Gentile Redazione, in quanto giovane uomo occidentale del ventunesimo secolo, sento sempre più forte dentro di me l’esigenza di un Senso; e più quest’esigenza si fa pressante, più l’altra faccia del Senso, il Nulla, il Non-Senso, mi spaventa con la sua possibilità.
Questa mia pendolarità interiore mi sembra si ritrovi pari pari nella società, in ogni sua manifestazione politica, culturale, massmediologica; ma con uno bilanciamento sconcertante a favore del Non-Senso.
In altri termini, sembra che oggi il mondo circostante, in molte sue manifestazioni roboanti e in definitiva dominanti, faccia a gara per convincere l’individuo che un Senso non c’è.
Celan (specie quello di Svolta del respiro) m’appare dunque un poeta profetico poiché, sebbene già morto da quasi quarant’anni, è molto in anticipo riguardo la consapevolezza media di questo crinale decisivo. Egli, che visse nel pieno del più devastante dramma umano d’ogni tempo, seppe mantenere accesa la fiammella della ricerca di Senso con la forza immortale dei suoi versi.
Dunque mi esorto, e nel far ciò esorto tutti, a prendere come esempio lo scrittore senza farsi scoraggiare dalla fine tragica dell’uomo. Benché infatti
l’uomo non abbia trovato la forza d’attendere, lo scrittore ha annunciato, o
perlomeno intravisto, quel tempo dopo questo tempo (che forse sta già cominciando), in cui la nuova umanità saprà darsi pace.
LA SVOLTA DEL RESPIRO
In Celan convivono misteriosamente due aspetti antitetici: da un lato il franamento dell’essere, dall’altro una costruzione di senso che proprio attraverso quel franamento giunge, in qualche modo, sino a noi. Mi sembra che tale duplice movimento, presente lungo l’intero arco della produzione del poeta, si esplichi più compiutamente nella raccolta intitolata Svolta del respiro, uscita nel 1967, tre anni prima del suicidio e appena antecedente all’abisso finale della disperazione.
Si tratta di 81 liriche divise in 6 sezioni, quasi tutte caratterizzate da una vertiginosa verticalità del tempo e da un incombente senso di tragedia. Se ci si sporge dal bordo dei testi, s’intravedono crepacci sconfinati, eonici, o un oscuro Nulla, oppure qualche luce troppo divina da sopportare. Ogni testo è un gradino, e ogni gradino va a comporre una scalinata sospesa sul Vuoto dell’essere, senza parapetti, senza appoggi e senza rete. Andare dietro Celan, seguirlo lungo le sue ineguagliate acrobazie verbali e concettuali, significa, letteralmente, rischiare di cadere assieme a lui. Nessuno di questi testi così vibranti, infatti, ci garantisce dallo zero su cui pendono; e men che meno garantisce una qualche certezza il poeta. Egli disarmato, denudato, arreso, esplora con le sillabe, e persino coi fonemi, i tenuissimi ponti orditi sul baratro dell’universo.
Ma è qui che la grande poesia si (e ci) riscatta: poiché da tale rischio sortisce, per contrasto e diremmo finanche per ribellione, per metafisica impennata, un nuovo senso, un nuovo modo d’intendere la vita: una svolta del respiro, appunto. Il poeta trattiene il fiato prima d’espirare un’inedita, sfolgorante possibilità. E giacché il passato reca quella terribile piaga da cui Celan non guarì mai – i campi di sterminio, i genitori strappati via, il senso di colpa – occorre rifugiarsi nel futuro, un futuro che, nell’istante in cui viene chiamato, è già edificato. L’incomparabile forza di denominazione di Celan fa sgorgare “i fiumi a nord del futuro” per sé e per chi, oggi come allora, sente di dovere e volere qualcosa di più della squallida recita quotidiana. “Vi sono melodie da cantare / al di là degli uomini” egli avverte. Ma al di là dell’uomo, in un mondo abbandonato da Dio (il quale è una sorta di sfinge ostile, benché forse esistente), sta ancora e sempre l’uomo, verso cui lo scrittore non smise mai, nonostante i crudeli disinganni subiti, di tendere.
Alcune parole chiave tornano ossessivamente nella raccolta, e sono: neve (supremo simbolo cèlaniano dello sterminio nazista), acqua (la neve infine sciolta?), pietra, nome, denti, dado (l’apparente insensatezza della storia), nuotare. Ecco: il poeta, quando non percorre i ponti sull’abisso, nell’abisso (“nell’insolcato”) nuota; quando non vola, si tuffa; quando crede di non farcela più, perde peso, conquistandosi una fatata rassegnazione e la leggerezza d’un sughero. Allora abbiamo sublimi movimenti ascendenti: “Con fame di chiarezza – così / salii il gradino / di pane, / sotto la campanella / per ciechi”; seguiti da paurosi movimenti discendenti: “Frumento di sonno, / una manciata, fuoriesce dalla bocca / che balbettando profetizza, / spirando incontro / ai conversari / di neve.” E ciò avviene perché in fondo, in questo straordinario poeta, salire significa scendere sempre un po’ più giù, mentre scendere, tolti i veli del Nulla e della morte, significa tornare a respirare, benché sotto la neve. Tale movimento pendolare (sorta di compenetrazione osmotica fra Bene e Male) fu la gloria e insieme la dannazione di Celan, sottoposto col passare del tempo a strazi mentali e spirituali intollerabili. E’ logico che la corda si spezzasse; nessuno può oscillare a lungo fra le talpe e le stelle. Forse soltanto Emily Dickinson ha scritto, negli ultimi duecento anni, poesie d’una brevità così densa, d’un buio così raggelante e abbagliante, poesie concepite sull’orlo, appena prima di: “La clessidra, sprofondata / nell’ombra delle peonie: / Se divalla, il pensiero, lungo / il taglio boschivo di Pentecoste, / a lui è dato finalmente quel regno / ove tu stai all’erta e t’insabbi.”
Ma Celan, anche nella più cupa delle angosce, non dimentica la propria umanità, ch’egli viveva a nervi scoperti; e spesso si rivolge a un tu. Non sappiamo se questo tu sia una donna, un amico, o un’altra parte di sé; e in fondo non importa. “Io è un Altro” proclamò Rimbaud già nel 1871, e la psicanalisi ha finito si svelarcelo. Ciò che commuove e stupisce è il tono accorato di Celan, il quale sembra chiamare a una decisiva presa di coscienza ogni lettore serio, ognuno di noi nel pieno dell’essere noi: “Il dare un nome ha una fine, / è su di te che io getto il mio destino.” Perché i tempi sono seri, drammatici e “Nessuno / testimonia per il / testimone.” Quel che ogni autentico poeta, anche il più solitario e criptico e autoreferenziale, ha sempre cercato è proprio un testimone, un orecchio in cui versare il senso che egli, a rischio della vita stessa, ha portato alla vita. E’ un senso fuggevole, fragile, caduco, un lampo nel conradiano cuore di tenebra; ma è anche lo smeriglio capace, con la sua sola esistenza, di sensare la notte. L’ultima lirica della raccolta è un meraviglioso esempio di dolorosa gioia, o di gioioso dolore: “Una volta, / m’accadde di udirlo, / lavava il mondo, / non visto, per tutta la Notte, / inconfutabile. / Uno ed Infinito, / annichilito, / ichilire. / E fu luce. Salvezza.”
Forse il messaggio più importante che possiamo trarre da Celan, così attuale da indurre allo sgomento, è il seguente: occorre un enorme coraggio per arrivare alla luce, ma alla luce non c’è alternativa.
Enrico Macioci
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