Come ho menzionato in un altro breve testo, che scrissi qualche mese fa, uno psichiatra statunitense, James Gilligan, che ha lavorato nel sistema delle prigioni USA per decenni e che quindi si è interessato molto a capire da dove originino la violenza e il comportamento violento, spiega che la violenza sia consequenziale ad uno stato di dolore e di sofferenza interiore molto forte causato dall’essere considerati e dal sentirsi inferiori agli altri, meno umani degli altri e quindi meno degni, o anche non degni, di considerazione e di amore da parte degli altri (Gilligan, 2001). Quindi, la violenza, che come sappiamo ha varie forme (e.g., Galtung, 1969; Guzzi, 2011), sarebbe il mezzo attraverso cui l’uomo cerca di eliminare il proprio dolore ed anche l’entità che egli identifica come fonte del proprio dolore (Gilligan, 2001). Un aspetto interessante della lettura che Gilligan fa del comportamento umano violento è che lui la definisce come “the last resort” (Gilligan, 2001, p. 37), cioè l’ultima possibilità, suggerendo che prima di arrivare ad usare la violenza, l’essere umano provi altre strade.
Mi sono spesso interrogata su questo aspetto e cioè su come ad un certo punto, l’essere umano, e cioè noi, possa arrivare alla conclusione che non abbia altra possibilità che imporsi sugli altri con la forza[1]. Se guardiamo attentamente i conflitti di oggi – per esempio il conflitto Russo-Ucraino, Israelo-Palestinese, Armeno-Azero, per non parlare dei numerosi conflitti civili nel continente africano – sono conflitti in cui tutti gli attori coinvolti cercano di imporsi sugli altri con la forza. Perché?
Seguendo la logica argomentativa di Gilligan, la risposta sarebbe perché il dolore e la sofferenza di tutti gli attori coinvolti in questi conflitti ha raggiunto un livello tale che l’uso della violenza contro l’altro per imporre sé stesso è rimasta l’ultima opzione agli occhi di coloro che la utilizzano o la supportano. Un dolore ed una sofferenza che molto probabilmente, analizzandoli più da vicino, non hanno direttamente a che fare con il gruppo o lo Stato contro cui si sta facendo guerra e che però vengono identificati come la fonte del problema, la fonte del dolore e della sofferenza degli attori coinvolti. Non a caso, infatti, spesso e volentieri nei conflitti le violenze perpetrate vengono sempre giustificate come la conseguenza di azioni fatte in precedenza dalla parte opposta: se essi non avessero fatto questo, noi non avremmo fatto quest’altra cosa. Cioè, l’altro è indentificato sempre come la fonte del problema e, attraverso un processo di semplificazioni, viene assimilato al problema. E non è un caso che proprio questa dinamica la ritroviamo anche in ambienti, diciamo così, più domestici e di tutti i giorni, tra amici, conoscenti e anche famigliari. Non importa, quindi, se le nostre azioni abbiano arrecato un danno all’altro, perché esse sono state la conseguenza di un’azione scorretta, più o meno presunta, che l’altro aveva fatto in precedenza, magari proprio nei nostri confronti. Quindi noi ci deresponsabilizziamo e giustifichiamo, dando agli altri la responsabilità anche di ciò che facciamo o non facciamo noi (vedi anche Rosenberg, 2003, 2015).
Quindi, in sostanza, violenze e conflitti sembrano non avere vie d’uscita in quanto, secondo questa dinamica, l’unica fine possibile sarebbe l’annientamento totale dell’altro. Ma come ha detto un ex militante delle Brigate Rosse, Franco Bonisoli (2018a, 2018b), ad un Meeting di Rimini di qualche anno fa, annientare completamente l’altro non è facile (per diverse ragioni, prima fra tutte l’istinto a difendersi della controparte) e, quindi, il conflitto e la violenza si intensificano e si inaspriscono sempre di più, portando con sé la progressiva disumanizzazione degli altri e di sé stessi. Dunque, è possibile rompere questi cicli di violenza? Se la violenza è il risultato di questo dolore interiore che ognuno di noi ha, che cosa si può fare nella pratica, nella vita di tutti i giorni per disinnescare cicli di dolore e sofferenza, che possono trasformarsi in violenze terribili che non sembrano avere una vera via d’uscita? Sicuramente, c’è una dimensione personale, che prevederebbe un lavoro costante, come quello che facciamo nei gruppi Darsi Pace, ad esempio, o che può essere fatto anche attraverso percorsi personali di altro tipo, e che è atto a ricomporre insieme i vari pezzi del nostro Essere (infatti, è questa scissione interiore che provoca dolore e sofferenza).
Poi c’è un’altra dimensione che riguarda la relazione con l’altro e qui mi rifaccio a ciò che pochissimi giorni fa ha detto il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca cattolico di Gerusalemme, ad apertura del Meeting di Rimini 2024 (Pizzaballa, 2024), proprio a proposito della possibilità di una pace in Terra Santa, e quindi della possibilità di (ri)costruire le relazioni umane che decenni di violenze, se non addirittura di più, di ogni colore politico e di ogni origine etnico-religiosa hanno fondamentalmente distrutto. Durante l’incontro molto interessante il Patriarca cattolico di Gerusalemme ha affrontato il tema della pace, del perdono e della giustizia sotto diversi punti di vista molto interessanti. Parlando specificatamente della comunità cristiana, e cattolica in particolare, presente in Terra Santa, ha detto le seguenti parole:
“[…] La prima cosa è stare lì, esserci. Non cadere nella tentazione di volere per forza avere un ruolo in queste situazioni, ma essere capaci di dire una parola. Innanzitutto, sostenere la propria comunità, incoraggiarla ed essere presenti […]”
(Pizzaballa, 2024)
Come potrebbe realizzarsi questo ‘essere presenti’, questo ‘esserci’? Riflettendo su questa domanda, mi è venuto in mente come sia importante l’ascolto, l’ascoltarci a vicenda. Sembra un concetto semplice, ma in realtà non è così e prova ne è il fatto che oggi non ascoltiamo né noi stessi né tantomeno gli altri. Non lo facciamo perché fondamentalmente non sappiamo come si faccia e poi perché oggigiorno viviamo in una società che non è solo estremamente individualista, ma anche, e forse soprattutto, molto restia ad occuparsi, in maniera seria si intende, della dimensione interiore e quindi spirituale dell’essere umano. Il problema, però, è che il dolore e la sofferenza di cui abbiamo parlato finora fanno parte proprio della dimensione interiore e spirituale, che non venendo ascoltata – appunto – ad un certo momento viene fuori, in un modo o in un altro. A questo proposito, mi torna spesso in mente un incontro, che ho fatto in Croazia, precisamente a Fiume (Rijeka). Spesso non ci si pensa, ma questa è una terra dove dolore e sofferenza sono stati molto visibili fino a pochissimo tempo fa, venendo fuori sottoforma di conflitto civile.
Oltre ad essere una città molto carina, a Fiume è possibile individuare chiaramente la presenza storica italiana nonostante gli eventi degli anni ’40 – un altro conflitto all’interno del secondo conflitto mondiale. Per fare solo un piccolo esempio, diversi nomi di strade a Fiume sono ancora in italiano o è possibile riconoscerne l’origine italiana nonostante lo spelling sia stato ‘croaticizzato’. Tuttavia, la cosa più interessante per me è stato un brevissimo incontro, del tutto casuale, che ho fatto con un tassista del luogo, un signore che poteva avere tra i 60 e i 70 anni, un incontro che mi continua a dare la misura e la conferma di come il dolore e la sofferenza di cui ho parlato, e di cui hanno parlato e continuano a parlare tantissimi studiosi, non sono semplici esercizi intellettuali, ma esistono davvero ed hanno delle conseguenze molto serie nella nostra vita di tutti i giorni.
L’incontro è durato non più di una decina di minuti in auto. La conversazione con il tassista è iniziata in inglese, ma appena ha capito che ero italiana, siamo passati a parlare in italiano, anche se questo signore non lo parlava benissimo. Una delle prime cose che ha tenuto a dirmi, ripetendola due volte, è stata che lui era italiano perché sua madre era italiana e che nonostante i suoi documenti riportassero Pola come suo luogo di nascita, lui in realtà era nato a Trieste. Inoltre, nel momento in cui gli chiesi se quindi suo padre fosse invece croato, il tassista mi rispose su per giù con le seguenti parole:
“Ma sai, io non capisco perché dicano così, quando è nato mio padre, questo era territorio italiano e quindi lui era italiano. Io vedi, non lo so perché dicano così. Io sono nato a Trieste, ma nei documenti scrivono Pola, io non capisco. Dicono che è perché così le cose migliorano e invece non migliorano”.
Come ho detto, il tassista fiumano non parlava benissimo, ma dalla conversazione e dal tono della sua voce ho potuto capire che il fatto che in un modo o in un altro questa sua identità italiana non avesse potuto esprimersi del tutto, lo infastidiva, lo disturbava perché probabilmente avrà causato alla sua famiglia e a lui anche un certo grado di sofferenza. D’altra parte, visti i trascorsi storici di quelle zone, è molto plausibile credere che la sua famiglia o parte della sua famiglia abbia dovuto subire sofferenze significative. Questa mia interpretazione del suo brevissimo racconto è stata rafforzata da un’altra cosa che il tassista mi ha detto. Questo signore ha due nomi, il primo italiano e il secondo serbo-croato. Il nome italiano non l’ha mai usato e qui probabilmente si riferiva a quando era giovane, quindi, diciamo prima degli anni ’90. Ha poi aggiunto che, conseguentemente a questo, ha messo il suo nome italiano a suo figlio. Di nuovo, da come espresse questo aspetto, l’idea che mi sono fatta è che, negli anni di gioventù, il nome italiano era meglio non usarlo, almeno in pubblico, e, siccome probabilmente questo rappresentava un punto dolente, abbia dato il suo nome italiano al figlio in una sorta di tentativo di rivalsa.
Tralasciando i dettagli e i riferimenti storici, anche molto interessanti e utili pure ai fini di questa riflessione, il punto principale che vorrei sottolineare qui è che la necessità profonda che quest’uomo aveva di comunicare il suo disagio e la sua sofferenza a qualcuno che lo ascoltasse e che fosse interessato a capire, era molto chiara. In quelle poche frasi e attraverso l’intonazione e l’inflessione della voce, il tassista fiumano non mi stava solo raccontando dei fatti avvenuti, ma stava cercando di trasmettere lo stato d’animo con cui conviveva probabilmente da tantissimo tempo. Allora, mi sono resa conto ancora di più di come, in realtà, spesso neanche ci immaginiamo gli altri come possano stare davvero. Spesso pensiamo di essere gli unici, insieme forse a pochi altri, a provare dolore e sofferenza interiormente. Invece, nel momento in cui ci poniamo davvero in ascolto dell’altro, lo guardiamo e vediamo, stando in silenzio o, al massimo, ponendo domande per capire meglio quello che l’altro sta cercando di dirci, ci accorgiamo che dolore e sofferenza sono in realtà comuni a tutti, nessuno ne è esente.
E allora, quando leggo dello scoppio di vecchi e/o nuovi conflitti, quando leggo del protrarsi dei conflitti attuali fino a data da destinarsi, con il rischio che si allarghino sempre di più, mi chiedo: chissà se queste persone abbiano mai ricevuto ascolto nella loro vita? Chissà se ci sia qualcuno che adesso, in questo momento, li stia ascoltando davvero? E chissà come le cose cambierebbero se finalmente ci ascoltassimo tutti un po’ di più.
Riferimenti
Bonisoli, F. (2018a) ‘’68 e oltre. Il mondo chiama. Tra ideologia e realtà’. Available at: youtube.com/watch?v=IVw9d5yptFg.
Bonisoli, F. (2018b) ‘Speciale Soul – Meeting Rimini 2018 – Franco Bonisoli Ospite di Monica Mondo’. Available at: youtube.com/watch?v=sb5K5i4p-oQ.
Galtung, J. (1969) ‘Violence, Peace, and Peace Research’, International Peace Research Institute, Oslo, 6(3), pp. 167–191.
Gilligan, J. (2001) Preventing Violence. Thames Hudson.
Guzzi, M. (2011) Darsi Pace. Gruppi di liberazione interiore. 3rd edn. Paoline Editoriale Libri.
Pizzaballa, P. (2024) ‘Una presenza per la pace. Incontro inaugurale.’ Available at: https://www.meetingrimini.org/eventi-totale/una-presenza-per-la-pace-incontro-inaugurale/ (Accessed: 22 August 2024).
Rosenberg, M.B. (2003) Le parole sono finestre [oppure muri]. Introduzione alla comunicazione non violenta. Reggio Emilia: Edizioni Esserci (Dire, fare, comunicare).
Rosenberg, M.B. (2015) Nonviolent Communication: A Language of Life. 3rd edn. PuddleDancer Press.
Sclavi, M. (2003) Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte. Bruno Mondadori.
Sclavi, M. (2008a) An Italian Lady Goes To The Bronx. Ethnographic Study: A Humor-Based Methodology For City-Planners, Teachers, Sociologists and Administrators. IPOC, Pietro Condemi.
Sclavi, M. (2008b) ‘In Theory. The Role of Play and Humor in Creative Conflict Management’, Negotiation Journal, 24(2), pp. 157–180.
[1] Su questo punto sono molto interessanti gli studi che ha condotto Marianella Sclavi (e.g., 2003, 2008b, 2008a), antropologa, usando la psicologia di Gestalt per studiare il comportamento umano.
Grazie Giulia!
Ciao Giulia,
Mentre leggevo il tuo discorso mi si è accesa come una lampadina su, come dire, un “arco di circonferenza” di quel circolo vizioso che porta a ricorrere alla violenza dopo una serie di fallimentari tentate soluzioni.
Credo che la violenza sia anche alimentata da una componente di “esasperazione” nel constatare la propria incapacità di risolvere le situazioni problematiche, sia nel mondo materiale che nel mondo sociale.
E’ come se tanto più si provasse fallendo a risolvere un problema tanto più si alimenta una rabbia che giunge all’estremo tentativo di rimuovere ed eliminare il problema stesso.
La cosa che mi incuriosisce di questo circolo vizioso è che il dolore accumulato (e non smaltito attraverso un lavoro e un dinamismo di fede specifico) in un certo senso “instupidisce”: il dolore emotivo limita la capacità dell’intelletto di scorgere nel reale quei “dettagli” che se valorizzati potrebbero portare a una risoluzione dei problemi.
Trovo particolarmente interessante questo legame tra dolore e “stupidità” in quanto in un epoca che ancora esalta troppo l’importanza della ragione come “nemica” dell’emotività può essere usato come argomento per portare a capire l’importanza del lavoro interiore a chi pensa di poterlo saltare a piè pari poiché in grado di rivolgersi a una qualche pseudo-illuministica “ragione superiore”.
Grazie per il tuo articolo!
Questo intervento tocca una ferita aperta del nostro essere umani. Toccare questa ferita provoca un grande dolore e, di conseguenza, la necessità di lenire questo dolore, acuto, profondo e insopportabile ma allo stesso tempo onnipresente. Veniamo al mondo attraverso un atto doloroso, non a caso chiamato anche travaglio e, una volta concepiti i primi suoni che emettiamo sono urla, grida. Sembra un quadro sconvolgente e certamente lo è, e ancor più lo è stato nel passato, quando l’atto della nascita si accompagnava spesso alla morte della madre o del nascituro o di entrambi. L’atto del concepimento però è anche un atto di amore di ineguagliabile forza e bellezza, uno straordinario evento che si dipana durante il lungo arco della gestazione. Questo per dire di come è di quanto gioia e dolore siano inestricabilmente tra loro legati, di come senza l’uno non potessimo conoscere l’altro. Ma è davvero questa la natura umana? E’ davvero nel dolore che esiste la gioia? Oppure esiste un’altra possibilità! Noi ne siamo certi, così come certo è il limite temporale della nostra esistenza su questa terra. Forse sto divagando ma in noi coesistono questi due elementi e, nonostante ciò, nonostante tutte le sofferenze e le tragedie umane, noi continuiamo imperterriti a ricercare un percorso di liberazione e di compimento. Nasciamo, ovvero ci sentiamo scaraventati in questo mondo, e ne perdiamo via via consapevolezza, terrorizzati all’idea di dovere, prima o poi, fare i conti con la fine dei nostri giorni. Nella sublimazione di questa elementare e primordiale certezza costruiamo le nostre difese, costruiamo le nostre esistenze dentro recinti che pretendiamo possano proteggerci e, fatalmente, ci rinchiudiamo dentro castelli di solitudine, dimentichi degli altri.
Così quando qualcuno si avvicina viene trasformato in un pericolo, lo sconosciuto, nel senso di tutto ciò che non conosco o che ho dimenticato, e da cui bisogna difendersi, perché ci impaurisce il non sapere, a tal punto da non volerne sapere, e fino a desiderarne l’allontanamento, con qualsiasi mezzo, anche con la violenza. Ho probabilmente molto banalizzato ma se solo, come ha mirabilmente esposto Giulia, riuscissimo ad ascoltare o perlomeno ci impegnassimo a volerlo fare, forse scopriremmo che le nostre paure sono in tutto simili a quelle altrui e magari finiremmo col riconoscerci e quindi accoglierci. Prima però è necessario apprendere come ascoltare se stessi, come far tacere i mille e mille pensieri che affollano la nostra mente, per scoprire uno stato di silenzio dentro il quale possa risuonare la vita, lo spirito, l’anima che ci abita. Per trovare questo luogo di silenzio dobbiamo però imparare ad ascoltare tutti i rumori assordanti che ci invadono e nell’accettare, nell’accogliere ciò che vorremmo allontanare da noi, perché ci provoca dolore , compiremmo un passo importante verso una vera pace che, partendo da noi stessi possa irradiarsi anche agli altri. Nel “darsi pace” possiamo trasformare l’ esistente e la metafora e’ così racchiusa in questo intento che, in quanto riguardante me stesso e il mio Io, rappresenta un atto rivoluzionario a carattere permanente, si auspicato ma non ancora realizzato.
Quanto dolore ci doveva essere nei due adolescenti che hanno sterminato la loro famiglia?
Lo dicoenza nessun giustificazionismo nei confronti di chi ha commesso delitti di omicidio.
Probabilmente quei ragazzi non sono riusciti a far ascoltare il loro dolore ed i genitori, probabilmente nel dolore a loro volta, non sono riusciti a capire e quindi ascoltare il dolore dei figli.
Come dice il card. Pizzaballa a volte si può solo “esserci”, ma anche quello può non bastare, misteriosamente.
Grazie Giulia, un contributo molto intelligente e direi necessario, di questi tempi.
Leggendoti, mi torna in mente l’episodio che racconta Etty Hillesum nel suo diario, del soldatino tedesco che la apostrofava in modo rabbioso, tanto più quanto lei non mostrava di aveee paura (episodio che mi sembra anche Marco Guzzi ha citato). Mentre quello sbraitava Etty si chiedeva in cuor suo cosa gli avessero fatto perché fosse così, se aveva una fidanzata, se avesse sofferto per un abbandono…
Credo che questo sia andare alle radici della violenza. Come dici molto bene nel tuo ampio intervento, è anche affondare nel mistero della nostra sofferenza.
Significative per la mia esperienza di vita, le due riprese che fai, dal Meeting di Rimini. Quella parte più lontana dai riflettori, dove non spiccano i politici di turno, ma si apre ampia e senza steccati, la riflessione sull’umano. Una riflessione spesso di valore, che sarebbe una perdita non considerare.
Grazie.
Grazie, cara Giulia, questo tuo contributo tocca molto in profondità il rovello fondamentale al quale – come al legno della Croce – mi sento inchiodato misteriosamente sin da piccolo. Pur non avendo una storia personale o familiare di violenza politica e identitaria, credo la guarigione dei popoli sia per me sempre più una ragione di vita.
Con buon appoggio dello Spirito, sarà il nostro lavoro insieme in questa sede!
Un carissimo saluto,
Luca.
Grazie a tutti per i vostri commenti. Non riesco sempre a rispondere, ma leggo tutti gli interventi con piacere ed interesse. Vi ringrazio moltissimo per le vostre riflessioni che trovo interessanti e stimolanti e mi aiutano a continuare a riflettere su questi argomenti.
Un carissimo saluto,
Giulia