Vivo calata profondamente in mezzo ai poveri, ai malati, a quelli che nessuno ama.Io impazzisco per i brandelli di umanità ferita, più son feriti, maltrattati, più di nessun conto agli occhi del mondo, più io li amo. Questo non è un merito, è un’ esigenza della mia natura.
Annalena Tonelli, missionaria laica uccisa il 5 ottobre del 2003 in Somalia, è una dei testimoni più significativi del nostro tempo. Nel video alcuni momenti di un evento tenutosi a Forlì pochi mesi prima della sua morte. Di seguito stralci della testimonianza resa in Vaticano ad un convegno sul volontariato nel dicembre 2001.
Scelsi di essere per gli altri, i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati che ero una bambina, e così sono stata e confido di continuare a essere fino alla fine della mia vita. Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri in Lui. Per Lui feci una scelta di povertà radicale, anche se povera come un vero povero, i poveri di cui è piena ogni mia giornata, io non potrò essere mai.
Impegnata fin da giovane nell’assistenza ai diseredati nella sua città natale, Forlì, Annalena nel 1969 sceglie di lasciare tutto e di partire.
Lasciai l’Italia a gennaio del 1969. Da allora vivo a servizio dei Somali. Sono trent’anni di condivisione. Partii decisa a gridare il Vangelo con la vita sulla scia di Charles de Foucauld, che aveva infiammato la mia esistenza. Trentatre anni dopo grido il Vangelo con la mia sola vita e brucio dal desiderio di continuare a gridarlo così fino alla fine. Questa la mia motivazione di fondo assieme ad una passione invincibile da sempre per l’uomo ferito e diminuito senza averlo meritato al di là della razza, della cultura, e della fede.
Vivo calata profondamente in mezzo ai poveri, ai malati, a quelli che nessuno ama.
Luigi Pintor, un cosiddetto ateo, scrisse un giorno che non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi.
Così è per me. E’ nell’inginocchiarmi perché stringendomi il collo loro possano rialzarsi e riprendere il cammino o addirittura camminare dove mai avevano camminato che io trovo pace, carica fortissima, certezza che TUTTO è GRAZIA.
Annalena giunge a Wajir nel deserto a nord-est del Kenya, vicino al confine con la Somalia, come insegnante. Vede la gente morire di fame a causa di una terribile carestia: «esperienze così traumatizzanti da mettere in pericolo la fede». Si adopera a favore dei profughi della Somalia e di una tribù di nomadi del deserto minacciata di genocidio.
Al tempo del massacro, fui arrestata e portata davanti alla corte marziale. Le autorità, tutti non Somali, tutti cristiani, mi dissero che mi avevano fatto due imboscate a cui ero provvidenzialmente sfuggita, ma che non sarei sfuggita una terza volta, poi uno di loro, un cristiano praticante, mi chiese che cosa mi spingeva ad agire così. Gli risposi che lo facevo per Gesù Cristo che chiede che noi diamo la vita per i nostri amici.
Per la sua opera a favore dei rifugiati e perseguitati viene deportata e quindi espulsa dal Kenia.
Nel 1984 il governo del Kenya tentò di commettere un genocidio a danno di una tribù di nomadi del deserto. Avrebbero dovuto sterminare cinquantamila persone. Ne uccisero mille.
Io riuscii a impedire che il massacro venisse portato avanti e a conclusione. Per questo un anno dopo fui deportata. Tacqui nel nome dei piccoli che avevo lasciato a casa e che sarebbero stati puniti se io avessi parlato. Parlarono invece i Somali con una voce e lottarono perché si facesse luce e verità sul genocidio.
La lotta porta il governo keniano ad ammettere pubblicamente, dopo 16 anni, le sue responsabilità.
E oggi molti dei Somali che avevano remore contro di me mi hanno accettato e sono diventati miei amici. Oggi sanno che ero pronta a dare la vita per loro, che ho rischiato la vita per loro.
Ora io ho esperimentato più volte nel corso della mia ormai lunga esistenza che non c’è male che non venga portato alla luce, non c’è verità che non venga svelata. L’importante è continuare a lottare come se la verità fosse già fatta e i soprusi non ci toccassero, e il male non trionfasse. Un giorno il bene risplenderà. A DIO chiediamo la forza di saper attendere, perché può trattarsi di lunga attesa anche fino a dopo la nostra morte. Io vivo nell’attesa di DIO e capisco che mi pesa meno che ad altri, l’attesa delle cose degli uomini.
Annalena si trasferisce in Somalia: è a Mogadiscio agli inizi del 1991, nei momenti più drammatici della caduta di Siad Barre. Dopo Mogadiscio si stabilisce a Merka ad occuparsi di tubercolotici.
Il mio primo amore furono i tubercolosi, la gente più abbandonata, più respinta, più rifiutata in quel mondo. Quello che più spaccava il cuore era il loro abbandono, la loro sofferenza senza nessun tipo di conforto.
Subito cominciai a studiare, ad osservare, ero ogni giorno con loro, stavo accanto a loro quando si aggravavano e non avevano nessuno che si occupasse di loro, che li guardasse negli occhi, che infondesse loro forza. Dopo qualche anno, nella T.B. Manyatta (villaggio) ogni malato consapevole di essere alla fine, voleva solo me accanto per morire sentendosi amato.
Rimane a Merka finché diventa impossibile rimanere senza pagare una tangente o subire il ricatto di qualche gruppo armato. Decide di andarsene, torna in Italia per un anno “sabbatico” che trascorre in un eremo.
Nel 1996 è di nuovo in Somalia, a Boroma, al confine con l’Etiopia: crea un centro anti-tubercolare d’avanguardia e promuove molteplici iniziative collaterali (la scuola per sordomuti, la campagna contro le mutilazioni genitali femminili, un progetto di sensibilizzazione sul problema dell’Aids, assistenza ai malati mentali…).
Annalena si batte per combattere le malattie ma anche i pregiudizi e l’ignoranza che le accompagnano.
La tubercolosi è parte della gente, della sua storia, della sua lotta per l’esistenza. Eppure la tubercolosi è stigma e maledizione: segno di una punizione mandata da Dio per un peccato commesso, aperto o nascosto. A Borama continua la lotta ogni giorno per la liberazione dall’ignoranza, dallo stigma, dalla schiavitù ai pregiudizi. Ogni giorno discutiamo con loro di ciò che li tiene schiavi, infelici, nel buio. E loro si liberano, diventano felici, sono sempre più nella luce.
Nel centro T.B. abbiamo aperto scuole per gli ammalati e i loro amici: una scuola di Corano, una scuola di alfabetizzazione, una scuola di lingua Inglese. Gli ammalati arrivano a noi come esseri mortificati, sofferenti, impauriti, calpestati, infelici.Nella ‘scuola’ acquistano fiducia, non hanno più paura.
Prima non sapevano né leggere né scrivere, non sapevano quasi nulla della loro religione, ora sanno, la conoscono in traduzione, imparano a capire e ad apprezzare i valori universali del bene, della verità, della pace, dell’abbandono in DIO: “Allah ha dato, Allah ha tolto, sia benedetto il nome di Allah”, imparano ad affrontare la sofferenza fisica e la morte, a non temerle, non rifiutarle, ad accettarle: ALLAH c’è! ALLAH sa, conosce, guida.
La scuola per bambini sordi è l’inizio di un’esperienza entusiasmante: una scuola aperta a tutti in cui le diverse provenienze e capacità sono risorse.
Ma veniamo alla scuola dei bambini sordi.Nessuno qui lo credeva possibile. Oggi tutti sanno che non c’è nulla che un bambino sordo non possa fare eccetto che udire.
Nel frattempo, i primi bambini tbc guariti e dimessi volevano continuare ad imparare ma molti di loro non avevano il danaro per pagare le tasse scolastiche. E fu così che decidemmo di accoglierli in classe assieme ai bambini handicappati….
Da due anni abbiamo accolto trenta bambini appartenenti ad un clan disprezzato dei Somali….
Poi anche alcuni intellettuali ealcuni ricchi sono venuti a chiederci di accogliere i loro figli nella nostra scuola perché è una scuola seria, i maestri sono impegnati, amano i bambini, amano l’insegnamento, e noi abbiamo deciso di accettarli…..
Oggi la scuola è una bellissima mescolanza di bambini di ogni provenienza, di ogni storia, di ogni capacità, ed è questa una delle esperienze più consolanti, più incoraggianti, più capaci di donare speranza in un mondo in cui gli uomini vorranno essere e saranno una cosa sola.
Questo dell’UT UNUM SINT è stata ed è l’agonia amorosa della mia vita, lo struggimento del mio essere. Ed è una vita che combatto perché gli uomini siano una cosa sola.
Una scuola di pace.
Ogni giorno al TB Centre noi ci adoperiamo per la pace, per la comprensione reciproca, per imparare insieme a perdonare. Ogni giorno noi lottiamo per comprendere e far comprendere che la colpa non è mai da una sola parte ma da ambedue le parti, noi ci guardiamo in faccia, negli occhi, perché vogliamo che si faccia la verità.
Questo instancabile lavoro le attira l’odio dei settori più tradizionalisti della società e degli estremisti islamici. Annalena riceve minacce ma non se ne cura.
Non ho paura, e anche questa è una cosa che non mi sono data. Sono stata in pericolo di vita, mi hanno sparato, picchiata, sono stata imprigionata, ma non ho mai avuto paura.
Pur in un clima di diffidenza e aperta ostilità, Annalena non cade vittima di generalizzazioni, resta sempre capace di distinguere: la popolazione, gente semplice che pratica un islam moderato, dai gruppi di fanatici estremisti, spesso finanziati e indottrinati dall’esterno. E conserva un cuore veramente povero, un cuore sempre aperto ad accogliere l’altro e a ricevere dall’altro.
Ma il dono più straordinario, il dono per cui io ringrazierò DIO e loro in eterno e per sempre, è il dono dei miei nomadi del deserto. Musulmani, loro mi hanno insegnato la fede, l’abbandono incondizionato, la resa a Dio, una resa che non ha nulla di fatalistico, una resa rocciosa e arroccata in Dio, una resa che è fiducia e amore. I miei nomadi del deserto mi hanno insegnato a tutto fare, tutto incominciare, tutto operare nel nome di Dio, nel nome di DIO Onnipotente e Mi-sericordioso.
La consuetudine del nome di DIO ripetuto incessantemente che già aveva sconvolto e affascinato la mia vita con i racconti del pellegrino russo prima della mia partenza, ha trasformato la mia vita permanentemente. Rendo GRAZIE ai miei nomadi del deserto che me l’hanno insegnato.
Da quando sono con loro, sono trent’anni che io mi struggo perché anche nel nostro mondo noi fermiamo i lavori, ci alziamo se dormiamo, interrompiamo qualsiasi discorso per fare silenzio e ricordarci di DIO, meglio se assieme ad altri, per riconoscere che da LUI veniamo, in LUI viviamo, a LUI ritorniamo.
Annalena ci testimonia che le religioni non sono un terreno di scontro se a prevalere è l’amore e il rispetto per l’uomo.
Quella della T.B. Manyatta fu una grande avventura d’amore, un dono di DIO. Fu grazie alla T.B. Manyatta che la gente cominciò a dire che forse anche noi saremmo andate in Paradiso.
Per cinque anni ci avevano sbattuto in faccia che noi non saremmo mai andate in Paradiso perché non dicevamo: “Non c’è DIO all’infuori di DIO e Muhamad è il suo profeta”. Poi successe un episodio grave che mise a rischio la nostra vita e allora la gente cominciò a dire che sicuramente anche noi saremmo andate in Paradiso. Poi cominciammo a essere portate come esempio. Il primo fu un vecchio capo che ci voleva molto bene … “Noi Mussulmani abbiamo la fede -ci disse un giorno- e voi avete l’amore”.
Fu come il tempo del grande disgelo. La gente diceva sempre più frequentemente che loro avrebbero dovuto fare come facevamo noi, che loro avrebbero dovuto imparare da noi a CARE per gli altri, in particolare per quelli più malati, più abbandonati.
Diciassette anni dopo, subito dopo il massacro di Wagalla, un vecchio arabo mi fermò al centro di una delle strade principali del povero villaggio, profondamente commosso perché in mezzo ai morti c’erano suoi amici, perché mi aveva visto quando mi avevano picchiato, sorpresa a seppellire i morti, mentre lui aveva avuto paura e non aveva fatto nulla per salvare i suoi, invece io avevo tutto osato per salvare la vita dei loro che erano diventati miei, e gridò perché voleva essere sentito da tutti: “Nel nome di Allah, io ti dico che, se noi seguiremo le tue orme, noi andremo in Paradiso”.
A Borama, dove vivo oggi, la gente prega intensamente perché io mi converta al mussulmanesimo. Me ne parlano spesso ma con delicatezza, aggiungono sempre che comunque DIO sa ed io andrò in Paradiso anche se rimarrò cristiana. Non vogliono che io mi senta ferita. E poi cercano di farmi sentire ‘assimilata’ a loro, vicinissima. Mi raccontano ogni hadith in cui il profeta Muhamad sulle orme di Issa, Gesù, mangiava con i lebbrosi nello stesso piatto, aveva compassione dei poveri, mostrava amore per i piccoli.
In senso molto più lato, il dialogo con le altre religioni è questo. E’ condivisione. Non c’è bisogno quasi di parole. Il dialogo è vita vissuta, meglio se, almeno io lo vivo così, senza parole.
Testimoniare il vangelo è farsi pane sulla mensa degli uomini.
La vita mi ha insegnato che la mia fede senza l’amore è inutile, che la mia religione cristiana non ha tanti comandamenti, ma ne ha uno solo, che non serve costruire cattedrali o moschee, né cerimonie, né pellegrinaggi…, che quell’Eucaristia che scandalizza gli atei e le altre fedi racchiude un messaggio rivoluzionario: “Questo è il mio corpo fatto pane perché anche tu ti faccia pane sulla mensa degli uomini, perché, se tu non ti fai pane, non mangi un pane che ti salva, mangi la tua condanna!”. L’Eucaristia ci dice che la nostra religione è inutile senza il sacramento della misericordia, che è nella misericordia che il cielo incontra la terra...
Vorrei aggiungere che i piccoli, i senza voce, quelli che non contano nulla agli occhi del mondo, ma tanto agli occhi di Dio, i suoi prediletti, hanno bisogno di noi, e noi dobbiamo essere con loro e per loro e non importa nulla se la nostra azione è come una goccia d’acqua nell’oceano. Gesù Cristo non ha mai parlato di risultati. Lui ha parlato solo di amarci, di lavarci i piedi gli uni gli altri, di perdonarci sempre… I poveri ci attendono. I modi del servizio sono infiniti e lasciati all’immaginazione di ciascuno di noi. Inventiamo… e vivremo nuovi cieli e nuova terra ogni giorno della nostra vita!
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