Il monachesimo storicamente è nato per poter vivere in modo radicale il messaggio del Vangelo dopo che l’impero romano, con Costantino, smise di perseguitare la nuova fede. Naturalmente, il monachesimo c’era anche prima di Costantino: però dopo il 313 divenne una scelta di uno stile di vita che differenziava il monaco da tutti coloro che rimanevano a vivere “nel mondo”. I monaci dunque andavano a cercare luoghi estremi per poter vivere la loro rinuncia al mondo e la loro adesione radicale al Cristo. Poi il monachesimo, da Sant’Antonio in poi, ha avuto diverse trasformazioni e una lunga storia che qui non trattiamo.
Quella che invece vorrei sostenere è la seguente tesi: oggi, dopo che ci siamo introdotti nel III millennio dell’era cristiana, il monachesimo rimane una scelta forte e radicale ma non può più essere una scelta differenziante, fra chi rimane nel mondo e chi ne esce. Oggi tutti i battezzati sono chiamati a vivere, personalmente e comunitariamente, una forte dimensione monastica, pur non uscendo dal mondo ma, anzi, realizzando quella Parola che dice: “Essi sono nel mondo… ma non sono del mondo” (Gv 17). Si tratta di quello che alcuni hanno chiamato: un monachesimo nelle città, oppure altri: un monachesimo interiorizzato.
In tale monachesimo si tratterebbe di realizzare non l’aspetto del mònos in quanto persona solitaria, cioè celibataria o verginale, sottoposta a una precisa regola. Come si è scritto sopra, il monachesimo deve diventare la chiamata per tutti e non solo per i celibi e le vergini. In fin dei conti, prima di Costantino, tutti i cristiani, pastori e popolo, celibi e sposati, rischiavano la vita a essere cristiani. Così anche adesso tutti, pastori e popolo, celibi e sposati, sono chiamati a rischiare la vita vivendo come monaci: si tratterebbe allora di realizzare l’aspetto del mònos in quanto persona unificata e unita, cioè che in se stessa, con Dio, con gli altri e con tutto il creato tende a essere-uno.
Di fronte al dilagare nel mondo dello spirito della competizione e della contesa, del conflitto, della divisione e della guerra, tendere a realizzare nella propria vita l’essere-uno è già un segno della Nuova Umanità, del Regno di Dio.
Avere detto che il battezzato-monaco del III millennio ha da vivere come un uno significa già cominciare a caratterizzarne la spiritualità.
Essa ha da avere un tratto fortemente contemplativo, tale da realizzare una profonda unità con Cristo e in Cristo. Ma questo, si dirà, è un tratto comune a tutti i monachesimi e agli ordini contemplativi, che lo hanno poi espresso in varie modalità: per esempio come mistica sponsale, tanto per ricordare quella forse più diffusa, almeno nella chiesa in occidente. Cristo come vero e unico sposo, dunque.
Qui, senza nulla togliere a questa modalità sponsale della mistica che tanta eccellente santità ha prodotto, ma volendo invece darle una maggiore profondità, vogliamo specificare un’altra modalità della dimensione contemplativa. E cioè: se l’essere-uno è segno della Nuova Umanità e del Regno di Dio, come scritto sopra, la mistica monastica che ne deriva non può che essere una mistica con un forte accento apocalittico-escatologico.
Cioè: l’uomo nuovo che il monaco del III millennio ha da realizzare in sé è anche l’ultimo uomo, ὁ ἔσχατος Ἀδὰμ, l’eschatos Adam, come lo chiama Paolo (1Cor 15,45: in quel capitolo Paolo parla anche di uomo spirituale e di uomo celeste!). Il battezzato-monaco ha da vivere questa ultimità del proprio essere, offrendo tutto sé stesso allo Spirito Santo affinché venga trasformato in Cristo, affinché lo cristifichi, lo divinizzi e dunque realizzi in lui la parousìa-presenza del Signore Gesù, senso della storia e Sposo dei secoli.
Da ciò deriva anche una intensa attività profetica e missionaria: profetica, perché tale battezzato-monaco ha da mostrare l’evidenza della insostenibilità suicidaria e omicidaria dei sistemi di “questo mondo” e il loro essere realtà solo penultime e ormai allo stadio terminale (e questa è anche la dimensione “apocalittica” di tale monachesimo); missionaria, perché l’intero cosmo deve essere restituito all’armonia originaria attraverso la ricapitolazione di tutte le cose in Cristo (Ef 1,10) e su tutto il mondo e la storia si deve irradiare la grazia di Dio che altro non è se non il Suo Regno.
E questo vuol dire dare alla storia un senso molto preciso: è vero che il senso storico è nato col cristianesimo. Però qui si tratta di un senso storico del tutto particolare: e cioè, dopo la resurrezione di Cristo è avvenuta una cesura nella storia, per cui la storia dell’umanità è, in certo senso, già finita e si sta assistendo alla sua sempre più accelerata consumazione. Perché ormai tutto è attratto verso la vera e ultima realtà del Regno di Dio e tutto ciò che non sarà congruo con la logica del Regno sarà spazzato via, a una velocità sempre più vorticosa.
La missionarietà ha dunque anche lo scopo di inaugurare un nuovo avvio della storia umana, che permetta alle persone di appartenere alla Realtà ultima e di lasciarsi trasformare da essa.
In questa prospettiva escatologica della missione, grande importanza riveste anche la comunione dei santi, la cui presenza e azione inonda di grazia la vita della chiesa e dei cristiani.
Se vogliamo formulare una prima conclusione si potrebbe dire: qualunque visione unilateralmente immanentista e che escluda qualsiasi riferimento al trascendente e al Mistero come Fonte vera della vita e dell’amore, va esclusa dal nuovo processo di formazione della Nuova Umanità, in quanto visione contro l’integrità della Verità e, alla fine, contro anche la persona umana e la sua piena realizzazione.
Gli strumenti per vivere questa mistica escatologica del battezzato-monaco del III millennio sono gli strumenti tradizionali: il silenzio, la meditazione, la preghiera, l’ascolto della Parola, il discernimento spirituale e l’ascesi.
Una parola sull’ascesi.
L’ascesi in uno stile di vita monastico è necessaria a causa della serietà del peccato: il peccato non è solo una stortura psicologica ininfluente sull’equilibrio interiore dell’uomo. Esso invece è un vulnus inferto all’essere, che immette un grado di disordine, di distorsione a livello della persona, del cosmo e della storia. Tale disordine è dato dal fatto che il peccato è prima di tutto uno stato dell’essere: uno stato in cui l’essere creato (l’uomo) si separa dalla stessa Fonte del suo essere ed è così che trova la morte, trascinando con sé tutta l’opera di Dio.
Questo disordine riguardando l’essere non può essere rimediato da una semplice azione, né da nessun moralismo o obbedienza alla Legge. E’ stato rimediato solo dalla Incarnazione, Passione, Morte e Resurrezione del Figlio di Dio, il Cristo Gesù. La nostra salvezza consiste, come scritto sopra, nell’offrire il proprio essere allo Spirito Santo affinché avvenga la propria “cristificazione” e, attraverso essa, la ricapitolazione di tutte le cose nel Cristo.
Fa parte di questa assimilazione al Cristo la morte iniziatica del principio che ha operato la separazione da Dio: cioè la morte dell’ego, il suo spengimento o estinzione. Finché siamo in questa vita l’ego, questo stato di Io separato, è il nostro stato ordinario e naturale: per cui è necessaria una continua lotta, un continuo combattimento spirituale, per far morire in sé l’ego e far nascere e crescere l’Uomo Nuovo in Cristo.
Questa morte continua dell’ego è appunto l’ascesi: essa è la dissoluzione della philautìa, dell’amore di sé, come lo chiamavano gli antichi. Quell’amore di sé e non di Dio che ci fa separare da Lui e che poi determina tutte le “malattie” spirituali, i “pensieri malvagi” o loghismòi: la gola, la lussuria e l’avarizia-avidità della parte concupiscibile dell’anima; l’accidia, la tristezza e l’ira della parte irascibile; la vanità e l’orgoglio-superbia della parte razionale. Dissolvendo l’Io separato e il suo amore di sé, l’anima guarisce dalle sue malattie e si ricostituisce in essa l’armonia originaria. L’ascesi è dunque la premessa sempre necessaria e inevitabile della mistica: solo facendo morire l’Io separato e malato, solo cioè vivendo ogni giorno e ogni momento la propria croce, possiamo riappropriarci dell’immacolata condizione originaria, perduta con la colpa, e poi far sì che tale condizione di natura venga trasformata e trasfigurata cristicamente.
In questo modo, cioè concorrendo per quanto ci compete alla vittoria della Luce sulle Tenebre, possiamo tornare a contemplare il creato come teofania di Dio e Dio come presenza trasfigurante in tutti i ritmi della creazione.
La stessa dinamica viene realizzata nella pratica della meditazione e contemplazione.
A questo proposito c’è da osservare che anche il mistico cristiano, come il buddista e il taoista, è attento alla impermanenza delle cose, alla caducità di ogni forma e sostanza, alle minacce della dissoluzione e dell’annullamento dell’essere. Ma una cosa è considerare tutto ciò come la legge normale dell’essere e proporre come termine della meditazione la vacuità dell’essere, al fine di ritrovare il Vuoto primordiale. Altra cosa è sperimentare il vuoto come ferita, come conseguenza di quel vulnus inferto all’essere dal peccato, come il risultato di una impresa satanica e distruttrice che occorre combattere affinché l’essere sia restaurato nella sua integrità (“Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra. La giustizia infatti è immortale. Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura. Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono” Sap 1,13-15; 2,23-24).
In questo caso, la pratica della meditazione vuole attuare una continua e rinnovata “rinuncia” come avviene nelle promesse battesimali: “Rinuncio al peccato… al male… a satana…”, e quindi ha come termine spengere, svuotare, liquidare tutto ciò che è inscritto in tale ferita dell’essere, in vista del fatto, nella contemplazione, di restaurare e reintegrare ogni cosa nella sua purezza e pienezza originaria: ciò è anche il senso della escatologica restaurazione di tutte le cose in Cristo.
Per realizzare questa trasformazione del battezzato in monaco del III millennio, anche la struttura della chiesa dovrà essere profondamente riformata: non più una organizzazione fondata su diocesi e parrocchie, la cui origine storica risale addirittura all’impero romano; ma una rete di centri spirituali dove imparare l’arte ascetica della guarigione dell’anima e l’arte mistica dell’assimilazione di sé al Cristo, Uomo Nuovo e Ultimo. Non basterà più la semplice appartenenza alla chiesa mediata dai sacramenti: anche perché i sacramenti ritorneranno ad essere quello che sono e cioè realtà in cui Dio stesso si dona, trasformando l’essere dell’uomo e del cosmo e dando la grazia necessaria alla vita quotidiana. Vescovi e preti conserveranno il munus di santificare i fedeli e di indicare loro l’ortodossia, ma questo non sarà più un “potere” ma un servizio. I battezzati-monaci saranno ognuno chiamati ad arricchire l’attività di questi centri spirituali attraverso le loro competenze culturali, artistiche, sociali e economiche, in una realtà che sempre più dovrà diventare una realtà di comunione.
Naturalmente affinché la comunione sia autentica e non il solito sforzo retorico dell’Io (che poi, essendo un Io separato, non può fare comunione!) bisogna che il livello iniziatico, cioè ascetico-mistico, sia al cuore della vita personale e comunitaria dei credenti.
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