Testimonianza di Maria Grazia: la forza per andare avanti
Nihil ad excludendum – di Fabrizio Falconi
Mi sembra che un atteggiamento mentale molto diffuso oggi, che riscontro tra amici anche colti o intelligenti, quando si affrontano i cosiddetti ultimi, cioè le questioni fondamentali – sempre le stesse della nostra vita – chi siamo da dove veniamo e dove andiamo – sia quello di asserire con certezza, a prescindere da una qualsiasi fede, ma di asserire con certezza soltanto in negativo , cioè escludendo a priori.
I fantasmi ? Bah. La vita dopo la morte ? No, non ci siamo. Le percezioni extrasensoriali, le visioni, la metempsicosi ? Buonanotte !
Eppure io credo invece che, proprio alla luce delle attuali conoscenze della fisica, e di quello di incredibile che stiamo scoprendo, occorrerebbe da parte di noi umani nelle nostre valutazioni di giudizio, una dose infinita di umiltà. E basterebbe dedicare un po’ di tempo alla lettura di uno qualsiasi dei grandi libri di fisica divulgativa disponibili sul mercato, per concludere che l’unica verità che potremmo affermare, sostenibile senza timore di smentita è questa: ” Nihil ad excludendum”.
Non possiamo escludere nulla, dovremmo mantenere la mente molto molto aperta, se possibile.
Ecco quel che scrive ad esempio Martin Rees, uno dei maggiori astronomi moderni, Research Professor della Royal Society all’Università di Cambridge e Astronomo Reale d’Inghilterra in un libro capitale, Il nostro ambiente cosmico ( edizioni Adelphi, pag.183).
“Svariati scenari conducono a universi multipli.
Andrej Linde, Alex Vilenkin, e altri hanno simulato al calcolatore un’inflazione “eterna”, nella quale più universi emergono da big bang distinti in regioni disgiunte dello spaziotempo. Alan Guth e Lee Smolin hanno immaginato, partendo da ipotesi diverse, che all’interno di un buco nero possa germogliare un nuovo universo che espandendosi formerà un dominio spaziotemporale a sè stante, a noi inaccessibile.
Lisa Randall e Raman Sundrum suppongono invece che possano esistere altri universi separati dal nostro grazie a una dimensione spaziale in più. Questi universi disgiunti potrebbero tanto interagire gravitazionalmente quanto non avere nessun effetto uno sull’altro.
Gli altri universi sarebbero domini spaziotemporali separati; non potremmo neanche dire sensatamente se sono esistiti prima del nostro o esistono insieme o esisteranno dopo, perchè questi concetti hanno senso solo finchè possiamo usare una misura del tempo unica, comune a tutti gli universi.
Alan Guth e Edward Harrison hanno addirittura ipotizzato che si possano fabbricare universi in laboratorio facendo implodere un certa quantità di materia fino a trasformarla in buco nero. Per caso il nostro universo è il risultato di qualche esperimento eseguito in un altro ? Secondo Smolin, l’universo-figlio potrebbe essere governato da leggi che recano l’impronta di quelle che prevalgono nell’universo-genitore; ma in tal caso potremmo resuscitare, sotto nuova veste, l’argomento teologico del progetto, rendendo ancora più incerto il confine tra fenomeni naturali e soprannaturali.”
Alla luce di queste semplici conclusioni alle quali sta giungendo la fisica moderna, la scienza – non qualche stregone – come è possibile per noi escludere qualcosa ? Come è possibile escludere l’esistenza o la realtà di fenomeni che non comprendiamo ? Quale diritto, quale libertà arbitraria può indurci a dire: “le cose stanno così” ?
Fabrizio Falconi
in testa, una foto della Nebulosa dell’Aquila (Eagle), distante 5.700 ANNI LUCE dalla Terra e soprannominata I pilastri dell’Universo.
L’indifferenza
Nel bellissimo quanto triste romanzo quasi autobiografico “La masseria delle allodole” Antonia Arlan racconta la diaspora della sua famiglia; a tale scopo descrive la strage subita dal popolo armeno residente in Anatolia nel 1915.
Dopo lo sterminio di tutti gli uomini (vengono assassinati tutti i maschi, bambini compresi), ai restanti (donne, bambine e anziani) viene ordinato di abbandonare la piccola città dell’Anatolia. Questi formano una carovana e si dirigono verso Aleppo; inizia per loro un vero e proprio calvario. Le razzie, le violenze dei soldati turchi e la penuria di cibo riducono gli Armeni in uno stato miserabile.
Il mio intento non è parlare degli armeni, (anche se la lettura di questo romanzo e del suo seguito “La strada di Smirne” mi ha permesso di conoscere questo ennesimo genocidio compiuto nella storia), quanto riflettere su quanto segue.
Ciò che più mi colpisce in questa come in circostanze analoghe (es. lo sterminio degli ebrei) non è tanto la malvagità dei persecutori, individui privi di anima con cui in ogni epoca il genere umano ha dovuto fare i conti, quanto l’indifferenza di chi non è direttamente coinvolto.
Narra in alcuni punti il racconto “La masseria delle allodole”:
– I contadini, serrati in casa, non uscivano più di notte in quell’estate di orrori, evitavano di vedere e di sentire…-
-I superstiti delle varie famiglie si stringono insieme privi di curiosità verso qualsiasi cosa che non sia il cibo, qualsiasi resto di cibo……Per un momento, tutti covano un’indistinta speranza
“ Qualcuno ci vedrà, qualcuno capirà che cosa ci stanno facendo”. Ma la gente lungo la strada, invece, sembra non vederli, li attraversa con occhi di vetro, o si scansa con visibile disgusto –
Gli altri……..gli altri, in ogni contesto, non intervengono (tranne eroiche eccezioni) o perché paralizzati dalla paura o perché sono ossessionati dall’idea di avere un “nemico interno” che tutto sommato è giusto far sparire. Il pericolo di quest’ultima “convinzione” non è certo impossibile in un periodo di riaffermazione dell’identità nazionale e etnica dei rispettivi stati.
Sinceramente mi angoscia tanto la sola idea di poter far parte di questa categoria di persone (purtroppo non escludo che la paura mi potrebbe bloccare!).
In fondo è cronaca dei nostri giorni l’aggressione in metropolitana di una giovane da parte di una donna con problemi psichici …nella totale indifferenza degli altri passeggeri.
Gabriella S.
Il regalo per il primo compleanno di “Darsi Pace”
Dopo una lunga riflessione ho deciso di ringraziare pubblicamente Rosella e Michele per la loro presenza tra noi .
Rosella è in nostra compagnia ormai da tempo , presente al punto che se un giorno non leggerò un suo pensiero mi preoccuperò seriamente, ha sempre parole di incoraggiamento che ci dona sapientemente .
Michele si è presentato a noi da poco tempo e lo ha fatto in modo dirompente al punto da far temere un grave fraintendimento che in realtà non si è verificato anzi direi che al difficile dialogo iniziale ha fatto seguito una apertura che mi ha insegnato molto .
Spesso mi capita di essere in contrasto con un altro modo di vedere le cose e la fuga ( quando mi sento in minoranza ) sembra sempre la via maestra, poi però nulla cambia anzi tutto si complica sempre più, l’ennesima occasione perduta !!!
Assistere a come voi siete riusciti a stabilire una sintonia partendo da posizioni che sembravano distanti anni luce mi ha veramente e positivamente sorpreso.
Perdonatemi se mi sono permesso di dare risalto alla vostra amicizia neonata ma non ho resistito alla voglia di farvi sapere che vi vogliamo bene e siamo felici di sapervi a bordo, questa piccola esperienza alla quale abbiamo assistito ci ha fatti crescere .
Grazie per il bel regalo
Un doppio abbraccio Ale
Kings of Leon – ritorno al rock
Breve intermezzo musicale in questo mare magnum di alte riflessioni, emozioni, cultura, spirito e sentimenti…. una piccola pausa di evasione ogni tanto ci vorrà pure, no?
Propongo questa band americana di Nashville per la quale da pochi mesi ho perso la testa, è stato un colpo di …. fulmine, ma ho capito che il rock non è sul viale del tramonto, il rock è tornato … più vero e bello che mai, largo ai ….. Kings Of Leon!
Veicolato dall’attenta sensibilità di mio figlio Edoardo mi sono ritrovato ad ascoltare con la giusta predisposizione uno dei più accattivanti brani della band : Fans, … e da allora non ho smesso più.
Si tratta di rock vero, puro, senza mistificazioni, con dentro tutta la storia e la tradizione di questo genere e la proiezione verso i suoi orizzonti prossimi venturi.
Si tratta di quattro ragazzi, tre fratelli Caleb (voce e chitarra acustica), Matthew (chitarra elettrica) e Nathan (percussioni) ed un cugino Jared (basso elettrico), i Follwill che in breve tempo, con quattro solidi album e lunghe ed apprezzate tournee in giro per il mondo (in particolare in Inghilterra e in Australia) si sono fatti spazio e nome tra gli appassionati ed i critici (la rivista Rolling Stone è entusiasta). Basta dire che nello scorso 2008 in Inghilterra il loro ultimo album “Only by the night” ha venduto più dei veterani di casa, i Coldplay.
Figli del pastore pentecostale Leon, in onore del quale è dedicato il nome della band, i tre fratelli sono cresciuti girando in lungo ed in largo il centro e il sudest degli stati uniti assieme con il papà, predicando, pensate un po’, il vangelo cristiano, e ricevendo al contempo una ottima educazione musicale.
Con un suono lucido che, nel rispetto della tradizione, mescola sapientemente le sue radici rock, country, folk, pop, blues con le più attuali influenze del garage e le oscurità dell’hard, che strizza l’occhio all’indie rock e si compiace di atmosfere psichedeliche, questi quattro ragazzi (tutti sotto i trent’anni) confezionano uno dopo l’altro brani energici, singolari, piacevoli, fluidi ma soprattutto veri, per il puro piacere di suonare e cantare insieme, far ballare, emozionare e divertire.
Perché i Kings Of Leon a Darsi Pace?
Perché … mi danno, e spero ne diano anche a voi, veramente pace, gioia e piacere, uno svago puro, limpido e armonico al quale appena posso mi abbandono ……
Perché … i tre fratelli hanno affermato sorridendo in un’intervista il grande influsso dell’educazione religiosa e del Jack Daniel’s (prodotto tipico del Tennessee).
Perché … citano tra i propri ispiratori i Joy Divisione e i Cure, e sanno arrivare dritti al cuore.
In Italia non sono ancora mai venuti, ma i figli del pastore pentecostale ne han fatta di strada.
Magari non vi interesseranno più di tanto e forse siete scettici quanto basta sul sano potere del rock, ma vi invito a provare.
Credo di avere detto le cose più importanti, non mi resta a questo punto che mostrarveli, e penso che il miglior modo sia questa versione live di Arizona al festival di Glastonbury (Inghilterra) 2008, brano maestoso ed epico che evoca nostalgici paesaggi lontani e sconfinati dove perdersi per ritrovarsi … nella speranza di portarvi per un po’ lontano, molto lontano da qui….
e, per apprezzare le doti accattivanti del sound di questa band, che come detto all’inizio mi hanno subito entusiasmato, a seguire anche la scintillante ballata Fans, con notevoli echi degli Who (di R. Daltrey e P. Townshend), sempre in una esibizione dal vivo stavolta al Festival di Reading (Inghilterra) del 2007, dove la voce roca potente e graffiante di Caleb ha modo di farsi notare insieme alle note della sua echeggiante, enfatica, chitarra acustica…
… e a tutti buona pace e buon ascolto, … poi, mi raccomando: di nuovo tutti al lavoro, eh!
Marco Falconi
Il Piacere della Bellezza – Prima Il Piacere Poi Il Dovere
“.. ma non hai ancora capito che viene prima il Piacere e poi il Dovere?”. Così mi apostrofò Marco in uno dei primi incontri. Cominciavo bene visto che fino ad allora avevo dato per scontato il contrario 🙁
Tutto sommato ero contento perché ero sulla buona strada. Cominciava un nuovo viaggio. Prima di Marco altri mi avevano aperto gli occhi e le orecchie. Forse stavo diventando più disponibile ad ascoltare. Un dono dell’età del “mezzo del cammin” immagino 🙂
“Si parte per conoscere il mondo si torna per conoscere se stessi …”
Così recita il testo della canzone “Oriente” di Niccolò Fabi che ben descrive il viaggio che sto facendo al quale per dare maggiore dignità ho voluto dare un titolo “Il piacere della bellezza“. Durante un viaggio capita di condividere alcune tappe insieme a persone inaspettate così come ho fatto quest’anno alla presentazione dei gruppi Darsi Pace. In quell’occasione mi sarebbe piaciuto invitare i partecipanti a dire la loro utilizzando il blog per ricevere delle “risonanze”. Adesso posso invitarli/vi a farlo 🙂
Comincio.
All’inizio pensavo che il piacere fosse un punto di vista un po’ come vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto all’occorrenza.
Scopro (meglio dire che divento consapevole) che è vero il contrario. Il piacere si realizza, è un modo di vivere, un desidero sempre presente che spinge ad approfondire a cercare le cose belle quelle che fanno stare bene e che danno pace.
Sarà per questo che leggo ad Irene, mia figlia, poesie e testi di canzoni che poi mi chiede di cantargli 🙂 ed ho capito l’espressione di Amos Oz “… la letteratura salverà il mondo”
Quello che più voglio “incarnare” del piacere è l’essere il motore del dovere, dell‘azione quella vera efficace che incide.
Anche il dovere è un’esperienza direte voi. Vero. Peccato che rimanda all’obbligo, preludio della tristezza. Infatti è la frase preferita per intristire e/o intristirsi. In confidenza vi dico che ogni volta che qualcuno mi dice che sono triste mi prende un colpo …. Perché mi ricorda che sto o sono uscito fuori strada… 🙁
Mi ritrovo piano piano e faticosamente a fare più attenzione a quello che mi piace fare e a non usare il verbo “dovere” in modo indiscriminato. Ad esempio quando coinvolgo mia figlia se non riesco a trasmettergli il piacere della proposta le parole si rivelano finte. E Irene mi fa tana (potenza dei bambini). Mia moglie pure 🙂 Tendo a stare lontano dalle persone sempre tristi perchè la tristezza è contagiosa come il piacere peccato che provoca danni. Il piacere come antidoto è una proposta che vi faccio.
Tra l’altro mi sono accorto che dove c’è più dovere tendiamo alla tristezza ma siamo ottimi consumatori (di tutto e di più) mentre dove c’è più piacere siamo più felici con relazioni più belle. Il consumo si limita alle cose essenziali.
Sono convinto che sia il piacere che il dovere sono”stati” che attraversiamo e abitiamo. La questione è: dove vogliamo abitare stabilmente? Scegliere la casa diventa il piacere di stare insieme ai figli, a mia moglie alle persone che incontro giornalmente, … ma prima ancora è il piacere di stare e costruire me stesso la casa migliore a mia disposizione (e anche l’unica).
Il piacere può essere così pedagogico, educativo, genitoriale, politico, … trasformandoci quasi in un io umano.
Naturalmente non mi è nè facile nè spontaneo. Appena mollo mi sbilancio dall’altra parte. Ma i risultati incoraggianti e le persone che ho vicino mi spingono a continuare questo viaggio.
Prima di terminare vi condivido un estratto del testo di un’altra canzone di Niccolò Fabi “Costruire“che mi risuona da diverso tempo …
“……
ma tra la partenza e il traguardo
nel mezzo c’è tutto il resto
e tutto il resto è giorno dopo giorno
e giorno dopo giorno è silenziosamente costruire
e costruire è potere e sapere
rinunciare alla perfezione
….”
Se qualcuno si è accorto che ho parlato solo del piacere e non della bellezza … a breve vi chiederò conto anche di questo quindi cominciate a pensarci 🙂
photo credit: Pink Sherbet Photography
Produci, consuma, crepa ovvero: tecnologia delle comunicazioni ed evoluzione umana
Si sente da più parti dire che la vita, a tutti i livelli dell’umano, si è fatta insostenibile. Questo “senso comune” è particolarmente rilevante per noi dei gruppi Darsi Pace che, muovendo proprio dalla varia fenomenologia dell’insostenibilità, tentiamo di risalire alle cause, ai motivi e ai moventi del non più sostenibile, che affetta di sé le esistenze nostre e altrui.
Alcuni di questi moventi sono chiaramente interni, hanno cioè a che fare con le nostre biografie, le nostre storie e le specifiche ferite che, una ad una, vanno risolte. Questo è il principale scopo del nostro lavoro nei gruppi. Altri moventi sono invece esterni, e corrispondono a quelle distorsioni generali, quelle forme di nevrosi collettive che abbiamo generato come società, e a cui ciascuno, anche inavvertitamente, dà giorno per giorno il suo contributo. Queste distorsioni sistemiche, strutturali potremmo dire, sono il bersaglio del lavoro che come associazione Darsi Pace intendiamo svolgere, da un lato spezzando con esse sul piano individuale ogni genere di alleanza, e dall’altro offrendo a tutti uno spazio di elaborazione di soluzioni comuni, anche culturali, al frangente epocale che ci tocca di vivere. Partendo da una sana critica dell’esistente. È quanto mi prefiggo ora di fare, analizzando un caso a me molto vicino: il mio quotidiano.
Osservando il mio stile di vita in modo, ho potuto costatare tutta una serie di abitudini molto singolari, che contraddistinguono il mio modo di lavorare e vivere da quello che fu il modo delle generazioni passate. Ecco ciò che su un piano molto fenomenico ho rilevato. Sulla base di una stima al ribasso, ho calcolato che ogni giorno ricevo tra le 30 e le 40 mail per motivi di lavoro; tra le 20 e le 30 mail tra contatti generici e contatti personali di amici, conoscenti e via dicendo. Totale: fino a 70 mail al giorno, festivi inclusi. Ho scorporato dal calcolo lo spam puro, che alcuni efficaci programmi mi aiutano a gestire. Se malauguratamente per un giorno non ho accesso al computer, il giorno successivo le mail saranno diventate 140, quindi 210 e così via.
Poi c’è il capitolo telefono cellulare, vero feticcio collettivo dell’onnireperibilità, del lavoro smart, dell’interconnessione pervasiva e totale a cui tutti oggi siamo assoggettati. Ebbene, io ricevo tra le 20 e le 25 telefonate di lavoro al giorno, circa la metà partono invece dal mio cellulare verso altri contatti di lavoro. Il totale del tempo medio che trascorro ogni giorno al cellulare è di due ore circa. Si aggiungono quindi i contatti personali di amici e conoscenti, che chiamano per un saluto o una chiacchierata e, last but not least, gli sms, sia privati che di lavoro a cui spesso è necessario rispondere immediatamente. Quando torno a casa, tra le 19.00 e le 19.30, ha inizio la teoria delle telefonate parentali: madri, padri, zii e altri cari, ciascuno desideroso di avere notizie, scambiare affetto, dare e ricevere conforto e attenzione. Di solito ricevo anche almeno una telefonata da qualche malcapitato operatore di call center che opera in outbound, il quale mi contatta per propormi pacchetti e offerte commerciali della natura più diversa.
È del tutto evidente che, in quanto homo sapiens fermo allo stadio evolutivo raggiunto nel neolitico, sono sprovvisto delle più elementari qualità necessarie a far fronte a una simile tempesta mediatica. Non sono in grado di gestire il sistema di aspettative che si muove attorno a me se non forzando mascheramenti e strutture difensive sostanzialmente arcaiche e infantili. Come me, credo la gran parte delle persone che conducono lo stesso mio stile di vita, e che vedo oscillare nelle loro relazioni tra un’aggressività nevrotica e un ritiro interiore di tipo narcisistico. Preciso che non ho particolari responsabilità pubbliche e non occupo posizioni di potere; sono dunque portato a credere che quanto mi capita abbia un carattere di sostanziale medietà. Nel caso, poniamo, di un politico tutto ciò credo vada elevato a potenza di 10. Basterebbe questo a spiegare, se non giustificare, il livello patologico raggiunto dalle nostre classi dirigenti, che oggi ci scandalizza particolarmente, perché si esprime in sfrenatezza dei costumi, degrado morale e altre forme di disordini del comportamento. Io credo che le loro distorsioni siano sintomi, soltanto sintomi, e che certe loro patologie presuppongano una fisiologia che è, purtroppo, comune.
E dunque? I dunque credo siano perlomeno due:
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dobbiamo tutti e ciascuno sforzarci di riportare “il mondo a quote più normali”, come cantava Battiato in quella splendida canzone che è Povera Patria. Non si può, semplicemente non si può forzare al massimo quelli che sono limiti fisici e fisiologici nella gestione delle relazioni umane. Io credo che una spiritualità compiuta e incarnata debba aiutarci anche a intraprendere sentieri di sano realismo, a rispettare noi stessi e la nostra corporeità, a prendere cognizione del tempo e dello spazio, a tenere in conto i nostri bisogni e a non violentarci “senza ragione”. Senza ragione, cioè in ultima analisi nichilista, è quella ideologia strisciante – la sola ideologia sopravvissuta in Occidente – che si esprime nel motto: Produci Consuma Crepa. È una spirale particolarmente afflittiva, che tende ad avvitarsi verso il basso, che tende a una mercificazione quasi totale delle nostre esistenze e che tocca quasi tutti noi. Produrre ricchezza per consumare di più. Consumare di più per stimolare la produzione di beni e servizi, sempre più voluttuari e superflui. Ridistribuire il reddito prodotto al solo fine di attivare nuovi consumatori. Stimolare i consumi facendo ricorso ai più artificiosi mezzi di manipolazione di massa. Sino a quando si è “attivi”. Terminato il ciclo (per anzianità, malattia, handicap, povertà) essere proiettati fuori, nelle sacche di marginalità antiche e nuove che la nostra società produce in continuazione. La via d’uscita da un simile avvitamento mi pare essere questa: evolvere come singoli e come società verso nuovi “beni”, che siano autenticamente tali. Gli attuali consumi e prodotti hanno tutti o quasi un corrispettivo meramente materiale. Sono cioè “merci” che possono essere riscattate e scambiate, in quanto il loro valore è meramente monetario. Vedo però all’orizzonte concretizzarsi la possibilità, realmente evolutiva, di nuove entità, percepite sempre più come essenziali, che non potranno essere scambiate con altri beni materiali, ma riscattate solo mediante un investimento di tempo, di emozioni, di affetti. Saranno i beni “spirituali”, o se si vuole, i consumi umanizzanti, a trasformare la struttura dell’economia, e dunque a modificare e fare evolvere anche le nostre esistenze e i nostri comportamenti. La scoperta di queste nuove datità ci aiuterà a ridimensionare gradualmente il nostro sforzo produttivo, ovvero a riorientarlo, e ad attribuire nuovi significati al concetto di benessere, come mi pare già stia accadendo nei vari processi di elaborazione di modelli alternativi alla misurazione della ricchezza di un paese sulla sola base del Prodotto Interno Lordo.
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La straordinaria potenza dei mezzi di interconnessione che oggi possediamo e di cui tutti facciamo uso possiede tuttavia anche una matrice evolutiva, il cui senso positivo va colto e attuato, se non si vuole ristagnare in fiacchi rimpianti di un’età dell’oro, in cui tutto era più semplice e piano. E in cui purtroppo era protagonista la guerra, gli isolamenti nazionalistici, la miseria morale e materiale, gli olocausti e tutti gli orrori che hanno scandito il Secolo Breve. Mi chiedo: cosa potenzia dell’umano in quanto tale l’attuale tecnologia? Che scatti evolutivi questa sembra presupporre nei suoi utenti? Che caratteristiche del tutto inedite deve o dovrebbe avere quest’uomo tecno mediatico del XXI Secolo, per adeguarsi ai mezzi di cui ogni giorno fa uso? Io credo che tutto oggi, dai cellulari alla posta elettronica, dai social network ai blog, sino al paradigma della “portabilità”, cioè all’emancipazione della comunicazione dai limiti fisici dello spazio e del tempo, prefiguri un uomo pienamente e compiutamente relazionale, e in qualche misura perfino spiritualizzato. Interconnesso cioè, in misura impensabile sino a qualche decennio fa, con infiniti “altri”. Ciò che la tecnologia oggi presuppone, senza averne precostituito le condizioni, è una nuova identità, non più arroccata nell’isolamento difensivo, ma polifonica e processuale. Un’identità dinamica e dialogica, che è delle persone e dei gruppi, nella quale l’Io e il Noi anticipa ed evoca i Tu e i Voi al livello della propria stessa costituzione. Nuove soggettività umane intessute in larghe trame di relazioni, soggettività sempre da ritessere e ricevere di nuovo come una donazione di senso, che viene dall’Altro. Malauguratamente, la tecnologia offre solo i mezzi. Non determina cioè i fini, e men che meno elabora le condizioni di possibilità autentiche perché tutto questo si avveri. Ho anzi la sensazione che, forzando in noi attitudini che non ci è stato dato di consolidare, la nostra potentissima tecnologia finisce per produrre il proprio contrario: distorsioni difensive, chiusure e isolamenti e ripiegamenti narcisistici, irrelazioni tanto più gravi e dolorose, quanto più la struttura antropologica bio-psico-spirituale non è adeguata ai mezzi di cui fa uso, e dunque – sollecitata oltre i propri limiti – è portata a difendersi. I moderni mezzi di trasporto ci consentono di viaggiare a 200 chilometri orari, ma se andiamo a sbattere a quella velocità moriamo, perché il nostro fisico non è adeguato a simili sollecitazioni. È allora urgente che ci si prepari giorno per giorno a questo grandioso salto evolutivo, di cui le ICT – Information Communication Technologies non sono allo stato attuale che una promettente metafora. Ai politecnici, ai centri di ricerca e sviluppo, all’educazione intellettuale e alla formazione scolastica che ci abilità all’uso dei nuovi mezzi, bisognerebbe affiancare, o far precedere, una nuova pedagogia dell’umano, nuovi cantieri e laboratori in cui forgiare un’umanità adeguata ai mezzi di cui dispone. Perché possa liberamente farne uso, invece di esserne usata. È il lavoro di una lunga preparazione, un lavoro da ostetrici, a cui nei gruppi Darsi Pace ci siamo appena accostati.
Amare alla fine di un mondo
Parte prima – La crisi della coppia come segno della svolta antropologica in atto | Guarda | |
Parte seconda – L’intensità della relazione cui aneliamo e la capacità di viverla | Guarda | |
Parte terza – Sciogliere le paure per aprirsi a nuovi livelli di coniugazione tra il cielo e la terra | Guarda |
Il vangelo? Il primo manuale di psicoterapia
Il primo indizio, per chi segue la liturgia quotidiana della Chiesa, è la lettura di giovedì scorso. Cristo (Luca 12, 49-53) dice: non sono venuto a portare pace sulla terra, ma divisione, “e in una famiglia di cinque persone tre saranno divisi contro due e due contro tre, si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera”. Il secondo (ancora Luca, guarda caso un medico, 12, 54-59), il giorno successivo: “Quando vai con il tuo avversario davanti al magistrato, lungo la strada cerca di trovare un accordo con lui, per evitare che ti trascini davanti al giudice (…) e ti getti in prigione”.
Tutto l’opposto dell’idea zuccherosa del bravo cristiano, buono e un po’ babbeo. A sfogliare il Vangelo, e a leggerlo con occhi moderni, sembra quasi che ciò che più prema a Cristo sia, non tanto una velleitaria fratellanza, ma l’invito ad accogliere i conflitti in cui è immersa la nostra vita. A cominciare da quelli con i nostri familiari, i nostri padri, le nostre madri. “Non opponetevi al male”, ci dice. Restateci dentro, insomma. Non tiratevi indietro, non ignorateli. Scavate nel vostro male. Guardate ai veleni delle vostre relazioni senza menzogne, senza maschere. Anche a costo di mettervi contro chi vi sta vicino, anche a costo di snudare la spada. E nel caso, non limitatevi allo scontro sterile, alla scenata fegatosa. Ma “accordatevi” con il vostro nemico, che è sempre un amico mancato, “accordatevi” con le vostre tenebre. Non nel senso del compromesso. Ma, come sottolinea una lettura del monaco MichaelDavide, nel senso proprio degli strumenti musicali, “accettando di tornare sui nostri passi e magari ricalibrando la tensione delle corde più intime del nostro cuore e della nostra mente insieme a quelle del nostro corpo, per ricercare un’armonia sempre possibile e sempre da ritrovare con pazienza”.
Che il cammino di fede non possa prescindere da un lavoro sul proprio inconscio, sulle proprie strutture psichiche distorte, l’aveva capito bene anche San Paolo, quando riconosce che in lui “non abita il bene”, che ha il desiderio del bene, “ma non la capacità di attuarlo” (Rm 7, 18): “Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio”, sintetizza in modo sconcertante.
Lavorare sui blocchi che ci paralizzano, sulle difese che ci portano ad agire in modo aggressivo, remissivo, sconsiderato, sapere ascoltare le parti malate senza rigidità, scoprirne le origini e liberarne la potenza distruttiva riconoscendole una a una, trascenderle e trasformarle nel talento che quasi sempre celano: questo ci dice in modo molto chiaro il vangelo. Meglio di un testo di psicanalisi.
Eppure, nella Chiesa, ma anche in tanti cammini spirituali pieni di buona volontà, il lavoro psicologico viene spesso ritenuto superfluo, quando non sospetto. Oppure accettato, ma come ambito del tutto scisso da quello propriamente spirituale: da una parte, insomma, una bella laurea in psicologia, dall’altra una mezzoretta di preghiera devota. O di meditazione buddista. Basta che tutto resti ben separato.
Il risultato, per chi guarda le cose con realismo, è spesso sconfortante. Capita, persino in religiosi dalla pratica costante e sincera, di avvertire manie di controllo che celano insicurezze infantili, pretese nevrotiche di perfezionismo spacciate per zelo, esaltazioni della sofferenza o della gioia che appaiono forzose, esasperate, prive di quel senso di liberazione che si trova nel linguaggio leggero del Cristo. Quando, in certi ambiti di fede, si accenna alla possibilità di affiancare alla preghiera un’indagine sull’inconscio, con un analista o magari con l’aiuto di qualche piccolo esercizio, ecco che scatta in automatico una barriera difensiva: un’alzata di spalle, uno sguardo sospettoso, un predicozzo che sa di scorciatoia.
Un pregiudizio, del resto, uguale e contrario a quello di molte persone che invece si muovono lungo il percorso della psicoanalisi o della psicoterapia, ma che guardano con sufficienza a una dimensione dell’anima più profonda. Una dimensione spirituale, appunto. Con il risultato che, a volte, la terapia libera effettivamente la persona dai blocchi che la tenevano legata, ma l’abbandona poi dentro deserti senza alcun orizzonte di senso e di speranza. Distruzione senza costruzione. Dunque, per certi aspetti, la lascia peggio di prima.
In questi giorni, dopo quasi ottant’anni di dinieghi da parte degli eredi, esce il Libro rosso di Carl Gustav Jung, il diario con cui il grande psicanalista svizzero testimonia il suo viaggio negli abissi della psiche. Un testo che si preannuncia straordinario: dove il cammino di ricerca dell’anima diventa un pellegrinaggio tra testi sacri, meditazioni, psicologia, letteratura, preghiere, sogni, archetipi e visioni folli che nulla escludono e tutto integrano, infischiandosene dei dogmi e puntando dritti alla potenza liberante dello Spirito. Senza la confusione in cui è scaduta la new-age, ma nell’atteggiamento creativo di San Paolo che invita a provare tutto ciò che serve per la nostra crescita scartando ciò che non serve, o di Sant’Ignazio che ci dice “todo modo”, tutti i modi sono validi se arrivano a Dio. Ecco, nell’esempio di un gigante del Novecento, la strada per una ricerca onesta e fruttuosa. Ma chi di noi ha davvero la voglia, la forza e il tempo per percorrerla fino in fondo?
Massimo Cerofolini
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