“Mamma, parliamo. Comincia tu”
“Le serviva una voce che l’attirasse nell’avventura della lingua, in quell’infinita interminabile seduzione che è la parola umana. Non si comincia così a parlare? Perché qualcuno ci parla.” (Nadia Fusini).
E potremmo dire che lo stesso accade per l’amore. Non si comincia così ad amare? Perché qualcuno ci ama.
La tradizione ebraico – cristiana è una sorta di stratificata narrazione di questa semplice realtà: è un Altro che per primo si rivolge all’io. Quell’Altro che è Dio comincia la storia con noi parlandoci per primo.
Solo se accolto l’io può diventare accogliente.
Da accolto ad accogliente la vicenda è lunga, sovente faticosa, interminabile, perché tutti e due punti della storia sono sempre miscelati nell’anima, nel cuore, nella carne di ciascuno.
La tradizione ebraico – cristiana è una sorta di stratificata narrazione di questa altra semplice realtà: l’ Altro che per primo si rivolge all’io irrompe non programmato, è concreto ed irriducibile a me. Quell’Altro che è Dio ci fa entrare nella storia dell’umanizzazione e ci sveglia dall’incantamento dell’io ponendoci nel mondo capaci di divenire aperti ed accoglienti proprio perché interpellati dal prossimo, dallo straniero, dal nemico.
Non divento me stessa che di fronte all’altro.
Non divento me stessa senza lasciare aperta la porta del cuore e dello sguardo, senza porgere attenti gli orecchi al fuori, all’intorno, senza lasciare andare la stretta di me ed aprire le mani e slargare le braccia.
Non divento me stessa se non in mezzo ad altri volti.
Non divento me stessa se non coltivo la capacità di riconoscere oltre la soglia ciò che dice un altro volto, un’altra storia, ciò che desidera e ciò di cui ha bisogno, ciò che mi porta e ciò di cui ha diritto.
E riconoscere non basta.
E tenere socchiusa la porta neppure.
Non divento me stessa che con l’alterità ospitata.
Non divento me stessa se non ho posti per altri nella mia casa, se non faccio spazio agli altrui bisogni e desideri e sogni e diritti e povertà e ricchezze.
Non divento me stessa se non mi lascio un poco abitare come un condominio.
Non divento me stessa se lo spazio che è di me è occupato solo da me, se la storia che è mia è soltanto la mia biografia, se le cose che ho comprato o costruito sono soltanto destinate a me, se le parole di cui dispongo le dico a me soltanto.
Non divento quella che posso davvero essere se non posso mai specchiarmi in altri sguardi, se non mi è dato che altre storie incontrino la mia e altre mani e altri sogni e diritti e speranze s’incrocino nel mio esistere ed io ne sia dimora.
Non divento chi posso veramente se la dimora di me non si slarga e ciò che di mio non sa divenire nostro e forse altrui.
Far posto all’altro dilata i confini del mio guardare e sentire e capire, e in pari tempo assottiglia le pareti, divide le stanze, distribuisce le cose.
Far posto all’altro può arrivare a fare di me una donna di benevolenza e disinteresse.
Far posto all’altro può arrivare a fare di me una cittadina a cui stanno a cuore i diritti altrui prima che i propri.
Far posto all’altro è vivere la cittadinanza nel mondo senza più la voglia di dire la singolarità di me esibendo il singolare della proprietà, ma con la capacità di dire il proprio dell’identità senza il puntello del proprio della proprietà.
Di fronte al proprio dell’identità altrui minacciato, misconosciuto, manipolato e manomesso interrompo e sospendo l’urgenza di vivere per me ed assumo l’inquietante responsabilità per tutto ciò che corrode e attacca l‘Humanunm” nel volto e nell’esistenza altrui.
Far posto all’altro, aprendo la propria esistenza e il proprio modo di essere cittadina di questo mondo, porta ad “obbligarsi all’altro anche unilateralmente” con la speranza che quel gesto sia fecondo e moltiplicatore di altre aperture. Fino a quando ciascuno è ospite ed ospitante insieme. Fino a quando nessuno sta a bussare invano.
Far posto all’altro si impara.
E lo si impara se qualche volta, bussando, qualcuno ci ha aperto. Se abbiamo esperito il calore dell’essere stati accolti, ospitati. Se abbiamo trovato almeno qualche volta il posto giusto dove deporre bagagli e difese. Se abbiamo incontrato qualcuno dalle braccia larghe.
Se abbiamo incrociato sguardi in cui prendere il largo…Se abbiamo sperimentato almeno una volta la bellezza di essere presi, contenuti, custoditi, amati così come siamo.
Far posto all’altro si impara.
E lo si impara anche per aver attraversato fino in fondo quanto &e
grave; amaro non aver trovato posto.
E desiderare che ciò non succeda per altri.
E volerlo con tutte le energie, provarci e trovare gioia.
Far posto all’altro si impara in tutti e due i casi perché la vita generosa o dura ce lo può insegnare.
Far posto all’altro si dilata da piccole attenzioni, da piccoli gesti di sollecitudine.
Si dilata piano piano o di colpo.
Si impara con piccoli gesti d’espropriazione. O con un gesto radicale che va rinnovato.
Solo pochi sanno donare tutto all’improvviso, senza un minimo di esercizio.
Per me vale che devo aprire gradualmente la porta di casa per poi arrivare a spalancarla.
Per me vale che devo provarci e riprovarci ogni giorno a far posto agli altri.
Per me vale che ogni altro in cui m’imbatto in qualche modo me lo fa imparare.
Eva Maio
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