Ancora una volta gli italiani sono stati chiamati a votare. Ma a votare per cosa ? In rappresentanza di cosa e di chi ? Per realizzare quali intenti e quali aspirazioni ? Per eleggere chi ?
Credo che davvero il sistema di rappresentanza politica, in tutto l’Occidente, sia entrato da tempo in una crisi che forse sta raggiungendo il suo punto più basso. [Leggi di più…]
Il voto – frustrazione, invidia, rassegnazione.
Il voto – frustrazione, invidia, rassegnazione.
Ancora una volta gli italiani sono stati chiamati a votare. Ma a votare per cosa ? In rappresentanza di cosa e di chi ? Per realizzare quali intenti e quali aspirazioni ? Per eleggere chi ?
Credo che davvero il sistema di rappresentanza politica, in tutto l’Occidente, sia entrato da tempo in una crisi che forse sta raggiungendo il suo punto più basso.
Ed è una crisi che a quanto pare coinvolge anche la stessa concezione di rappresentatività democratica, nella accezione che oggi diamo a questa parola.
Davvero con l’attuale sistema di rappresentanza politica democratica, il cittadino vede riconosciuto il proprio diritto a contare e a decidere ?
Decidere cosa ? I nuovi sistemi elettorali sembrano ormai sempre più confezionati come strumenti dove tutto o quasi è già deciso, a partire dalle persone che possono/debbono essere eletti.
I cittadini non possono scegliersi liberamente i propri rappresentati. Esprimono un voto di gradimento a quello che – nella assenza di specifici programmi elettorali – è spesso semplicemente un ‘marchio’. Dicono sì o no a un prodotto che qualcun altro ha scelto per loro. Sono chiamati a svolgere la funzione di consumatori di una offerta ‘politica’ – più che di elettori (coloro che dovrebbero scegliere ‘secondo la propria volontà’ chi è più adatto a rappresentarli, nella ‘società civile’).
La classe politica attuale è ormai una ‘casta’ – termine molto inflazionato ma efficace – che vive e consuma i suoi privilegi, totalmente scollata dal resto della società. Che prende decisioni dall’alto (le leggi di iniziativa popolare sono ormai praticamente scomparse dal panorama politico) e che chiede semplicemente al Parlamento di ratificarle con un voto formale.
E’ conseguente che allora, in questo sistema, prevalga sempre e comunque chi è più bravo ad orientare i gusti del pubblico (è meglio chiamarlo così, piuttosto che dell’elettorato) e a vendere le facce giuste e i pochi slogan che contano e che possono arrivare direttamente agli orecchi di chi è chiamato a votare.
Non sorprende perciò che anche questa volta la percentuale di astenuti al voto sia cresciuta in modo esponenziale. Un +7,8% che sul dato nazionale vuol dire quasi 15 milioni di persone che non è andata a votare.
Ma anche questo segnale serve a qualcosa ? Ne dubito fortemente. Degli astenuti si parlerà per un paio di giorni, poi tutto ricomincerà come prima: governanti e classe politica chiusi nei loro dorati privèe (dove accadono anche cose molto poco edificanti, come ci viene raccontato ogni giorno) e massa dei cittadini divisa tra frustrazione, invidia (i furbi hanno sempre ragione), e rassegnazione.
Fabrizio Falconi
Il sogno della trascendenza
Vi è mai capitato di uscire dal sogno sereni come dopo una meditazione, una preghiera? O illuminati da una scoperta fondamentale sulla vostra vita interiore? O spinti verso una scelta esistenziale importante ?
Il sogno che propongo e la sua interpretazione è quello di uno psicanalista ormai novantenne, Gaetano Benedetti, ed è tratto dal suo libro: Riflessioni ed esperienze religiose in psicoterapia, pubblicato nel 2005, a Torino. [Leggi di più…]
Il sogno della trascendenza
Vi è mai capitato di uscire dal sogno sereni come dopo una meditazione, una preghiera? O illuminati da una scoperta fondamentale sulla vostra vita interiore? O spinti verso una scelta esistenziale importante ?
Il sogno che propongo e la sua interpretazione è quello di uno psicanalista ormai novantenne, Gaetano Benedetti, ed è tratto dal suo libro: Riflessioni ed esperienze religiose in psicoterapia, pubblicato nel 2005, a Torino.
Nella prefazione al volume l’autore dice che il libro potrebbe anche intitolarsi: Pensieri cristiani di uno psichiatra agnostico. E spiega: “Agnostico perché, nonostante il fondamento cristiano della mia Weltanschaung, io non riposo in alcune delle verità asserite dal Cristianesimo: le metto sempre in dubbio, le rinnovo, per rispondervi poi dai più diversi punti di vista, e non lascio mai arrivare interrogativo alcuno alla soluzione.”
Ma che tipo di agnostico? “Sono un agnostico attivo, che non si dà pace, pensa oltre e, pur non trovando soluzioni ‘certe’, non dispera mai, perché sente di realizzare ed esaudire la sua vita nell’eterna ricerca.(…)
Quando nel mio lavoro giornaliero di psicoterapeuta ascolto i pazienti, sofferenti di tante sindromi psichiatriche, ma in tutti i casi di pene da loro non sopportabili, di conflitti per loro insolubili, di ogni genere di difficoltà esistenziali da loro non affrontabili, non penso ad altro che al loro dolore e al modo di comprenderlo. La mia attenzione al singolo è tale da non permettere né di prendere appunti, né tanto meno di pensare a me stesso distraendomi dal paziente. (…).
Ma, nelle ore libere, i conflitti e i dolori dei singoli pazienti si uniscono in vaste sintesi, e queste vanno al di là dei problemi psichiatrici e psicoterapeutici, riguardanti l’origine, il decorso, l’essenza di una malattia psichica, la tecnica migliore per affrontarla e i miei errori nel farlo.
Problemi ancora più vasti si affacciano alla mia mente: qual è il destino dell’uomo? Il senso dell’umana esistenza? L’origine e il significato del dolore? L’origine del male? (…)
Può sembrare strano che, in quanto psicoterapeuta, io parli tanto di me, delle mie riflessioni su problemi che vanno al di là dei miei pazienti, e anche dei miei sogni. Ma ciò non ha la minima ombra di egocentrismo. Piuttosto significa che io sono diventato uomo nell’ascolto incondizionato dei miei pazienti, obbligato alla riflessione filosofica di problemi che riguardano me non meno di loro.(…)
Finisco questa mia prefazione con il dire..che interpretare i grandi disegni della Trascendenza, per quanto si possano vedere e comprendere, significa credere ad essa e dare un senso, una struttura d’amore all’esistenza umana.“
Trascrivo ora Il sogno della trascendenza: (22 gennaio 1979)
“Alle sei del mattino ero ormai sveglio, come al solito. Sento di non aver dormito abbastanza. Dolore per una mia paziente, per la sue due bambine e il marito. Mi sentivo colpevole di un insuccesso, dubitavo di aver commesso qualche errore(…)
Non volevo disturbare mia moglie che dormiva accanto a me.
Lentamente sono caduto in un dormiveglia, in cui si è svolto un lungo e lento sogno, di cui rammento almeno quattro nitide visioni.
- Una scala ripida che scendo con circospezione. Riconosco subito in essa, dormendo, la difficoltà della mia vita: mi meraviglio che si tratta solo di una scala ripida e non di un dirupo impossibile. Mentre la scendo e poi risalgo, provo un senso indicibile di gioia, non solo perché la scala è ripida e non quindi impossibile, ma perché mi è concesso di avere una difficoltà nella vita.(…)
- Vengono a visitarmi spiriti buoni. Avverto la presenza di spiriti invisibili. Quale gioia trascendentale! Eccola quella gioia che aspettavo da anni, ancora una volta inattesa. Credevo ormai che non venisse più, sostituita da una fede che allora non avevo. Sono quei minuti in cui non si dubita di una presenza altissima. Qualcuno è venuto a prendermi per mano.
- Tutto il sogno sembra svolgersi in un immenso edificio che credevo di conoscere e ora mi è sconosciuto. Da una piccola finestra guardo su verso una vallata scura e questa sembra aprirsi ai miei sguardi, divenire immensa.
Poi voglio recarmi nella mia stanza; e mi perdo così in un’ala dell’edificio ancora in costruzione. Stupito mi aggiro per quegli spazi, passo un ponticello ed esco dall’edificio per rimirarlo dal di fuori.
Quale stupefazione! : quella parte che dal di dentro appariva in costruzione è già finita dal di fuori ed è di una bellezza inenarrabile.(…) Mi rendo conto, in quel momento di essere in un altro mondo, già morto su questa terra, e di poter perciò guardare in modo tale che i sogni inconsci di bellezza, addormentati nel fondo della nostra anima, diventino il nostro mondo anche esterno, e nulla è perduto di ciò che si è dimenticato e che, anche solo per un attimo, era stato oggetto della nostra contemplazione.
- Fatti pochi passi a destra, mi ritrovo su un’altura che dà su un burrone scosceso. Ho ancora la stessa emozione provata all’inizio del sogno: quel burrone è la sofferenza della mia vita ed è di una bellezza indicibile, è il senso della mia vita. Questa volta piango; piango dal dolore perché so che non sarò in grado di mantenere questa percezione, che tornerò a temere la sofferenza, misconoscendone il volto divino, che non saprò amarti, mio Dio.
Conclusione.
Quel pianto finale era una sintesi di gioia e di dolore sovraumani. Era una goccia di trascendenza. Se avessimo ogni giorno una tale goccia, vivremmo tutto il giorno aspettando quell’istante.(…)
Il sogno, in questi istanti, si trasfigura; sentiamo che la psicologia del sogno non basta; che il sogno diventa uno dei tanti canali attraverso cui Dio improvvisamente ci parla.
Per uno è la preghiera, la contemplazione;
per l’altro è la visione beatifica;
per un terzo è l’esperienza della meditazione.
Infinite sono le vie di Dio.
Già sveglio, vedevo una luce nello spazio scuro della camera; da dove veniva? Chi era? Chi era venuto a visitarmi?”
Dunque anche il sogno può essere un’esperienza religiosa. Ci farà bene curare, proteggere il nostro sonno, fare attenzione anche ai nostri sogni, e trascrivere quelli che per noi sono più significativi, rileggerli ogni tanto con attenzione, forse vi potremo trovare delle piste per continuare il nostro cammino di formazione integrale.
Un volto buono – le sculture di Davide Calandrini
Quando ho visto questo video sono rimasto davvero sorpreso.
Davide, in tanti anni di incontri e di dialoghi, non mi aveva mai parlato di questa sua arte, manifestando così uno dei suoi caratteri preminenti: la discrezione, un’umiltà che rischia di farsi chiusura.
In queste opere però noi vediamo emergere il suo cuore più profondo, un cuore sostanzialmente estatico e pieno di bontà.
Questi volti infatti comunicano una densità umana raramente riscontrabile nel casermone contemporaneo dell’arte, ricco di pagliacciate, di astrazioni concettuali, e, appunto, di brutali disumanità.
Qui invece l’umano ritrova una misura, un volto, fatto di dolore e di pace, di sbigottimento e di dolcezza infinita, e specialmente di apertura all’infinito: questi volti sono sempre ri-volti a qualcosa che verrà, che ci sta già raggiungendo, e che a volte intravediamo tra lo stupore e la gioia.
Grazie, Davide, e donaci altri frutti della tua arte. [Leggi di più…]
Un volto buono – le sculture di Davide Calandrini
Quando ho visto questo video sono rimasto davvero sorpreso.
Davide, in tanti anni di incontri e di dialoghi, non mi aveva mai parlato di questa sua arte, manifestando così uno dei suoi caratteri preminenti: la discrezione, un’umiltà che rischia di farsi chiusura.
In queste opere però noi vediamo emergere il suo cuore più profondo, un cuore sostanzialmente estatico e pieno di bontà.
Questi volti infatti comunicano una densità umana raramente riscontrabile nel casermone contemporaneo dell’arte, ricco di pagliacciate, di astrazioni concettuali, e, appunto, di brutali disumanità.
Qui invece l’umano ritrova una misura, un volto, fatto di dolore e di pace, di sbigottimento e di dolcezza infinita, e specialmente di apertura all’infinito: questi volti sono sempre ri-volti a qualcosa che verrà, che ci sta già raggiungendo, e che a volte intravediamo tra lo stupore e la gioia.
Grazie, Davide, e donaci altri frutti della tua arte.
Vediamo ora come Davide ha voluto presentarsi nel nostro sito:
“Perché il tema altro non è se non la vita che cerca una forma” (H.Schrade)
Cari amici di Darsi Pace mi presento:
nasco a Cesena il 25.12.1968 dove tuttora risiedo, e svolgo l’attività di artigiano nel settore dei trasporti.
Dal 1997 sono sposato con Roberta e ho due figli, Anita e Damiano.
Parallelamente all’attività lavorativa porto avanti un interesse per le arti figurative e in particolare per la scultura.
Sin da piccolo questa facilità nel disegno e l’attrazione per le arti in genere fu considerata come marginale,
e quel piacere per l’introspezione e le cose minime come timidezza.
Certo, l’ambiente e i genitori non mi hanno aiutato più di tanto, ma devo anche confessare un’indole remissiva che mi portava alla fuga e all’insofferenza, che tra l’altro fino a qualche anno fa consideravo quasi un’elezione più che un difetto.
Sin da piccolo ho avuto la sensazione che nel mondo dei grandi ci fosse qualcosa che non andava. Crescendo poi questa sensazione di alienazione dalla vita vera, a volte quasi totale, si era impossessata anche di me.
Frequentando in seguito gli intensivi e parlando telefonicamente con Marco ho intravisto una via d’uscita, e con fatica comincio a rendermi conto di quanti mascheramenti e irrigidimenti mi blocchino in una dimensione senza speranza.
Ho grande bisogno di darmi pace, e intravedo nel percorso aperto da Marco uno dei pochi “sentieri”di liberazione interiore veramente efficaci.
Grazie a Marco, a Paola, e a voi tutti che partecipate tanto attivamente, nella speranza di riuscire ad abitare questa terra poetica-mente.
Davide Calandrini
In Rete come Uno, Nessuno o Centomila? Parola Agli Studenti
Come promesso ecco le risposte degli studenti alle domande del Prof.
Tutta la conversazione tra il prof e i suoi studenti (ultimo anno di liceo) è avvenuta esclusivamente su Facebook. Fuori dall’orario scolastico … naturalmente
—– Sara
“Proprio ieri affrontavo un interessante discorso con Miriam, la nostra conclusione è stata questa: se non riusciamo più a tessere legami “reali”, ovvero con rapporti “fisici” (senza pensar male ), con chiaccherate, sguardi, strette di mano, come è possibile farlo attraverso qualcosa di cosa immateriale come internet e un computer?
Io penso che il sale della comunicazione siano i gesti, i toni di voce, e tutto ciò che non si limita ad essere “frase”. Tutto ciò che internet non può darci.
Dunque, per me, internet non è altro che un palliativo, un’illusione di poter intrecciare rapporti umani più facilmente, senza la paura di un giudizio immediato, ma che in realtà non fa altro che annientarli e allontanarci dalle vere relazioni.
— Prof
Carissima Sara, forse il nocciolo della questione sta proprio in quel: “senza la paura di un giudizio immediato”.
Perché le relazioni cosiddette “reali” si infrangono sempre più, oggi, contro il muro di un giudizio immediato? E se la Rete attenuasse questa pratica del pregiudizio, non sarebbe allora un’occasione positiva per provare a stare insieme in modo nuovo?
E poi anche la Rete, fatta di parole ma non solo, in fondo usa gli stessi strumenti della poesia e dei romanzi, e dunque perché non potrebbe (almeno in teoria) essere altrettanto espressiva e vitale quanto i gesti o gli sguardi?
Grazie per le tue riflessioni davvero stimolanti.
— Alessandro
“complimenti prof… bellissima domanda! è difficile dare una risposta… poi sicuramentee noi della nostra generazione nn saremo mai in grado di avere su internet un giudizio come lo avete vuoi uomini piu vissuti… noi giovani siamo nati e cresciuti con internet, è diventato per noi praticamente un mezzo di informazione e comunicazione praticamente fondamentale.
Mentre voi avevte passato gli anni giovani senza sapere minimamente che sia internet!
voi secondo me siete in grado di farne benissimo a meno anche se potete ritenerlo utilissimo… mentre noi nn saremmo in grado di orientarci al meglio e ci sentiremo persi se nn dovessimo piu averlo all’improvviso… stesso discorso credo che si possa fare con i cellulare”
—- Prof
Io, ad esempio, ci ho pensato circa un mese alla questione “entrare o meno in Facebook”, perché lo ritenevo un luogo un po’ superficiale, da un lato, e perché temevo di espormi troppo con tutti voi, che in fondo mi vedete un po’ come una figura “istituzionale” (almeno credo ).
Ma poi mi son detto che ogni luogo acquisisce il senso che NOI gli diamo.
Anche Facebook può raccogliere esperienze interessanti e fondamentali: dipende da ciò che uno cerca e da quanta sincerità ci mette.
Allora io ci provo a stare “qui” in maniera diversa, a modo mio, cioè così come sono io, come desidero davvero essere. E spesso mi accade di trovarmi bene, perché mi offrite quello che cerco… Vabbé per adesso mi fermo qui! Aspetto, fiducioso, altri commenti…
—- Alessandro
“ma si, dev’essere così…. una cosa viene alterata a seconda di come noi plasmiamo i nostri pensieri e il nostro modo di agire su di essa…. quindi sono perfettamente d’accordo che un sito come facebook, se viene “impregnato” di propri pensieri, idee e sentimenti, può diventare qualcosa di strettamente personale, e che quindi dipende da noi...
cmq secondo me una cosa che purtroppo capita la maggior parte delle volte in comunity virtuali, è il fatto che nn c’è la possibilità di una espressione verbale, cosa che è secondo me fondamentale, perchè capita molte volte di fraintendere frasi, dal momento in cui il destinatario di una frase, nn sia in grado di intendere i toni e i sentimenti che una persona esprime in quel momento…”
— Prof
Benissimo Ale. Il problema “fraintendimento” c’è. Ma ecco perché è una bella sfida la Rete, perché ci impone una certa “disciplina”, una “cura” delle parole che è altamente formativa e capace di “fare futuro”.
Per non fraintendersi dobbiamo scegliere attentamente la parola più giusta (aldilà delle faccine
standardizzate). Grazie.
Mi piace come sta fiorendo questa piccola discussione. Ve ne accorgete? Nel nostro piccolo stiamo “rivoluzionando” questo luogo! Complimenti.
— Sara
Ma è molto più facile trovare la “parola giusta” senza la fretta del dialogo! C’è molta più riflessione, c’è più tempo per ragionare, e inevitabilmente assume un carattere molto più artificioso!
Nonostante ciò colgo il fatto che anche in un romanzo, in una poesia mancano tutti quegli elementi “fisici”, ma per come la penso io non sono forme per un dialogo diretto..
Ad esempio, ma chi cavolo direbbe mai che io riesca a parlare come sto scrivendo adesso??? Si sente che è un linguaggio artificiale!”
— Alessandro
“si appunto… quello delle chat è proprio un linguaggio artificiale, privo di sentimenti; ed è proprio dalla mancanza di espressività e dei sentimenti che deriva il fatto che noi siamo portati a fraintendere il senso di una frase, perchè usiamo parole che nn possono esprimere sensazioni e hanno solo il loro significato letterario…INSOMMA…
diciamo che è un linguaggio a parte quello del mondo in rete, in cui bisogna stabilire dei criteri razionali nel significato delle singole parole, senza cercare di caricarle di emozioni…”
— Beatrice
“salve prof!! l ho trovata!!!
a me personalmente il fatto di stare in rete è un passatempo…niente di più..invece che guardare la tv sto al pc e navigo in internet..guardo video, parlo cn amici..diciamo che il pc nn è tutta la mia vita però ogni tanto è un ottimo svago dallo studio!”
— Marta
di sicuro è un’enorme distrazione…uff
— Prof
Dai Marta… che c’è dietro quel “uff”! Esprimiti. Ciao.
– Mattia
“prof internet e lo strumento che utilizzato razionalmente e senza perdere la concezione della realtà ti fa girare il mondo abbattendo le frontiere ekonomike razziali emotive e personali ormai attrave
rso internet puoi fare di tutto esperienze nuove vivere la vita k vorresti anke se non ti
appartiene,dokumentarti,istruirti,cazzeggiare,scoprire e molto altro”
– Prof
Mattia, grazie per l’intervento, che è “esattamente” tuo. Tu parli proprio così, senza virgole, senza
prender fiato, un po’ sgrammaticato magari, ma con contenuti interessanti. Dico questo per far notare che poi quello che scriviamo su Internet ci ritrae, ci somiglia, porta il nostro nome, la nostra storia… anche solo nella “forma”, nel “modo” in cui diciamo quel che diciamo…
In Rete come Uno, Nessuno o Centomila? Il Professore Ne Parla Con Gli Studenti.
Photo credit: J Wynia
Qualche tempo fa su Facebook ho avuto uno scambio di opinioni con Renato (che ho conosciuto su questo blog) sul significato che si attribuisce all’espressione “stare in Rete“. Tema che ciclicamente riaffiora ovunque e che discutiamo anche come redazione e associazione.
Renato insegna in un liceo quindi è stato quasi naturale domandarci cosa ne pensano i suoi studenti … La conversazione (su Facebook) si conclude con questo punto interrogativo nelle nostre teste
Dopo qualche giorno mi invia un messaggio comunicandomi che aveva coinvolto direttamente i suoi studenti rilanciando il tema non in classe ma direttamente nel luogo della conversazione .. in rete e precisamente su Facebook.
Il risultato è bello e interessante. Ve lo condivido dopo la loro approvazione.
Cominciamo prima con le domande del Prof Renato! [Leggi di più…]
In Rete come Uno, Nessuno o Centomila? Il Professore Ne Parla Con Gli Studenti.
Qualche tempo fa su Facebook ho avuto uno scambio di opinioni con Renato (che ho conosciuto su questo blog) sul significato che si attribuisce all’espressione “stare in Rete“. Tema che ciclicamente riaffiora ovunque e che discutiamo anche come redazione e associazione.
Renato insegna in un liceo quindi è stato quasi naturale domandarci cosa ne pensano i suoi studenti … La conversazione (su Facebook) si conclude con questo punto interrogativo nelle nostre teste
Dopo qualche giorno mi invia un messaggio comunicandomi che aveva coinvolto direttamente i suoi studenti rilanciando il tema non in classe ma direttamente nel luogo della conversazione .. in rete e precisamente su Facebook.
Il risultato è bello e interessante. Ve lo condivido dopo la loro approvazione.
Cominciamo prima con le domande del Prof Renato!
Cosa ci spinge a stare in Rete? Cosa proviamo, cerchiamo, offriamo, quando ci colleghiamo al mondo?
La Rete potrebbe essere lo “specchio” del mondo? Oppure è un luogo del tutto immaginario, o falso, o ludico?
E che tipo di relazioni consente di instaurare questa forma di “incontro”?
E quando “scriviamo” su queste pagine immateriali, ci sentiamo o no “responsabili” delle nostre parole? Ne avvertiamo il peso, la necessità, l’insufficienza, l’inconsistenza, la paternità/maternità? Che significa, insomma, “essere” in Rete?
Siamo proprio sicuri che non si possa essere “veri” anche in uno spazio come Facebook?
Da chi dipende se non da noi, da quello che desideriamo mettere in gioco?
Come riuscire a non “fare massa”, ma a districarci e recuperare e approfondire la nostra sana “differenza”.
Credo che se davvero lo desideriamo anche la massa di Facebook possa sgomitolarsi e riannodarsi in forme sempre nuove e vitali. O no?
Comincia la conversazione. Parola a voi
… poi agli studenti (con post ad hoc)!
Simbolo del male o presenza reale, chi è per voi il diavolo?
C’è chi dice che sia un’invenzione umana, una proiezione dei nostri abissi più oscuri. Chi lo accetta come un simbolo, un nome sotto cui raccogliere l’immenso groviglio dei mali commessi dall’uomo. Per gli ultimi papi è invece una presenza reale, uno spirito con una sua individualità, un soggetto attivo nella partita del vivere dotato di intelligenza e capacità operativa. E allora, chi è il diavolo? Esiste davvero? E se esiste, in che modo agisce? Organizzando un sistema generale centrato sull’ego, che ci tiene tutti sotto il suo scacco, carichi di paura, avidità e risentimento? Oppure colpendo una a una le singole persone, con piccole punture di spillo, con ansie o – nei casi estremi – con la possessione?
Apriamo questo forum sul ruolo che, secondo voi, l’avversario ha nelle nostre vite. Raccontate la vostra impressione, le esperienze che vi è capitato di conoscere, direttamente o indirettamente. Fa bene la Chiesa a rivalorizzare la pratica dell’esorcismo o è roba da medioevo? È vero, come dice padre Amorth, l’esorcista più famoso d’Italia, che la zampa di Satana è entrata persino in Vaticano? E che vesti ha oggi il diavolo, è ancora il caprone con le corna o ha il fascino sottile di un elegante uomo di potere?
Di seguito, come introduzione, un articolo del vaticanista Gianfranco Zizola pubblicato da Repubblica, che illustra la storia del rapporto, non sempre coerente all’insegnamento di Cristo, tra la Chiesa e il principe di questo mondo.
I cristiani e il potere del male
di Giancarlo Zizola
Negli ultimi anni la dottrina cattolica sull’ esistenza del diavolo è stata messa in dubbio da più di un teologo. Urs Von Balthazar diceva di credere nell’ Inferno ma anche che lo riteneva vuoto. E Borges azzardava che forse i teologi, che avevano esagerato i vantaggi del Paradiso non essendoci mai stati, non avrebbero potuto giurare chei reprobi all’ Inferno fossero sempre infelici: come immaginare che una fabbrica così sadica, vendicativa e inarrestabile di tortura dei dannati, una Auschwitz eterna possa essere compatibile con l’ idea cristiana di un Dio misericordioso? Il minimo che si esigeva dalla teologia era di rimodellare l’ idea della Geenna, destinata ai malvagi. Soprattutto tenendo in maggiore considerazione il ruolo di salvezza assegnato alla figura di Gesù: i Vangeli raccontano le sue lotte contro i demoni, ma anche le loro disfatte e le guarigioni operate sugli indemoniati. Il Credo cristiano dice che dopo morto egli scese tre giorni agli Inferi con altrettanta potenza liberatoria ma una lettura pigra di quell’ evento sembra trattenerlo agli Inferi per molto più tempo. La maggior parte dei biblisti pensa che non sia possibile,o comunque sia piuttosto rischioso, negare l’ esistenza di spiriti maligni. Molti temono che una cerimonia troppo disinvolta di addio al diavolo potrebbe far parte della sua tattica. Citano Baudelaire: “L’ astuzia più raffinata del diavolo è di persuadervi che non esiste”. Il licenziamento teologico del diavolo produrrebbe l’ insignificanza del male nei contemporanei ma questa censura non sembra abbia l’ effetto di porre fine al suo evidente successo. Nel 1972 Paolo VI è il primo a lamentare che il “fumo di Satana” si sia infiltrato da qualche fessura anche «nel tempio di Dio». Si rompe l’ incantesimo post-conciliare su un approccio indiscriminato della Chiesa al mondo moderno. Il Papa reagisce a una interpretazione del dialogo con la cultura dei Lumi che potrebbe risolversi in una liquidazione delle soglie critiche della coscienza cristiana di fronte al mondo e dunque in una omologazione della Chiesa ai “poteri del male”. Sulla stessa linea Wojtyla lancia dal Monte Gargano, mitico luogo di lotte anti-demoniache, la sfida ai cattolici a sguainare di nuovo la spada di San Michele Arcangelo «contro il dragone, il capo dei demoni, vivo e operante nel mondo». I suoi segni non sono più le corna, il piede caprino, l’ odore dantesco di zolfo ma «consumismo, sfruttamento disordinato delle risorse naturali, voglia sfrenata di divertimento, individualismo esasperato». Negli stessi anni il cardinale Ratzinger ricorda «a certi teologi superficiali» che il diavolo è per la fede cristiana «una presenza misteriosa ma reale, personale, non simbolica, una realtà potente, una malefica libertà sovrumana opposta a quella di Dio». Rivendica al cristianesimo di avere introdotto in Occidente «la libertà dalla paura dei demoni» ma teme che «se questa luce redentrice di Cristo dovesse spegnersi il mondo con tutta la sua tecnologia ricadrebbe nel terrore e nella disperazione». Segnali di ritorno di forze oscure, secondo il futuro Papa, sono i culti satanici in aumento nel mondo secolarizzato, l’ espansione del mercato della pornografia e della droga, «la freddezza perversa con cui si corrompe l’ uomo, l’ infernale cultura che persuade la gente che il solo scopo della vita siano il piacere e l’ interesse privato». Sono i primi tentativi della dottrina cattolica per far uscire la descrizione del diavolo da un linguaggio tradizionale ormai incomprensibile dalla stragrande maggioranza dei contemporanei. Il diavolo esiste ma assume le nuove forme delle ingiustizie e delle alienazioni. Il suo teatro non è solo il cuore umano ma anche la struttura sociale. Un teologo come Bernard Haring raccomandava molta cautela considerando il modo fantasioso con cui era stata riprodotta la dottrina sul diavolo: «Oggi lo psichiatra si mostra competente nella maggior parte dei casi nei quali si usava far intervenire l’ esorcista – dice -. La Scrittura non conosce quel tipo di discorso alienante sul diavolo che è stato coltivato nei secoli dai cristiani delle diverse Chiese sotto l’ influsso di culture in cui si realizzava una spaventosa alienazione». E Karl Barth rispondeva a chi chiedeva se dubitasse del diavolo: «Esiste pure quella bestia. Ma quando interviene la fede in Cristo mette la coda tra le gambe e non si fa più vedere».
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