Il libro verrà presentato a Roma Giovedì 22 aprile, alle ore 18, nella Libreria Feltrinelli di Via V.E. Orlando n 78/81.
Alla presentazione parteciperanno Massimo Diana e Marco Guzzi
Liberazione Interiore -> Trasformazione del Mondo
Il libro verrà presentato a Roma Giovedì 22 aprile, alle ore 18, nella Libreria Feltrinelli di Via V.E. Orlando n 78/81.
Alla presentazione parteciperanno Massimo Diana e Marco Guzzi
LIBRO PROVOCAZIONE DELLO PSICANALISTA RECALCATI: “L’UOMO MODERNO HA CANCELLATO L’INTIMITA’ DEL SOGGETTO, L’ECCESSO DI STIMOLI UCCIDE IL DESIDERIO”
C’è una probabile vittima e, secondo gli indizi, si chiama inconscio. C’è un forte sospettato e, prove alla mano, è il nostro tempo. Ma forse c’è ancora una speranza di scongiurare il peggio. È un’indagine originale quella che lancia Massimo Recalcati, analista lacaniano (ma lucido, brillante, originale e chiarissimo, al contrario del grosso dei lacaniani), autore del saggio “L’uomo senza inconscio”, edito da Cortina, secondo molti libro destinato a lasciare il segno.
Hanno ammazzato l’inconscio, dunque, la tesi di questo testo che sembra un triller. Ma più che un indiziato unico, a compiere il delitto sarebbe un’associazione a delinquere. Dice Recalcati: “E’ il nostro tempo che minaccia l’intimità più radicale e scabrosa del soggetto. È l’epoca dei turbo-consumatori, dell’inebetimento maniacale, della gadgettizzazione della vita, della burocrazia robotizzata, del culto narcisistico dell’Io, dell’estasi della prestazione, della spinta compulsiva al godimento immediato come nuovo comandamento assoluto”.
Ma non è un omicidio evidente, quello consumato ai danni dell’inconscio. Piuttosto una sparizione. Forse una morte bianca. E prima di avvisare i parenti, Recalcati chiarisce bene qual è secondo lui la foto segnaletica dello scomparso: “L’inconscio non è un dato di natura, qualcosa che esiste in quanto tale. Ma qualcosa che dobbiamo far esistere. L’inconscio esige rigore, perseveranza, ma anche disponibilità a perdersi, a incontrare il caos, l’imprevisto. Soprattutto la capacità di esporsi al rischio della solitudine e del conflitto”.
Siamo infelici, dice l’analista, perché tradiamo il programma inconscio del nostro desiderio, lo mascheriamo, lo sopprimiamo tramite un Io che si modella sulle attese altrui.
Ecco allora che si delineano i moventi di questo possibile omicidio. Le ragioni per abbatterlo, l’inconscio, sono fortissime. Spiega Recalcati: “Come diceva Heidegger, riprendendo Nietzsche, il deserto cresce e il mondo si riduce a mero calcolabile. Il nostro tempo è sordo al tempo lungo del pensiero, maniacalizza l’esistenza con un eccesso di stimolazioni e oggetti di consumo, cancella la spinta singolare del desiderio in nome di un iperedonismo ben integrato al sistema, dell’affermazione entusiasta e disincantata dell’homo felix”.
È interessante il modo in cui l’autore rilegge il vecchio Super–Io. Una metamorfosi inquietante: il comandamento sociale prevalente oggi non impone più la rinuncia al piacere immediato in nome della morale civile, come ai tempi di Freud, ma al contrario impone il godimento come forma inaudita del dover essere. Come obbligo. La vita va così alla deriva, continua Recalcati, caotica, spaesata, priva di punti di riferimento, smarrita e vulnerabile. “Devi godere”, è il nuovo imperativo categorico. Non il godere sano che viene dal desiderio reale, guidato dall’inconscio, ma una volontà tirannica, priva di scambio con l’altro. Priva anche di eros. Prevale solo la pulsione opposta, quella della ripetizione che attenta alla vita, che porta solo disastro.
Insomma, in nome di questo piacere coatto, si aderisce a una maschera sociale, che simula trasgressione ma nasconde conformismo. Al posto del conflitto freudiano tra principio di piacere e principio di realtà si impone il culto della prestazione esibita. Con tutta la serie di nuove malattie che ne derivano: disordini alimentari, dipendenza dagli stupefacenti, depressioni, attacchi di panico, somatizzazioni. Malattie che, secondo l’analista lacaniano, confermano la dissoluzione dell’inconscio. Una clinica dell’antiamore, la definisce nel libro.
Ecco allora, conclude l’autore, che solo il lavoro di ricerca e di scavo nel profondo possono diventare un luogo di resistenza a questa mutazione devastante, a questo omicidio dell’anima che forse ancora non è del tutto compiuto. Compito etico di tutti oggi è promuovere la singolarità irriducibile degli esseri umani. Contro quelle cure egemoni, quelle cliniche dell’antiamore che si limitano a fingere di aggiustarli.
C’era una volta l’Italia di Fellini, Visconti, Antonioni, Gadda e la Morante.
Oggi non c’è più e quel che passa il convento è una ‘nuova’ (per modo di dire, perché sono tutti quarantenni, ma in Italia si sa la gioventù è un’opinione) ondata di intellettuali. Ne scegliamo soltanto tre che sono tra i più considerati, e due di loro ci hanno fatto vincere anche qualche importante premio all’estero: Ammanniti, Garrone, Sorrentino.
Ho scelto questi tre perché mi sembrano accomunati da uno stesso linguaggio artistico e da una stessa lettura della attuale realtà italiana. Linguaggio e lettura che sono assai bene evidenziati dalla intervistona che ieri Antonio D’Orrico ha realizzato a Paolo Sorrentino, l’autore napoletano che ha diretto film già divenuti di culto, L’uomo in più, Le conseguenze dell’amore e soprattutto Il divo.
Nella intervista D’Orrico tanto per stare con i piedi per terra, paragona il nuovo e primo romanzo di Sorrentino che sta uscendo da Feltrinelli, a il Pasticciaccio brutto di Gadda. D’Orrico ripete il paragone più volte nell’intervista tanto che siamo portati a credergli se non fosse che siamo abituati a queste iperboli di D’Orrico che – per chi lo legge – ogni settimana su ‘Sette’ recensisce un romanzo o un saggio definendolo ogni volta immancabilmente “il più importante libro degli ultimi 50 anni.”
Non ho ancora letto, ovviamente Hanno tutti ragione – così si intitola il romanzo di Sorrentino – ma nell’articolone sono riportate la trama, e soprattutto le interessanti osservazioni di Sorrentino, il quale si conferma – come i suoi colleghi Garrone nel cinema e Ammanniti nella letteratura – epigoni di una sorta di arte che si è arresa alla incomprensibilità del reale (e soprattutto del reale italiano).
Al centro del romanzo di Sorrentino c’è un personaggio, Tony Pagoda, eroe campano dei nostri tempi, cantante da night che riceve i complimenti anche da Frank Sinatra, un ‘aspirapolvere di cocaina a tal punto da scandalizzare lo stesso medico svizzero che lo deve disintossicare e anche uomo “che è un kamasutra vivente”. Il catalogo delle sue performance amorose, ci informa D’Orrico, “va avanti per due pagine ed è puro godimento in tutti i sensi della parola.”
Tony Pagoda è, insomma, un eroe moderno, senza morale perché non conosce nemmeno cosa voglia dire questa parola, Sorrentino lo descrive così: ” È un vitalista, uno che dice: in ultima analisi, la vita è una favolosa rottura di coglioni”. E tra la rottura di coglioni e il favoloso, aggiunge il regista, lui opta per il secondo aspetto, godendosi la vita alla grande.
Un altro tema del libro è la “decadenza gastronomico/esistenziale” che secondo D’Orrico e Sorrentino fungevda cruda analisi della società contemporanea: “metafora della vita fasulla e intellettualoide che viviamo.”
Il libro, par di capire è una cavalcata di 264 pagine in quella che Sorrentino definisce “una valle di lacrime e mozzarelle”, ovvero l’Italia, con Roma, la città di Roma che è secondo il regista “una impressione, una Sindone. Sbiadita. E dentro non c’è nessun dio” (con la d minuscola of course).
E il libro è pieno di personaggi grotteschi, senza senso morale, né buoni né cattivi, che si lasciano vivere e compiono sbagli e misfatti più per apatia e sbandamento che per vera convinzione o cattiveria, esattamente come nei film di Garrone o nei romanzi di Ammanniti.
Il finale dell’intervista poi è paradigmatico. ‘Un’ultima domanda’, dice D’Orrico, ‘ Sorrentino, la filosofia di questo romanzo è quella del titolo ?’
Risponde il regista: “Sì, in ultima analisi penso veramente che tutti hanno ragione. Che è vero tutto e il contrario di tutto. E che come dice il maestro Mimmo Repetto, maestro di Pagoda, l’unica cosa importante è la sfumatura.”
Chiaro no ?
Ecco, io credo che davvero il quadro che si ricava da questa intervista e dalla ‘poetica’ di Sorrentino, Garrone e Ammanniti sia proprio questa rinuncia, questa resa. Il mondo è una porcata ed è anche incomprensibile. Tutto è vero e tutto è falso allo stesso tempo, e tutto va bene. E tutti hanno ragione.
Un trionfo ‘relativistico’ che in Italia sembra ormai aver messo tutti d’accordo, anche se ci siamo arrivati come al solito con una ventina di anni di ritardo, da quando Robert Altman realizzò ‘America oggi.’
Oggi sembra quasi una bestemmia, per certi ambienti intellettuali, pronunciare la parola ‘speranza’. Non parliamo poi di ‘morale’.
Se Tutti hanno ragione, però, come è evidente, è vero anche che Nessuno ha ragione. Il tutti hanno ragione di Sorrentino è spaventoso perché abdica alla ricerca di un senso. Dà per definizione il presente – e anche il prossimo – come inconoscibile e dunque estraneo e immune da un qualsiasi reale coinvolgimento personale.
Siamo chiamati ad assistere ad un teatro assurdo, dove anche a noi è richiesto di recitare -per venti minuti, per una giornata o un mese – la nostra parte.
L’unica chiave di lettura, perciò, è il grottesco e l’eccesso. Perché con altri strumenti – quelli tradizionali – ogni interpretazione della realtà è destinata a fallire.
Ma l’altro, in questo teatro dell’assurdo, è solo fenomeno macchiettistico, è solo tragedia o orrore, stupore o assenza. L’altro è, cioè, niente. Niente che ci riguardi veramente.
No, ammiro Sorrentino per il suo cinema e la sua abilità nel costruire storie, ma non è vero che Hanno tutti ragione.
Per me la vita è altro. La ragione c’è, ed io la trovo dentro me stesso (e non nello specchio confuso che mi rimandano gli altri), e trovandola dentro me stesso, la riconosco come bene per essere utile agli altri, e non per essere soltanto uno spettatore di un teatrino insignificante.
Signore, fammi vivere di un unico, grande sentimento scriveva Etty Hillesum nei suoi Diari, pochi mesi prima di essere mandata nelle docce di Auschwitz – fa’ che io compia amorevolmente le mille piccole azioni di ogni giorno, e insieme riconduci tutte queste piccole azioni a un unico centro, a un profondo sentimento di disponibilità e di amore.
Preferisco questo, francamente, alle sfumature di Tony Pagoda…
fabrizio falconi
Carissime amiche e carissimi amici,
l’essere umano ha sempre avuto bisogno di modelli da imitare, anzi si può dire che le culture storiche si formino proprio attraverso l’imitazione di specifici modelli di umanità.
L’antropologia ci insegna che gli uomini sono dominati da intensissimi desideri, che però spesso non hanno alcun oggetto predefinito. René Girard precisa: Una volta che i loro bisogni naturali sono soddisfatti, gli uomini desiderano intensamente ma senza sapere con esattezza che cosa, dato che nessun istinto li guida.
Da qui la necessità dell’imitazione.
Il bambino impara molto presto a desiderare ciò che gli adulti considerano importante, e ad imitarne il desiderio.
Il desiderio mimetico crea così i linguaggi e le culture.
Uno dei segni dell’esaurimento della nostra cultura occidentale è proprio che non possediamo più modelli di umanità da imitare, per cui i desideri dei nostri bambini non vengono più indirizzati verso l’imitazione di una qualche grandezza umana, e possono perciò scatenarsi tra gli oggetti del supermercato tecnologico ed il caleidoscopio accecante delle più varie, e spesso oscene e folli, immagini virtuali.
Se poi un gruppo di dodicenni violenta una coetanea tutti sembrano scandalizzarsi, quando non facciamo altro che educare i nostri bambini a credere che non ci sia più nessuno che valga la pena di imitare, se non forse qualche calciatore o ragazzina sculettante sul video, condannandoli così letteralmente a uscire dalla civiltà umana, e a divenire dei miseri, insaziabili e infelici, consumatori in-civili appunto.
In realtà noi umani abbiamo un bisogno straziante di imitare modelli che ci aiutino a diventare noi stessi. Chi, come i corifei delle culture postmoderne, pretende di non imitare nessuno, e di farsi tutto da sé, finisce irrimediabilmente per imitare il peggio dell’umano, quella galleria di mostriciattoli più o meno ributtanti che le televisioni continuano a propinarci giorno e notte, e di cui i giallognoli e acidi Simpson sono forse la rappresentazione più nobile e luminosa
Così il postmoderno newyorkese o milanese finisce per farsi per davvero “tutto da sé”, self made man appunto, ma per farsi “tutto di merda”, come cantava amaramente Gaber una trentina d’anni fa.
Come possiamo allora ricostruire modelli umani credibili e affascinanti, dopo tutte le dissoluzioni, le contestazioni antiretoriche, e le perdite di ogni tipo di aura, proprie della modernità e del nichilismo?
Chi potrà essere l’Uomo Vero e la Vera Donna da imitare, mentre questo teatro di marionette, questo mondo di figurine d’altri tempi, già scadute e andate a male, precipita nel suo caos liquido, e cioè nel suo liquame fognario?
E’ come chiederci: quale cultura umana saremo in grado di costruire sulla terra a partire dal XXI secolo, in questo terribile e affascinante spartiacque eonico?
Io credo che il nuovo modello umano da imitare, e quindi da diventare, si stia già formando in noi, e nasca da una sintesi inedita tra i caratteri più autentici della santità della tradizione cristiana e quelli più nobili propri dell’uomo moderno.
Il modello umano che si sta formando in noi è cioè un modello di nuova integrazione, di armonizzazione tra caratteri apparentemente opposti, quali la più ampia autonomia soggettiva e la più stretta inter-relazione non solo umana ma addirittura cosmica, la passività dell’ascolto e la creatività imprenditoriale, la libertà e l’obbedienza.
Questa nuova figura di umanità, per limitarci ad un solo esempio, è perfettamente consapevole che lo scopo della vita è la libertà, la sempre più libera espressione del proprio essere, e che l’obbedienza è solo una virtù condizionata, utile cioè solo se finalizzata all’ampliamento delle sfere della nostra liberazione. Ma sa anche che una libertà intesa come sequela caotica dei propri capricci momentanei, e cioè svincolata dall’ob-audienza di ciò che di più profondo è in noi, non conduce affatto alla nostra realizzazione umana, ma all’abbrutimento e alla schiavitù.
Nel 2002 la Conferenza Italiana dei Superiori Maggiori (CISM) tenne a Collevalenza un convegno proprio sul possibile rilancio del concetto di santità, e mi chiese di svolgere un intervento introduttivo, una sorta di provocazione, che svolsi in 3 tesi, in cui appunto tentavo di coniugare il modello tradizionale di santità cristiana con i concetti moderni di autenticità e di auto-realizzazione.
Le 3 tesi/provocazioni erano queste:
1) il santo è la persona più libera e più creativa che ci sia al mondo: la persona che realizza la propria sovranità rispetto ad ogni potere politico o religioso;
2) il santo celebra e trans-figura tutta la vita terrena senza condannare alcun aspetto vitale;
3) diventiamo santi guarendo da tutte le distorsioni e le dipendenze interiori, anche da quelle religiose: la santità è salute e salvezza sperimentate e condivise.
Potranno questo Uomo e questa Donna maggiormente integri divenire i nuovi modelli di umanità da imitare, e cioè i paradigmi di una nuova cultura planetaria?
Potrà l’integrità che è pienezza umana, salute, creatività, pace, potenza, in base alla catena etimologica che dal greco solfos/olon, attraverso il latino salus, arriva fino a sano, salvo, integro appunto, health, holy, heilige, wohl, etc. divenire il carattere principale del nuovo modello di umanità nascente?
Io credo di sì, io credo che questa umanità più integra e quindi più felice si stia già formando in noi, e che saprà conciliare e sintetizzare in forme nuove e inedite i grandi tesori della tradizione spirituale ebraico-cristiana, le grandi acquisizioni, anch’esse sostanzialmente evangeliche, della modernità, insieme agli straordinari insegnamenti che ci vengono da tutte le altre tradizioni culturali e spirituali della terra.
E non sarà questa una forma nuova e più radicale di imitazione dell’Uomo pienamente realizzato nella sua natura divina, e cioè di Imitatio Christi?
Allora l’uomo è veramente uomo,
quando, giocando, si diverte con le cose.
SCHILLER
Ho la fortuna di lavorare con i bambini e, alcuni anni fa, nelle classi in cui insegno, ho giocato con loro a disegnare il volto.
Ci siamo divertiti a guardarci, a comunicarci le nostre caratteristiche, a cercare il materiale che sentivamo più adatto per connotarci e, con esso, a disegnare le nostre facce.
Ne è uscito un video intitolato INTERFACCE montato da due operatori di AVISCO – BRESCIA (www.avisco.org).
FACCE fresche e sorridenti di bambini.
FACCE che si guardano, si riconoscono, si compongono e scompongono.
FACCE interattive, intermittenti, interessanti, intere, interrogative, interminabili.
Nel libro “Darsi pace” Marco scrive che la ricerca spirituale autentica possiede molti caratteri simili alla ricerca artistica, è cioè un gioco fatto molto seriamente, come sanno giocare i bambini. (pag. 25)
Da quando frequento i corsi di liberazione interiore, mi viene da associare il gioco fatto con gli alunni al lavoro che compiamo nel cammino di trasformazione.
Riconoscere le nostre emozioni, i pensieri distorti, le maschere che ci siamo costruite; accordare mente, cuore, parola e azione liquidando le nostre falsificazioni; integrarci in unità sempre più coesa fa emergere il nostro vero VOLTO e ci dona gioia e senso di liberazione.
Mi è venuta così l’ idea di proporvi lo stesso gioco per giocarlo insieme proprio come sanno giocare i bambini.
Che ne dite?
Io comincio così:
mi piacciono i fiori e, da quando frequento la montagna, mi piacciono in modo particolare i fiori di roccia; li trovo belli per l’intensità dei loro colori e perché riescono a vivere in poca terra e a quote elevate. Con questi fiori disegno il mio volto:
Vi va di giocare con me?
In questo periodo di crisi tutte le figure umane sono chiamate a rinnovare la propria identità e a trovare nuova linfa per le sfide epocali che ci troviamo ad affrontare.
A tale lavoro faticoso ed entusiasmante sono chiamate anche, e forse soprattutto, quelle persone che hanno fatto una scelta di vita consacrata, di totale dedizione alla ricerca spirituale.
In questo senso è molto importante e proficua, nei nostri gruppi Darsi Pace, la partecipazione di religiosi e religiose, i quali, con la loro presenza, testimoniano la volontà di cambiare, di mettersi in discussione, aprendosi alla ricerca di nuovi itinerari trasformativi.
Come afferma Suor Gina nella sua testimonianza: “il Signore da la sua grazia secondo la natura di ciascuno, adatta il suo progetto di misericordia e di salvezza alla capacità e ai tempi di ciascuna persona, perché lui è il primo a rispettare la libertà di ciascuno di noi”.
Ed è proprio questa libertà di ricerca, questa attenzione vigile ai segni dei tempi, che ci consentono di procedere sul cammino, in quell’equilibrio sottile tra fedeltà e obbedienza alla tradizione ricevuta e ascolto umile della voce dello Spirito che ci chiama sempre a scelte coraggiose e innovative.
Affronteranno questi temi le relazioni che Marco Guzzi terrà domani, 9 febbraio, a Bergamo, all’interno del Convegno della Provincia Italiana dei Missionari Monfortani (info. www.monfortani.it – 035.3690411).
Ecco il titolo delle relazioni (mattutina e pomeridiana):
Una segreta fioritura Tracce di aurora nella notte occidentale
Prepararsi a diventare una umanità nascente La formazione alla perenne trans-formazione
Nel mese di marzo pubblicheremo inoltre, sempre sul tema della trasformazione delle linee formative della vita consacrata, la conferenza di apertura dell’anno accademico dell’Istituto di Teologia della vita consacrata “Claretianum”, tenuta da Marco il 23 ottobre 2009.
Fin da piccolo, quando ho ricevuto in eredità il pianoforte di mia nonna sono rimasto affascinato dalle possibilità espressive di quello strumento.
Ma, era lo strumento ad avere quelle qualità espressive o, più sottilmente, ero io che avevo finalmente la possibilità di ritrovare me, o meglio, la parte più intima di me, quella più preziosa, più intensa, abissale o astrale, siderale, nell’intreccio di quei suoni meravigliosi?
Col tempo mi si è sempre più chiarito il senso di questo rapporto con i suoni. Ho capito che il suono non è ancora musica, ma entro determinate condizioni può essere un veicolo ad essa.
Ho imparato a riconoscere che la musica è intimamente legata alla mia essenza, come lo può essere per chiunque, ascoltatore o esecutore, quando l’ascolta nel pieno esercizio delle sue funzioni di essere umano.
La musica non è una “cosa”, qualcosa di esterno a me, che influisce su di me, ma sono io stesso, nel momento in cui riesco a mettere in connessione i suoni fra loro e quando avverto ciò che si muove in me in questa dinamica di rapporti, il tutto all’interno di un progetto che diventa sempre più chiaro mano a mano che mi avvicino alla fine del percorso.
La musica è possibile, così, solo in presenza di Spirito, perché è lo Spirito ad essere sullo sfondo di questo evento.
Non tutti ne siamo consapevoli, ma è ciò che avviene sempre quando ascoltiamo o facciamo musica.
Suonare più o meno bene significa riconoscere questa verità e produrre sullo strumento un gesto spontaneo, anche se frutto di un lungo e faticoso percorso, che incarni la giusta direzione.
Non tutti riescono ad accorgersi di questo, perché il sentire comune tende ad identificare i suoni con la musica, a scambiare l’influenza che i suoni hanno su di noi e la relativa attività psichica con l’esercizio della coscienza libera.
In questo contesto di pensiero radicale, l’esperienza musicale può diventare una via di liberazione interiore, vicina al percorso proposto a noi da Marco Guzzi.
Nei gruppi di Marco stiamo facendo, nella parte dedicata all’indagine psicologica, un lavoro di riconsiderazione di tutte le dinamiche relazionali della nostra vita, riconoscendo come in ognuna di esse siano da distinguere gli elementi oggettivi dalle proiezioni nevrotiche della nostra psiche.
Queste proiezioni, identificazioni, o veri fraintendimenti della realtà (male-dizioni come le chiama Marco) impediscono il libero esercizio della nostra coscienza generando disarmonie in noi stessi e nei nostri rapporti interpersonali.
Tornando all’esempio musicale, quando studio un brano musicale, ho di fronte a me due realtà: un progetto ideale, trascritto nello spartito, e i suoni per realizzarlo (l’equivalente di queste due realtà, in ambito edilizio, sono rappresentate dal progetto di un edificio, disegnato da un architetto, e i vari materiali per realizzarlo).
La musica nasce dalla coscienza libera di un musicista capace di trarre da queste due realtà oggettive un vissuto unico e irripetibile.
Dal modo in cui sono disposti i suoni sulla carta, intuisco le linee guida del progetto, mentre dall’ascolto reale percepisco le qualità intrinseche di ogni singolo suono.
Se non riconosco, non so dar giusto peso alle singole necessità dei suoni che accosto fra loro, rischio di perdere la trasparenza del tessuto sonoro, nello stesso tempo, se non avverto il gioco delle tensioni interne alla struttura musicale, e quindi la direzione delle frasi, rischio di creare qualcosa di sterile e statico.
L’atteggiamento di fiducia che riponiamo in questo lavoro è fondamentale per la sua stessa riuscita e può nascere solo da un condizione di coscienza pacificata e in ascolto.
Anche nel lavoro proposto da Marco, con pazienza e determinazione, cerchiamo di intravedere, attraverso la purificazione del nostro vissuto, il progetto trascendente che, giorno per giorno, andiamo a incarnare nella nostra vita, per trattarla come una vera opera musicale, risonante e armoniosa.
L’armonia, infatti, in musica è sempre il risultato dell’equilibrio e dell’integrazione di tutte le tensioni che noi possiamo percepire.
Non quindi un’esperienza di stasi, ma il vissuto dinamico di elementi in opposizione reciproca che, nell’arco evolutivo di un tragitto, accrescono il livello della tensione, oppure la pareggiano, giustificandosi a vicenda, fino a integrarla totalmente al termine del percorso.
Penso che il desiderio più profondo di molti di noi sia: riuscire a rendere la propria vita armoniosa, consapevolmente vissuta, un’esperienza nella quale ogni evento trovi la sua giustificazione come in un mirabile progetto pregno di significato, proprio come la composizione ed esecuzione consapevole di un brano musicale.
In questi giorni mi è nato un bambino.
In questi giorni freddi, nel cuore dell’inverno, mi è nata una figlia.
E ancora una volta – per la terza volta – assistendo in diretta all’evento, sono rimasto senza parole osservando come la vita meravigliosa possa sbocciare, apparentemente dal nulla. Da un ordine di infinitesimale piccolezza a un essere strutturato, che sin dai suoi primi vagiti manifesta una personalità propria, una attitudine di diversità, un ‘carattere’, una propensione che nessuno sembra possa avergli insegnato.
E come sempre, mi sono trovato a fare i conti con l’emozione, ma anche con le ansie per il futuro. Che vita sarà ? Che destino sarà ? Che mondo troverà, e lei, che posto avrà nel mondo ?
Sono sicuro che su questa dicotomia – è gia tutto scritto O siamo noi a decidere quale vita avremo ? – si gioca tutto quello che chiamiamo ‘Spirito del Tempo’. E assai spesso ne abbiamo discusso anche qui a Darsi Pace.
Io sono convinto che la vita, la nostra vita è come una assicella in equilibrio tra queste due verità: ciò che ci viene consegnato, da una parte; e ciò che dobbiamo fare noi, che non è poco.
Ripenso alle parole di Gesù (Lc 11,5), che mi sembrano mai così chiare come in questo momento:
“Ebbene io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!”.
Un padre non darà pietre al posto del pane al proprio figlio. Un padre farà il suo. Ma poi, sarà il figlio a farsi la sua strada. Sarà il figlio a dover imparare a chiedere. A bussare alla porta giusta.
E, io mi dico, se chiederà, se busserà, se vivrà la sua vita, lo Spirito si farà trovare.
Fabrizio Falconi.
La vità è bella?
Picchiare qualcuno è giusto?
Dio esiste? e Babbo Natale?
La Morte è cattiva? e gli zingari?
Lui/Lei è buona o cattiva?
Domande impegnative. Le risposte poi non ne parliamo.
Vi siete mai chiesti a che età si comincia a fare questo tipo di domande?
Prima di rispondere fermatevi un attimo. Datevi una risposta e poi continuate a leggere.
Irene, mia figlia, ultimamente m’insegue con queste domande. Dirette. Puntuali. Insistenti. Irene ha quasi sette anni. Come lei anche le sue amiche non scherzano.
Avete capito quanto sono tranquillo ogni volta che Irene mi dice: “Papo, ma … ” oppure “Papo vieni dobbiamo parlare …”
“Cosa” rispondere lo ritengo un problema minore rispetto al “Come”. Come si risponde a Irene? Come si risponde a chi ti fa queste domande?
Mentre ci riflettevo mi sono accorto che quelle domande ci accompagnano sempre. Ci girano sempre intorno. Fin da piccoli. Mi sembra che solo i bambini riescano però ad andare dritti al punto mentre noi svicoliamo … noi, abitanti delle terre di mezzo (nessun riferimento al Signore degli anelli) dove tutto dipende da altri o da qualcos’altro. Ci esprimiamo con un linguaggio ambiguo dove non è mai chiaro cosa è giusto, chi è buono o cattivo.
Chi ascolta oggi, un umano così? Nessuno.
Non poche volte mi sono domandato come mi vede mia figlia o quel bambino e in generale gli altri. Come vedono il mondo che gli racconto e che esprimo con il mio fare. Come rispondo.
E’ tempo di prenderci cura non solo del contenuto (il COSA) ma della sua corretta ricezione. Rendersi conto che dal COME dipende anche la credibilità del messaggio. Potremmo dire che è un fatto di “stile”.
Le risposte di mia figlia (e dei bambini in generale) sono bellissime. Secche, Dirette e senza mezzi termini. Una lucidità impressionante. Io rido di gusto. A volte no. Poi ridiamo insieme. A volte no. Spesso ti accorgi che è necessario riflettere o far riflettere. Un bel parlare insieme… fino a quando non abito (abitiamo) la terra di mezzo (potrei sintetizzare così il percorso Darsi Pace, fuori dalla terra di mezzo).
Vedere il mondo con occhi “altri” è una grande opportunità. I figli e in generale tutti i bambini, sono una via privilegiata perchè sono gli occhi “altri” più vicini a noi. Viviamo in tempi che mai come prima offrono questa possibilità.. Naturalmente c’è anche chi pensa sia un problema, una “maledizione”. E’ l’una e l’altra cosa insieme … dipende a cosa diamo più spazio a quale parte alimentiamo di più. A quanto vogliamo incontrare gli altri. Questo necessita di uno stile. C’è da domandarsi quale …. e quale differenza produce rispetto ad un altro 🙂
Concludo con un simpatico aneddoto tratto dal blog di Luca Di Biase
Un domenicano e un gesuita stanno leggendo il breviario. Il gesuita fuma. Il domenicano osserva: “Ma come: fumi mentre leggi il breviario?”
E il gesuita: “Sì, ho ottenuto il permesso dal vescovo…”
“Anch’io ho chiesto il permesso, ma mi è stato negato” dice il domenicano.
“Ma come glielo hai chiesto?”
E il domenicano: “Ho detto al vescovo: ‘Eminenza, posso fumare mentre leggo il breviario?’ E lui mi ha cacciato in malo modo”.
Il gesuita sorride: “Hai sbagliato la domanda. Io ho chiesto: ‘Eminenza, posso pregare mentre fumo?’ E lui ha approvato con gioia…”
Photo credit: Alessandro Pinna, un caro amico.
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