Sette musulmani europei su dieci sostengono di digiunare durante il mese del Ramadan, il 60 per cento in più rispetto a 10 anni fa, mentre tra i cattolici è un problema rinunciare alla fettina persino nel giorno del Venerdì Santo. Ogni cento musulmani 32 si dichiarano credenti, ogni cento cattolici appena 16. Ma il dato più singolare, perché segna la tendenza dei prossimi anni, è quello sull’età: mentre nelle chiese crolla la presenza dei giovani, i più attivi nelle moschee sono proprio i fedeli che hanno tra i 15 e i 34 anni.
Il quadro emerge da una recente indagine dell’Ipsos, che dal 1989 al 2009 ha studiato le abitudini e i comportamenti nell’Islam europeo, di fatto ormai la seconda fede del Vecchio Continente. Cifre che fanno riflettere. E che pongono molte domande. Soprattutto a chi islamico non è. E che magari, come tanti islamici, vive il bisogno forte di un rapporto intimo e profondo con Dio.
Certo, la tara va fatta: il fervore religioso nell’islam europeo riflette un bisogno di identità, soprattutto per tanti extracomunitari ancora in cerca di una vera integrazione. Pregare insieme, digiunare insieme è una prova di forza, una sfida al mondo moderno vissuto come forte nel senso di ostilità ma debole nelle certezze, un modo per contarsi e rinsaldare i legami di protezione reciproca. E sul versante opposto, come sottolinea un recente intervento dello scrittore Pascal Bruckner, sul Domenicale del Sole 24 ore, “per molti cattolici il Ramadan è una delle molte manifestazioni di arretratezza, una sofferenza inutile che milioni di uomini e donne si auto-infliggono per segnare la propria differenza”. Per non parlare del sospetto che spesso l’Islam suscita in chi ha a cuore le conquiste consolidate delle democrazie laiche europee, dai diritti della donna alla libertà di espressione.
Tutto vero. Eppure. Eppure oltre a cercare ragioni sociologiche e a diffidare, un cattolico o un protestante non possono fare a meno di guardare con stupore allo coerenza con cui i musulmani osservano le pratiche della loro religione, sia quelle legate al cibo nei giorni prescritti sia quelle previste per le preghiere quotidiane e per gli obblighi in genere del Corano. Una disciplina che non trova neppure un pallido riscontro tra le file dei battezzati. E domandarsi: perché persino tra quei pochi che hanno scelto di vivere la fede cattolica con impegno è così difficile trovare la costanza quotidiana della fede che nel mondo islamico erompe anche tra persone molto semplici e prive di particolare vocazione mistica? Perché persino tra chi cerca un rapporto più complesso con la spiritualità (come i gruppi di Darsi Pace in cui si sperimentano pratiche meditative e autoconoscitive da esercitare con continuità) è così difficile trovare un quarto d’ora al mattino per mettersi in silenzio e meditare?
Audalla Conget, ex monaco cistercense convertito all’Islam e ora segretario della Giunta islamica di Spagna, nel 2006 scrisse una lettera a Benedetto XVI in risposta al celebre discorso di Ratisbona sulla violenza congenita dell’Islam: “Critichi la nostra fede per dissimulare la tua profonda ammirazione per la nostra intensa e perseverante adorazione. Una fede incrollabile che ti spinge a chiederti, senza portare risposte convincenti, perché siano così pochi i musulmani che si convertono al cattolicesimo. E perché tanti di coloro che sono stati attivamente cristiani in seno alla Chiesa riconoscono nell’Islam il nostro vero posto nel cosmo. In verità , è molto doloroso vedere, quando si è cristiani, le moschee riempite ogni venerdì di uomini e donne di ogni età, la fronte spinta al suolo nel più sincero atteggiamento di accettazione della volontà di Dio. Il fatto che si tratti soprattutto di uomini in maggioranza giovani è qualcosa che richiede attenzione. Vedere le chiese vuote, a eccezione di poche donne anziane disseminate fra i banchi, ha qualcosa di molto doloroso”.
Già, non è che dietro la nostra comprensibile e ragionevole diffidenza verso i precetti del Corano, sotto sotto, noi credenti impigriti nutriamo un po’ di invidia per i fratelli islamici? Perché ci pesa così tanto dedicare alla meditazione almeno una piccola parte di quel tempo che ci viene naturale passare su Internet, al telefono o davanti al televisore?
M.C.
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