stati espressi.
In una frase: noi musicisti abbiamo un panorama vastissimo di mezzi espressivi accompagnato da una quasi assente (in proporzione) interrogazione sui contenuti per i quali vale la pena impiegarli.
E’ allora necessario ereditare questi linguaggi per dipingere gli stati d’animo sui quali è di vitale importanza aumentare la consapevolezza sociale e individuale. La musica, e la composizione, diventano così strumenti per coltivare la coscienza collettiva e personale.
In questo panorama si relativizza l’importanza della “musica personale”, ovvero quella musica che esprime dettagliatamente i sentimenti del solo compositore, sentimenti concepiti ed esperiti prevalentemente nella loro “esclusività” piuttosto che nel loro potenziale di universalità.
Se è insindacabile che il punto di partenza del sentire sia sempre sé stessi, il tipo di soggettività che si propone di scrivere musica di utilità sociale nel ventunesimo secolo non dovrà badare in misura prevalente a esprimere dettagliatamente il suo privato sentire, ma evolvere questo in un sentire “prendibile” da un altro soggetto, superare i propri confini, “esasperare” la propria empatia, arrivando a dar voce musicale anche a chi è distante da sé.
Questa disponibilità è frutto di una scelta deliberata e personale: è infatti innegabile che in passato si puntasse molto di più a impiegare la musica come strumento per distinguersi ed elevarsi rispetto alla massa piuttosto che come strumento per elevare la massa e aiutarla a distinguersi internamente laddove appropriato e sensato. L’intenzione del compositore era quindi – mediamente – piuttosto quella di esasperare il carattere privato del proprio contenuto piuttosto che di concepire contenuti fatti per parlare ai più; circostanza visibile anche in certe pretese di universalità – o più moderata condivisibilità – che altro non sono che assolutizzazioni di esperienze private.
E’ bene notare che il raggiungimento di questo obiettivo non è un fatto anzitutto “tecnico” ma contenutistico: si potrà essere musicalmente dettagliati quanto lo si ritiene necessario, adottare una forma quanto mai composta o quanto mai semplice in funzione della richiesta del contenuto; tuttavia è proprio questo che dovrà essere tornito anzitutto nel suo essere “pre-musicale” in modo tale da assumere le caratteristiche della condivisibilità con il pubblico cui è destinato.
Personalmente un modo coerente di rispondere a queste rinnovate esigenze espressive è scegliere i dolori, le cose non viste (che sono sempre dolori) che più intercettano la propria sensibilità e trovare la maniera di esprimerle musicalmente in modo dettagliato per poi successivamente descrivere – sempre musicalmente – “gli antidoti”, ovvero le esperienze spirituali/materiali che curano quel determinato settore del dolere umano.
Si assume infatti che almeno una volta ognuno di noi ha o provato in prima persona o assistito in terza a quella circostanza in grado di sanare una ben determinata ferita da cui è afflitto. Semplicemente questa esperienza viene poi persa e dimenticata o semplicemente “non valorizzata” nel suo potere curante di un determinato frammento di dolore che ci peggiora la vita.
La musica può favorire il recupero e l’impiego di questa risorsa, valorizzando il potere di autoguarigione intrinseco nella memoria di ciascuno.
Oppure, anche ammesso che non si abbia sperimentato o assistito a una determinata esperienza con un determinato “potenziale curativo” può sempre stimolare la capacità di “sentire il nuovo” insita in ciascuno di noi, spingendola a produrre lo stato “psico-fisico” di cui abbiamo bisogno per andare a guarire e curare sempre uno specifico dolore.
Si pongono quindi 2 livelli di lavoro, ognuno con esigenze tecniche/creative condivise oppure peculiari: il livello di elaborazione del contenuto e il livello di traduzione musicale del contenuto.
Al momento non è il caso di pronunciarsi strettamente sul secondo, essendo una faccenda di “mestiere” da post-porre alla faccenda più umana, che compete al primo livello.
Traccia per un lavoro sul contenuto
Proviamo quindi a spendere due parole per abbozzare il lavoro di “elaborazione del contenuto”, che è poi ciò su cui meno i compositori vengono mediamente allenati almeno dall’istruzione tradizionale.
Questo lavoro richiede anzitutto di individuare ciò di cui si vuole parlare, mettiamo: il trauma dell’abbandono.
Si sceglie poi il grado di generalità (1° passaggio) con cui si intende parlare musicalmente dell’esperienza: vogliamo scrivere qualcosa che intercetti i dolori comuni a più esperienze di abbandono oppure si vorrà scendere nello specifico di una peculiare forma di abbandono (separazione precoce dai genitori, adozione, mancanza di aiuto in un clima di pressante disagio, etc)?
Chiaramente questa scelta è prioritaria in quanto ne va dell’intero impianto strutturale, nonché del linguaggio che si sceglierà di adottare nella scrittura del brano, dei temi musicali che si andranno a sviluppare, etc.
Una volta definito il contenuto e il suo grado di generalità va concepita l’esperienza (2° passaggio), appunto “l’itinerario”, il percorso nell’animo umano che si andrà a creare e a suggerire attraverso l’ascolto del brano che si intende scrivere.
Vanno quindi rintracciate quelle variabili dell’esistenza che meglio la musica riesce ad esprimere, per come configurate nello specifico di quella esperienza:
Quali emozioni prova una persona abbandonata? Quali gesti (ovvero manifestazioni fisiche di emozioni, pensieri, intenzioni) compie? Che sensazioni prova? Che pensieri ha? Cosa ricorda? Cosa immagina?
Si dovrà scegliere quali di queste “modalità di accesso” all’esperienza dell’abbandono si vorrà privilegiare: chiaramente la scrittura di un brano che esprima maggiormente il fronte emotivo sarà diversa da quella che esplori prevalentemente la traccia sensoriale.
Una volta risposte alle domande e definiti quindi gli “elementi contenutistici” e le loro proporzioni bisognerà appunto disporli in un percorso temporale mostrandone inoltre l’interazione (3° passaggio). Quali incontriamo per primi? In contemporanea a quali altri? Quali vengono dopo? Come mutano nel corso del tempo? E mutano in funzione di cosa? Come interagiscono?
La risposta a queste domande determinerà l’impianto strutturale del brano, portando alla creazione di sezioni più o meno ampie, numerose e internamente articolate.
Una volta definito questo si potrà iniziare a comporre scegliendo gli elementi musicali più adatti ad entrare in risonanza con il contenuto così lavorato, affrontando così il secondo livello di lavoro strettamente “tecnico” menzionato nel paragrafo precedente.
Va da sé che un discorso analogo potrà essere fatto per gli “antidoti”, ovvero le esperienze curative rispetto a un determinato dolore: cosa deve provare una persona per guarire da un trauma di abbandono? Che esperienze hanno questo potere? Che sensazioni/emozioni comportano queste esperienze? Etc.
Naturalmente dolori o antidoti potranno essere presenti come momenti diversi dello stesso brano oppure dar vita a brani autonomi. Nel caso dei dolori questo sarà particolarmente appropriato al fine di esprimere quegli stati d’animo in cui non si vede speranza di guarigione.
Rimane da dire che chiaramente l’arte di comporre musica che risponde ad esigenze sociali richiede parimenti lo sviluppo di un’educazione all’ascolto che metta le persone nelle condizioni di ricevere la musica in modo tale da renderla uno strumento in grado di operare.
Senza una competenza di ascolto la somministrazione di qualsiasi brano è forse, nella più rosea speranza, poco meno che inutile.
Quanta profonda apertura c’è in ciò che scrivi e, sicuramente, quanta “ricchezza” c’è nella musica che elabori – grazie. Sarà che manca tutto questo “sentire” e questo desiderio di “condividere vita autentica” che ha svuotato la maggior parte della musica di oggi che, personalmente, percepisco come confuso e fastidioso “rumore”? Grazie ancora e complimenti!
Caro Pietro, che articolo rivoluzionario! Quale luminosità d’idee! Proprio in questi giorni ho finito di scrivere un primo testo sulla necessità di reinterpretare il fenomeno delle avanguardie storiche nel contesto dei gruppi di approfondimento tematico de L’Indispensabile, e ora la tua analisi mi dà una conferma preziosa di quanto sono arrivata a sostenere leggendo l’esperienza dell’avanguardia sovietica attraverso le categorie che caratterizzano l’esperienza poetica del Novecento in Europa!Ossia che così tanto si è giocato sulla scissione tra forma e contenuto che non poteva che risultare da un io scisso a sua volta. E che per uscire dal labirinto di forme è necessario fare i conti con il contenuto, con la nostra interiorità, i nostri dolori, come dici tu. Grazie, spero avremo l’occasione di conoscerci e parlarne, anche perché, fresca di questo lavoro, ho cominciato a interrogarmi sulla possibilità di reinterpretare anche il vastissimo e attualissimo fenomeno della musica elettronica, di cui apprezzo alcuni sottogeneri, secondo una chiave trans-egoica. Sarebbe interessante per me sentire le tue idee a riguardo 😀
Bellissimo questo vero e proprio saggio! Non vorrei sbagliarmi, ma sento che tutto questo va anche un po’ a sanare quel divario spesso percepito tre musica “colta” e “popolare”, una rottura di simmetria dolorosa ma credo alla fine poco consistente (io ascolto dai Beatles a Bruckner e trovo necessità di esistenza di tutte le forme musicali).
Mi pare infatti che quanto dici si possa applicare in ogni ambito musicale, anzi forse in ogni ambito creativo.
Cari tutti, provo a rispondervi con ordine.
Intanto Francesca: grazie per il tuo riscontro! Personalmente non credo tanto che manchi né il desiderio, né il sentire autentico; quello che riscontro più spesso è la mancanza di una competenza “linguistica” specifica per esprimerlo e problematizzarlo.
Infatti molto spesso, senza competenze linguistiche, si rimane incastrati un frustrato desiderio di “voler dire” e in un sentire che non può che essere autentico (perché l’anima non è ingannabile), ma che riporta cosa che non vogliamo ascoltare perché non abbiamo la capacità di rispondere in maniera adeguata; un sentire che non vogliamo stare a sentire.
Molta musica oggi è il prodotto di questa frustrazione secondo me. Che poi è anche interessante, perché pure questa riflette uno spaccato dell’essere umano, una specifica modalità in cui l’essere umano si trova ad essere nel momento in cui non ha la competenza per parlare di propriamente di sé.
Il problema è che se la si ascolta allo stesso livello di non-competenza linguistica che l’ha prodotta, questa musica tenderà a ricreare nell’ascoltatore le stesse modalità spirituali di approccio alla propria interiorità del compositore…
Se la si ascolta a un livello differente di consapevolezza può essere utile per capire la forma peculiare di dolore che affligge una certa cerchia di persone.
Insomma, torniamo a quella necessità di una didattica dell’ascolto cui accennavo alla fine del testo.
Grazie ancora per il tuo riscontro!
Ciao Carmen,
Intanto grazie anche a te per l’attenta lettura. Avrei piacere anche io a saperne di più sulle tue indagini sulle avanguardie! Se vuoi scrivimi a pietro01.lio@gmail.com per uno scambio di idee.
Buon lavoro!
Caro Marco,
Hai perfettamente ragione! Come spiegavo parlandone con un altro compare darsipacista il mio intento dietro queste riflessioni è anzitutto didattico: io lavoro come insegnante di pianoforte e sto provando a sperimentare come la didattica dell’improvvisazione e della composizione possa essere un valido strumento non solo in sé (nello stimolare gli allievi a parlare la lingua musicale e non soltanto a ripeterla) ma anche in funzione dell’apprendimento ordinario dello strumento.
Ebbene, lavorando in una scuola civica io ho davanti di tutto: dai bimbi di 4 anni portati li dai genitori, ai giovani anziani di 75 che avrebbero sempre voluto suonare ma che non hanno potuto farlo prima; dal rockettaro che vuole fare The Final Countdown al purista classico che suona solo da Bach a Rachmaninov.
Quindi per poterli prendere tutti sono “incoraggiato” dal mio lavoro a cercare di creare una didattica compositiva flessibile che possa rispondere alle esigenze contenutistiche proprie di ognuno.
Quindi si, hai colto bene! Cerco proprio una prospettiva integrativa.