Quando raggiunsi il cuore dei misteri
era d’inverno, odioso vanto
delle tribù più vili; e lampeggiava
a tratti la dorsale
spina, nelle sinuose baie
del suo porto.
Mi minacciava
ovunque; ma fiorivo.
Come il cerbiatto
fugge sulla rupe
azzurro e cieco,
così
il moto delle fughe
mi centrò, e un fuoco
mi rifece l’occhio vuoto
per l’abbondanza delle tue cadute.
Marco Guzzi, Teatro Cattolico, 1991
Viviamo in un tempo di grande confusione e oscurità, nonostante le luci artificiali e i falsi movimenti che illudono chi resta in superficie.
Scarsi sono i richiami, gli appelli ad una crescita dell’umano: tutto sembra cospirare per renderci distratti, confusi, lontani da noi stessi.
Ci accomuna spesso uno ‘stare insieme’ tribale, fatto di riti collettivi mediatici e di sacrifici a idoli.
Poco di cui vantarsi, poca vitalità e energia “nell’oscuro distretto degli uomini” (Trakl).
Eppure basta un momento per raggiungere il cuore dei misteri.
È un’avventura che accade nella viltà, nell’umiliazione, nel gelo di quest’inverno della civiltà.
Accade nel corpo, lungo la spina dorsale, a lampi.
Con la minaccia di forze avverse e a rischio di spaventose aperture.
Un flusso di energia spirituale inonda la mia vita con una dinamica folle e precisa, un fuoco accende la nuova visione nell’occhio purificato dalle acque del cielo.
Questa visione mi dice emotivamente dove mi trovo, offrendomi delle tracce per proseguire il cammino.
Mi assicura che, nonostante tutto, inesorabilmente, fiorisce il seme della crescita.
Dove il mio io sa vedere solo la penuria, il finire, la morte, questa parola rivela abbondanza di vita, ricchezza di doni e di futuro.
Immagine: Alessandro Guzzi, Il luogo della cerva, 1991
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