Si sente da più parti dire che la vita, a tutti i livelli dell’umano, si è fatta insostenibile. Questo “senso comune” è particolarmente rilevante per noi dei gruppi Darsi Pace che, muovendo proprio dalla varia fenomenologia dell’insostenibilità, tentiamo di risalire alle cause, ai motivi e ai moventi del non più sostenibile, che affetta di sé le esistenze nostre e altrui.
Alcuni di questi moventi sono chiaramente interni, hanno cioè a che fare con le nostre biografie, le nostre storie e le specifiche ferite che, una ad una, vanno risolte. Questo è il principale scopo del nostro lavoro nei gruppi. Altri moventi sono invece esterni, e corrispondono a quelle distorsioni generali, quelle forme di nevrosi collettive che abbiamo generato come società, e a cui ciascuno, anche inavvertitamente, dà giorno per giorno il suo contributo. Queste distorsioni sistemiche, strutturali potremmo dire, sono il bersaglio del lavoro che come associazione Darsi Pace intendiamo svolgere, da un lato spezzando con esse sul piano individuale ogni genere di alleanza, e dall’altro offrendo a tutti uno spazio di elaborazione di soluzioni comuni, anche culturali, al frangente epocale che ci tocca di vivere. Partendo da una sana critica dell’esistente. È quanto mi prefiggo ora di fare, analizzando un caso a me molto vicino: il mio quotidiano.
Osservando il mio stile di vita in modo, ho potuto costatare tutta una serie di abitudini molto singolari, che contraddistinguono il mio modo di lavorare e vivere da quello che fu il modo delle generazioni passate. Ecco ciò che su un piano molto fenomenico ho rilevato. Sulla base di una stima al ribasso, ho calcolato che ogni giorno ricevo tra le 30 e le 40 mail per motivi di lavoro; tra le 20 e le 30 mail tra contatti generici e contatti personali di amici, conoscenti e via dicendo. Totale: fino a 70 mail al giorno, festivi inclusi. Ho scorporato dal calcolo lo spam puro, che alcuni efficaci programmi mi aiutano a gestire. Se malauguratamente per un giorno non ho accesso al computer, il giorno successivo le mail saranno diventate 140, quindi 210 e così via.
Poi c’è il capitolo telefono cellulare, vero feticcio collettivo dell’onnireperibilità, del lavoro smart, dell’interconnessione pervasiva e totale a cui tutti oggi siamo assoggettati. Ebbene, io ricevo tra le 20 e le 25 telefonate di lavoro al giorno, circa la metà partono invece dal mio cellulare verso altri contatti di lavoro. Il totale del tempo medio che trascorro ogni giorno al cellulare è di due ore circa. Si aggiungono quindi i contatti personali di amici e conoscenti, che chiamano per un saluto o una chiacchierata e, last but not least, gli sms, sia privati che di lavoro a cui spesso è necessario rispondere immediatamente. Quando torno a casa, tra le 19.00 e le 19.30, ha inizio la teoria delle telefonate parentali: madri, padri, zii e altri cari, ciascuno desideroso di avere notizie, scambiare affetto, dare e ricevere conforto e attenzione. Di solito ricevo anche almeno una telefonata da qualche malcapitato operatore di call center che opera in outbound, il quale mi contatta per propormi pacchetti e offerte commerciali della natura più diversa.
È del tutto evidente che, in quanto homo sapiens fermo allo stadio evolutivo raggiunto nel neolitico, sono sprovvisto delle più elementari qualità necessarie a far fronte a una simile tempesta mediatica. Non sono in grado di gestire il sistema di aspettative che si muove attorno a me se non forzando mascheramenti e strutture difensive sostanzialmente arcaiche e infantili. Come me, credo la gran parte delle persone che conducono lo stesso mio stile di vita, e che vedo oscillare nelle loro relazioni tra un’aggressività nevrotica e un ritiro interiore di tipo narcisistico. Preciso che non ho particolari responsabilità pubbliche e non occupo posizioni di potere; sono dunque portato a credere che quanto mi capita abbia un carattere di sostanziale medietà. Nel caso, poniamo, di un politico tutto ciò credo vada elevato a potenza di 10. Basterebbe questo a spiegare, se non giustificare, il livello patologico raggiunto dalle nostre classi dirigenti, che oggi ci scandalizza particolarmente, perché si esprime in sfrenatezza dei costumi, degrado morale e altre forme di disordini del comportamento. Io credo che le loro distorsioni siano sintomi, soltanto sintomi, e che certe loro patologie presuppongano una fisiologia che è, purtroppo, comune.
E dunque? I dunque credo siano perlomeno due:
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dobbiamo tutti e ciascuno sforzarci di riportare “il mondo a quote più normali”, come cantava Battiato in quella splendida canzone che è Povera Patria. Non si può, semplicemente non si può forzare al massimo quelli che sono limiti fisici e fisiologici nella gestione delle relazioni umane. Io credo che una spiritualità compiuta e incarnata debba aiutarci anche a intraprendere sentieri di sano realismo, a rispettare noi stessi e la nostra corporeità, a prendere cognizione del tempo e dello spazio, a tenere in conto i nostri bisogni e a non violentarci “senza ragione”. Senza ragione, cioè in ultima analisi nichilista, è quella ideologia strisciante – la sola ideologia sopravvissuta in Occidente – che si esprime nel motto: Produci Consuma Crepa. È una spirale particolarmente afflittiva, che tende ad avvitarsi verso il basso, che tende a una mercificazione quasi totale delle nostre esistenze e che tocca quasi tutti noi. Produrre ricchezza per consumare di più. Consumare di più per stimolare la produzione di beni e servizi, sempre più voluttuari e superflui. Ridistribuire il reddito prodotto al solo fine di attivare nuovi consumatori. Stimolare i consumi facendo ricorso ai più artificiosi mezzi di manipolazione di massa. Sino a quando si è “attivi”. Terminato il ciclo (per anzianità, malattia, handicap, povertà) essere proiettati fuori, nelle sacche di marginalità antiche e nuove che la nostra società produce in continuazione. La via d’uscita da un simile avvitamento mi pare essere questa: evolvere come singoli e come società verso nuovi “beni”, che siano autenticamente tali. Gli attuali consumi e prodotti hanno tutti o quasi un corrispettivo meramente materiale. Sono cioè “merci” che possono essere riscattate e scambiate, in quanto il loro valore è meramente monetario. Vedo però all’orizzonte concretizzarsi la possibilità, realmente evolutiva, di nuove entità, percepite sempre più come essenziali, che non potranno essere scambiate con altri beni materiali, ma riscattate solo mediante un investimento di tempo, di emozioni, di affetti. Saranno i beni “spirituali”, o se si vuole, i consumi umanizzanti, a trasformare la struttura dell’economia, e dunque a modificare e fare evolvere anche le nostre esistenze e i nostri comportamenti. La scoperta di queste nuove datità ci aiuterà a ridimensionare gradualmente il nostro sforzo produttivo, ovvero a riorientarlo, e ad attribuire nuovi significati al concetto di benessere, come mi pare già stia accadendo nei vari processi di elaborazione di modelli alternativi alla misurazione della ricchezza di un paese sulla sola base del Prodotto Interno Lordo.
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La straordinaria potenza dei mezzi di interconnessione che oggi possediamo e di cui tutti facciamo uso possiede tuttavia anche una matrice evolutiva, il cui senso positivo va colto e attuato, se non si vuole ristagnare in fiacchi rimpianti di un’età dell’oro, in cui tutto era più semplice e piano. E in cui purtroppo era protagonista la guerra, gli isolamenti nazionalistici, la miseria morale e materiale, gli olocausti e tutti gli orrori che hanno scandito il Secolo Breve. Mi chiedo: cosa potenzia dell’umano in quanto tale l’attuale tecnologia? Che scatti evolutivi questa sembra presupporre nei suoi utenti? Che caratteristiche del tutto inedite deve o dovrebbe avere quest’uomo tecno mediatico del XXI Secolo, per adeguarsi ai mezzi di cui ogni giorno fa uso? Io credo che tutto oggi, dai cellulari alla posta elettronica, dai social network ai blog, sino al paradigma della “portabilità”, cioè all’emancipazione della comunicazione dai limiti fisici dello spazio e del tempo, prefiguri un uomo pienamente e compiutamente relazionale, e in qualche misura perfino spiritualizzato. Interconnesso cioè, in misura impensabile sino a qualche decennio fa, con infiniti “altri”. Ciò che la tecnologia oggi presuppone, senza averne precostituito le condizioni, è una nuova identità, non più arroccata nell’isolamento difensivo, ma polifonica e processuale. Un’identità dinamica e dialogica, che è delle persone e dei gruppi, nella quale l’Io e il Noi anticipa ed evoca i Tu e i Voi al livello della propria stessa costituzione. Nuove soggettività umane intessute in larghe trame di relazioni, soggettività sempre da ritessere e ricevere di nuovo come una donazione di senso, che viene dall’Altro. Malauguratamente, la tecnologia offre solo i mezzi. Non determina cioè i fini, e men che meno elabora le condizioni di possibilità autentiche perché tutto questo si avveri. Ho anzi la sensazione che, forzando in noi attitudini che non ci è stato dato di consolidare, la nostra potentissima tecnologia finisce per produrre il proprio contrario: distorsioni difensive, chiusure e isolamenti e ripiegamenti narcisistici, irrelazioni tanto più gravi e dolorose, quanto più la struttura antropologica bio-psico-spirituale non è adeguata ai mezzi di cui fa uso, e dunque – sollecitata oltre i propri limiti – è portata a difendersi. I moderni mezzi di trasporto ci consentono di viaggiare a 200 chilometri orari, ma se andiamo a sbattere a quella velocità moriamo, perché il nostro fisico non è adeguato a simili sollecitazioni. È allora urgente che ci si prepari giorno per giorno a questo grandioso salto evolutivo, di cui le ICT – Information Communication Technologies non sono allo stato attuale che una promettente metafora. Ai politecnici, ai centri di ricerca e sviluppo, all’educazione intellettuale e alla formazione scolastica che ci abilità all’uso dei nuovi mezzi, bisognerebbe affiancare, o far precedere, una nuova pedagogia dell’umano, nuovi cantieri e laboratori in cui forgiare un’umanità adeguata ai mezzi di cui dispone. Perché possa liberamente farne uso, invece di esserne usata. È il lavoro di una lunga preparazione, un lavoro da ostetrici, a cui nei gruppi Darsi Pace ci siamo appena accostati.
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