Durante l’intensivo di fine anno a Sacrofano, Marco Guzzi ha detto una frase che mi ha colpito molto: “Gli schiavi sono sempre di corsa”. Quando l’ho sentita, è stato come se qualcuno stesse dando finalmente nome a un sentimento che provo da tanto. Sono un’infermiera e lavoro in un reparto di riabilitazione: ogni giorno sento che nel sistema sanitario il tempo è qualcosa di molto prezioso, ma che manca sempre.
Il problema più grande negli ospedali, a mio avviso, è che il numero di pazienti per infermiere sta diventando costantemente più alto. C’è continuamente meno personale curante per molti pazienti che hanno sempre più necessità di cure “specifiche”. Questo sostanzialmente è quello che viene ripetuto ormai da anni, ma quando si fa notare ai propri superiori che il carico di lavoro è troppo elevato, la risposta è spesso la seguente: -sarà sempre peggio perché i pazienti diventeranno esponenzialmente più malati e anziani nei prossimi anni, siccome l’epidemiologia sta cambiando- e quindi in modo molto semplicistico: -bisognerà adattarsi-.
Queste affermazioni andrebbero davvero pensate e ripensate, invece spesso vengono dette in maniera molto superficiale, con un messaggio subliminale di fondo: accontentatevi, non c’è soluzione e questo è il migliore dei mondi possibili.
Non c’è spazio per la riflessione, non c’è spazio per chiedersi: “ma dove stiamo andando in questa società?”, “perché questi pazienti diventeranno sempre più malati e anziani?”, ma soprattutto: “quale sarà il ruolo di noi professionisti della salute (come ci chiamano), in questo cambio che si prospetta?”
Allora provo a darmi qualche risposta partendo da quello che avverto dentro di me: cioè, che la relazione con il mio paziente sia la cosa primaria affinché possa stargli vicino nella sua malattia. Il tempo però è sempre meno, il personale è letteralmente costretto a “correre” nel reparto, a dividersi tra più incarichi, facendo più cose alla volta. Ed è qui che penso e ripenso a quella frase: “Gli schiavi sono sempre di corsa”. Ci vogliono sempre di corsa, ci vogliono affannati e quindi sofferenti e distratti, perché chi è di corsa ad un certo punto perde anche sé stesso e la capacità di ascoltarsi dentro. Infatti, nei luoghi di lavoro si respira un’aria tesa, di scissione anche all’interno dei gruppi di lavoro e tra i colleghi. Io questa la trovo semplicemente una conseguenza della scissione interiore che inevitabilmente si rifletterà nel rapporto con l’altro. Questo perché, se dentro di me non ho il tempo di ascoltare le mille voci che mi assalgono costantemente e che si presentano solo in forma di emozioni che alla fine non capirò, entrando in relazione coi miei colleghi e talvolta purtroppo addirittura coi pazienti, non riuscirò a rivedermi nell’unità di un solo spirito e in comunione con l’altro. Al contrario, l’altro sarà “qualcosa da temere”, perché io schiava, vittima prima di tutto di me stessa, non saprò riconoscere in chi ho di fronte l’umanità che abita anche in me, fatta della mia storia, dei miei vissuti, delle mie paure e delle mie rabbie in un corpo anch’esso sofferente a tratti, perché il corpo provoca sempre qualche minimo fastidio, di cui forse quando siamo troppo di corsa, neanche ci accorgiamo.
È di questo che non si tiene conto quando si organizza la struttura sanitaria e il tempo negli ambienti di cura. Il ragionamento (riduzionista) che si fa è: “per fare questa azione su questo paziente ci vogliono tot minuti”.
Ma chi calcola i minuti per entrare con cautela, delicatezza e amore nell’universo di una persona che sta soffrendo? Qualcuno che ha bisogno di parole, accoglienza, ascolto e calore umano? Quelli che determinano questi calcoli, sono mai stati ad esempio, vicino ad un malato terminale? Lo sanno che molto spesso il dolore (anche quello fisico), passa con l’ascolto, passa con i gesti e non tanto con il farmaco? Gli pregherei di indicarmi quanti minuti vogliono conteggiare per tutto questo.
È invece possibile pensare ad un sistema che metta al centro la relazione umana, al posto di questi calcoli effimeri? È possibile stare accanto ai malati senza essere costantemente in affanno contando il tempo?
Perché, se è vero che gli schiavi sono sempre di corsa, è anche vero che curare l’altro è un gesto regale (cioè, degno di una regina e di un re), ma se lo vogliamo fare davvero, dobbiamo metterci in cammino per non essere più schiavi e cioè dominati dalle nostre paure e dal tempo che manca sempre.
Dobbiamo smettere di correre, dobbiamo fermarci, ri-prenderci il tempo che è prezioso, ma che va ripensato anch’esso, va valorizzato.
E cosa posso fare io ogni giorno? La risposta in cui credo è realizzare che io non sono schiava e non voglio esserlo, perché nel ruolo di infermiera ho una grande responsabilità: devo stare vicino ai malati. Se penso a Gesù che i malati li guariva, mi chiedo: possiamo provare anche noi a costruire un mondo di guarigione? Io credo di sì e con molta umiltà vorrei testimoniare che ne ho avuta la prova tutte le volte che semplicemente mi sono seduta di fianco ad un mio paziente e l’ho ascoltato. Subito il suo umore è cambiato, perché gli esseri umani, a mio avviso, sostanzialmente cercano una cosa: consolazione. Con questo non nego l’importanza della scienza e della medicina, ma penso che la somministrazione di un farmaco senza l’accompagnamento di un gesto amorevole, abbia molto meno effetto, mentre al contrario, porgere una terapia assieme alla vicinanza umana sarà essa stessa l’inizio della cura.
E per fare questo devo prendermi cura prima di tutto di me stessa, e tutti i giorni della mia interiorità. Tutti i giorni devo realizzare innanzitutto che io non sono schiava e che posso provare a diventare regina. Posso trovare quella luce in me e donarla, come recita la preghiera che ci ha consegnato Marco Guzzi:
“Fa’ che io possa portare guarigione
e illuminazione a tutti.
Così la nostra gioia sarà piena.
Amen”.
Grazie, cara Sana, per aver composto e condiviso questo post ai miei occhi molto prezioso.
È da tempo che vado pensando che due sono le radici di base del male occidentale: la velocità e il profitto indiscriminato fine a sé stesso. A suo tempo avevo aggiunto anche la visibilità, ma poi questa idea l’ho riveduta.
Il tuo racconto mi ha richiamato alla memoria un episodio che vissi in prima persona qualche anno fa in SPDC (psichiatria) e che mi colpì molto.
C’era una ragazzina che stava piangendo disperata; un medico (anzi, una dottoressa) le si avvicina e le dice: “O la fai finita di piangere oppure sono costretta a legarti al letto e a contenerti”.
Quale amarezza non aver potuto fare né dire niente di fronte a certe ingiustizie!
Il sistema sanitario attuale è una pura e semplice macchina infernale; profondamente afflitta da sclerocardia.
Sì, ci dobbiamo curare – come ci ricorda sempre anche lo stesso Marco; e pure alla svelta, oserei dire io.
Dobbiamo curare il cuore.
Perché siamo, allegoricamente parlando, come cultura, nella ghiaccia di Cocito dantesca; mossa dalla grande macchina diabolica. O, detto in altri termini, siamo nel deserto.
Bisogna quindi gridare; e farsi sentire.
Perché temo che se non passiamo dapprima dallo step del grido, le cose non cambieranno con l’urgenza con cui avrebbero bisogno di essere cambiate.
Dico questo perché vedo ancora nello stesso sistema sanitario un’acritica passività e una ligiosità alla legge (“Ma tanto è così!”, “Questa è la legge! Che ci vuoi fare” – quale legge, scusa??) che fanno paura.
Ma quel che è certo è che la Nuova Umanità spazzerà via tutto questo SCHIFO!
Grazie di nuovo di questo dono prezioso.
A te ogni bene,
Simone
Grazie cara Sana, grazie per questo delicato ed equilibrato racconto. Un equilibrio tra cura di sé e cura degli altri, nelle tue parole: quell’equilibrio che il mondo esterno ha perso, come ben denunci – con precisione e senza acredine. Ma vedere le cose dalla prospettiva giusta è già un sollievo, è già un inizio di cura: perché si esce dalla confusione. Si vede chiaro, e senza chiarezza di vista nessuna ferita può essere curata, nessun chirurgo accetterebbe di operare.
In queste settimane che ho a che fare con il Servizio Sanitario Nazionale, per l’accudimento di mia mamma dopo una operazione, sento e avverto la piena verità di quanto dici. È ancora un pericoloso riduzionismo, ampiamente sconfessato dalla scienza, che ci trasforma in macchine costringendoci a violentare la nostra umanità, a creare contrapposizioni di bassa energia, dottori vs pazienti, infermieri vs medici, etc…. Tutto si separa da tutto a bassa energia, lo dice anche la fisica. Denunciarlo è già un inizio di respiro.
E trovo bellissimo l’accenno che fai, alla consolazione.
Come non pensare alla bellissima poesia di Guzzi, che apre il volume Facebook?
“Non abbiamo bisogno di molto altro / ma solo di infinita consolazione”
È proprio così.
Guardare negli occhi ed ascoltare chi parla è un atteggiamento che sostiene ed incoraggia l’interlocutore.
Se poi vengono proposte soluzioni ai suoi problemi o ancor di più cure per i suoi mali credo che la sostanza dell’essere umano si incarni in questo scambio di aiuto e gratitudine. Quando accade la soddisfazione è massima !
Non capisco come sia possibile non vedere questa realtà e , anche con tutti gli ostacoli del caso, realizzarla .
Più persone vivranno in questi principi e li avvaloreranno con atti concreti più il loro opposto sarà stridente e inaccettabile agli occhi di chi assiste spesso inerte.
Grazie Sana e Simone che mi ricordate quanto sia importante vivere questo ogni Santo Giorno !