“Il lavoro dei nostri Gruppi è una sperimentazione, e quindi ha bisogno di continue verifiche. Le testimonianze di chi partecipa a questa avventura diventano perciò un elemento indispensabile per il confronto interno e per il dialogo con chi percorra cammini simili di liberazione.”
Barbara, un medico che ha scoperto il farmaco dello spirito
Cosa tra le cose
Ci capita a volte di sentirci come una cosa tra le cose. Succede a tutti. Ci capita di pensare che sono gli “altri” a decidere di noi e della nostra storia. Questi “altri”, visti di volta in volta come nemici, avversari, persecutori, competitori, appartengono al grande “altro” che è il mondo fatto di eventi esterni, di elementi “oggettivi” in cui ci perdiamo, dimenticando chi realmente siamo: esseri viventi “nel cui modo d’essere ne va dell’essere del mondo”, come scriveva Heidegger in Essere e Tempo.
Ora se c’è una cosa che unifica le diverse forme del costume, l’alta e bassa cultura, la rappresentazione stessa che la nostra società dà di sé è la “lagna”. Il nostro è un mondo lagnoso. Tutti si lagnano, chi del proprio lavoro, chi delle proprie relazioni, chi dei propri affetti. In politica come in fabbrica, negli affari come nella vita privata, la lagna regna sovrana. E alimenta il fantasma di un mondo totale, tra le cui maglie strette non c’è spazio per la responsabilità individuale. In questo mondo noi alternativamente ci nascondiamo, ci immedesimiamo, ci travestiamo, ci smarriamo. Quanto più poi il nostro io si irrigidisce, barricandosi in difesa, tanto più anche il mondo si consolida, divenendo quell’ “essenza irrigidita” di cui parlava Hegel.
Quando svolgo corsi di formazione per operatori sociali, o sanitari, penso che il mio compito sia anzitutto aiutare le persone a rientrare in contatto con se stesse, recuperando una realistica percezione di sé e della propria autonomia. A questa auto-nomia do appunto spesso il nome di “Responsabilità”. Noi siamo responsabili del mondo, anzi…io sono responsabile, di me e del mondo, io e nessun altro al posto mio. Non è un proclama opprimente, è un grido liberatorio! È il grido esultante di un Io che si riscopre libero, non più sottoposto “ai dominatori di questo mondo”. E che dunque risponde in prima persona alla domanda: “Dove sei?”…
RITORNO A SE STESSI
Rabbi Shneur Zalman, il Rav della Russia, era stato calunniato presso le autorità da uno dei capi dei mitnagghedim, che condannavano la sua dottrina e la sua condotta, ed era stato incarcerato a Pietroburgo. Un giorno, mentre attendeva di comparire davanti al tribunale, il comandante delle guardie entrò nella sua cella. Di fronte al volto fiero e immobile del Rav che, assorto, non lo aveva notato subito, quest’uomo si fece pensieroso e intuì la qualità umana del prigioniero. Si mise a conversare con lui e non esitò ad affrontare le questioni più varie che si era sempre posto leggendo la Scrittura. Alla fine chiese: "Come bisogna interpretare che Dio Onnisciente dica ad Adamo: «Dove sei?». "Credete voi – rispose il Rav – che la Scrittura è eterna e che abbraccia tutti i tempi, tutte le generazioni e tutti gli individui?". "Sì, lo credo", disse. "Ebbene – riprese lo zaddik – in ogni tempo Dio interpella ogni uomo: ‘Dove sei nel tuo mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?’. Dio dice per esempio: ‘Ecco, sono già quarantasei anni che sei in vita. Dove ti trovi?’".
All’udire il numero esatto dei suoi anni, il comandante si controllò a stento, posò la mano sulla spalla del Rav ed esclamò: "Bravo!"; ma il cuore gli tremava.
Qual è il senso di questa storia?
A prima vista ci ricorda quei racconti talmudici in cui un romano o un altro pagano consulta un saggio ebreo a proposito di un passo della Bibbia per mettere in luce una pretesa contraddizione nell’insegnamento di Israele, e riceve una risposta che dimostra l’assenza di contraddizione o che confuta la critica in altro modo, con l’aggiunta a volte di un ammonimento a carattere personale.
Ma non tardiamo a notare una differenza significativa tra i racconti del Talmud e questo chassidico, anche se questa differenza appare all’inizio più importante di quanto sia in realtà. La risposta infatti viene data su un piano diverso da quello in cui è stata formulata la domanda.
Il comandante cerca di smascherare una pretesa contraddizione nelle credenze ebraiche: nel Dio in cui credono, gli ebrei vedono l’Essere onnisciente, ma la Bibbia gli attribuisce domande analoghe a quelle che farebbe chiunque ignori una cosa e voglia apprenderla. Dio cerca Adamo che si è nascosto, fa risuonare la sua voce nel giardino e chiede dov’è; ciò significa che non lo sa, che è possibile nascondersi da lui: dunque Dio non è l’onnisciente.
Ma, invece di spiegare il passo biblico e risolvere l’apparente contraddizione, il Rabbi se ne serve solo come punto di partenza, utilizzandone il contenuto per rivolgere al comandante un rimprovero per la vita da lui condotta fino a quel momento, per la sua mancanza di serietà, la sua superficialità e l’assenza di senso di responsabilità nella sua anima. La domanda oggettiva – che, in fondo, per quanto qui sia posta senza secondi fini, non è però una domanda autentica bensì una semplice forma di controversia – riceve una risposta personale; anzi, invece di una risposta, ne risulta un ammonimento a carattere personale. Di queste repliche talmudiche non è rimasto apparentemente altro che l’ammonimento che a volte le accompagnava.
Ciò nonostante, esaminiamo il racconto più da vicino. Il comandante chiede chiarimenti sul brano del racconto biblico che riguarda il peccato di Adamo. La risposta del Rabbi mira a questo, a dirgli: "Adamo sei tu. E a te che Dio si rivolge chiedendoti: ‘Dove sei?’". Apparentemente non gli ha fornito nessun chiarimento sul significato del brano biblico in quanto tale. Ma in realtà la risposta illumina sia la situazione di Adamo nel momento in cui Dio lo interpella, sia la situazione di ogni uomo in ogni tempo e in ogni luogo. Infatti, non appena si renderà conto che la domanda biblica è indirizzata a lui personalmente, il comandante prenderà necessariamente coscienza della portata dell’interrogativo posto da Dio: "Dove sei?", sia esso rivolto ad Adamo o a chiunque altro. Ogni volta che Dio pone una domanda di questo genere non è perché l’uomo gli faccia conoscere qualcosa che lui ancora ignora: vuole invece provocare nell’uomo una reazione suscitabile per l’appunto solo attraverso una simile domanda, a condizione che questa colpisca al cuore l’uomo e che l’uomo da essa si lasci colpire al cuore.
Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo. Per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l’esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e persistendo sempre in questo nascondimento "davanti al volto di Dio", l’uomo scivola sempre, e sempre più profondamente, nella falsità. Si crea in tal modo una nuova situazione che, di giorno in giorno e di nascondimento in nascondimento, diventa sempre più problematica. E una situazione caratterizzabile con estrema precisione: l’uomo non può sfuggire all’occhio di Dio ma, cercando di nascondersi a lui, si nasconde a se stesso. Anche d
entro di sé conserva certo qualcosa che lo cerca, ma a questo qualcosa rende sempre più, difficile il trovarlo. Ed è proprio in questa situazione che lo coglie la domanda di Dio: vuole turbare l’uomo, distruggere il suo congegno di nascondimento, fargli vedere dove lo ha condotto una strada sbagliata, far nascere in lui un ardente desiderio di venirne fuori.
A questo punto tutto dipende dal fatto che l’uomo si ponga o no la domanda. Indubbiamente, quando questa domanda giungerà all’orecchio, a chiunque "il cuore tremerà", proprio come al comandante del racconto. Ma il congegno gli permette ugualmente di restare padrone anche di questa emozione del cuore. La voce infatti non giunge durante una tempesta che mette in pericolo la vita dell’uomo; è "la voce di un silenzio simile a un soffio", ed è facile soffocarla. Finché questo avviene, la vita dell’uomo non può diventare cammino. Per quanto ampio sia il successo e il godimento di un uomo, per quanto vasto sia il suo potere e colossale la sua opera, la sua vita resta priva di un cammino finché egli non affronta la voce. Adamo affronta la voce, riconosce di essere in trappola e confessa: "Mi sono nascosto". Qui inizia il cammino dell’uomo.
(Martin Buber, Il Cammino dell’Uomo, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose)
La torre
La “Torre” può rappresentare l’immagine della propria egoità, della propria struttura difensiva. Il lavoro in argilla che doveva essere ispirato alla corrispondente carta dei Tarocchi è stato, per me, un’esperienza ricchissima di significati, soprattutto perché è legato al lavoro psicologico che svolgiamo nei gruppi “Darsi Pace”.
Mentre modellavo la creta, avevo la nettissima impressione di compiere dei gesti simbolici, quasi rituali.
Già nella scelta del blocco d’argilla sentivo di essere guidato da qualcosa di più grande di me, sapevo che avrei dovuto usare quella quantità di creta, né più né meno.
Era infatti il bagaglio di talenti, eredità più o meno gradite, che mi era stato concesso di utilizzare nella mia vita e che dovevo far fruttare al meglio.
Così, dopo aver formato il “cubo”, forma di partenza, dalla quale, ognuno di noi partecipanti al corso poteva scegliere il tragitto personale, ho cominciato a rimuovere il “superfluo”, a togliere, cioè, dai lati tutto quel materiale che ritenevo zavorra, che impediva all’immagine vera della mia persona di configurarsi, di venir fuori.
Da ragazzo avevo visto, in Umbria, una torre in rovina a pianta pentagonale, che mi aveva lasciato una forte impressione, così avevo in mente proprio quella forma da prendere a modello, intuendo che il pentagono potesse avere un forte connotato simbolico.
Al pentalfa (stella a cinque punte con pentagono centrale) si attribuiva il potere magico di annientare le forze malvagie e mantenere l’uomo in buona salute. Pitagora lo considerava simbolo dell’armonia e della fratellanza e vedeva nel pentagono centrale il fulcro dell’armonia universale
Così alle geometrie corrispondenti ai segni di fuoco, terra, aria e acqua (rispettivamente il triangolo, quadrato, cerchio e pentagono).
Ero anche consapevole che, solo eliminando il materiale superfluo dai lati, la torre sarebbe apparsa troppo piccola, così avvertivo la necessità di utilizzare proprio lo scarto per formare la base, la roccia e i piani inferiori, sui quali si sarebbe potuta erigere la mia torre.
Era esattamente quello che avevo sperimentato nella mia vita, per cui tutto ciò che ritenevo superato, non veniva del tutto abbandonato, ma diventava il punto d’appoggio su cui poteva crescere la mia persona.
Particolarmente commovente è stato, per me, una volta raggiunta la giusta altezza della torre, la formazione della merlatura, il coronamento della struttura.
Anche i merli, infatti, li ho realizzati utilizzando materiale di scarto, inoltre ho cominciato a servirmi della fede, l’anello che, inizialmente, per lavorare meglio, avevo sfilato dal dito.
Era come se, con il matrimonio, avessi cominciato ad abbellire quella “costruzione” impenetrabile, severa, distaccata e fondamentalmente ostile.
Con la fede, infatti, ho sagomato le finestre/feritoie, primi tentativi di comunicazione vera col mondo.
Nel tentativo di difendermi dal mondo, visto come avverso, destabilizzante, mi ero realmente costruito una barriera animica dove poteva accedere solo ciò che mi era simile, o che ritenevo simile, omogeneo.
Non ero pronto alle contaminazioni.
Mentre continuavo il lavoro sulla torre sapevo già che avrei, però, dovuto occuparmi del portone, situato sul lato posteriore della struttura (rispetto alla pianta pentagonale, sulla base).
Inizialmente avevo pensato ad un ponte levatoio, poi, scartando l’idea, ho cominciato a scavare l’argilla, sempre con la fede. Mentre scavavo ho sentito l’esigenza di allargare quell’apertura più che potevo, per creare anche uno spazio interno alla torre, una grande sala vuota, ed ho immaginato la sala dei cavalieri della tavola rotonda o del santo Graal.
Per far ciò ho anche smesso di usare l’anello, per continuare solo con le dita, con le mie forze.
Al termine questa apertura ha assunto la forma di una grande vagina che si apriva nello spazio posteriore della torre e che si contrapponeva totalmente alla fisionomia ostile e chiusa della parte anteriore.
La torre, così, assumeva una doppia natura, la parte corrispondente al vertice del pentagono, rappresentava la difesa, la diffidenza, arroccata sulle rocce di un possibile promontorio o bastione scogliero, mentre la parte posteriore, collegata senza soluzione di continuità ad un’ampia strada, invitava all’accoglienza, alla comunicazione, allo scambio.
Perfino le pareti esterne della torre che, anteriormente erano ben dritte, rigide, avvicinandosi al lato posteriore, venivano incurvate e addolcite dall’enorme cavità dell’entrata.
“O tutto o niente!”, è stato il commento di Elisabetta Di Carlo alla visione dell’opera terminata, ed in effetti, è l’immagine della mia interiorità, che mi ha caratterizzato fino ad ora, e con cui dovrò sempre confrontarmi per crescere ancora.
Jung: la rivolta contro il non senso
E’ bello vedere la faccia sorridente del vecchio Jung che ci ripete che l’essere umano non può sopportare una vita senza significato.
E’ bello che ci parli di una reazione necessaria e possibile, di una nuova forma di rivolta.
Darsi pace infatti non significa affatto mettersi in letargo, lasciando che i predoni saccheggino il villaggio e uccidano l’anima dei nostri bambini.
Darsi pace implica una lotta senza quartiere contro la marea di non-senso che ci vorrebbe travolgere. Una lotta tanto interiore quanto storica e culturale.
Ed è bello farci accompagnare in questa fatica da chi ci ha preceduto, ricreare una catena di trasmissione della sapienza.
Invito perciò tutti gli amici e le amiche a indicarci citazioni e video di quei maestri che tuttora ci possono aiutare a contrastare l’impero della menzogna e della dissociazione mentale.
Il fuoco della vita
L’invito è a scegliere la vera visione, ad acquistare la memoria. Per farlo, devo sciogliere la rete (il web?) di pensieri e di parole alienate che mi opprimono, e non guardare. Se approfondisco un certo tipo di ascolto, nutrito di silenzio interiore, uscirò dallo stato di dimenticanza in cui normalmente sono rinchiusa e comincerò a ricordare, a vedere le cose da un nuovo punto di vista.
C’è un fuoco che divora tutto, fa piazza pulita di molte cose, di tutte le voci distorte che vogliono occupare il mio cuore….
E’ il fuoco della vita, che mi trascina via dall’ansa melmosa del fiume dove ristagnavo.
Lo squillo di salvezza chiama tutti a raccolta, ma come essere certa che, al di là degli smottamenti che invadono l’anima, questo spirito vuole donarmi consolazione e gioia?
Solo se sperimento la mancanza, e non mi accontento delle paternità che mi trattengono qui sulla terra….
Soltanto l’orfana esulta dagli scogli ed è capace di reale abbandono: la mano non trattiene, la bocca aperta al soffio della parola è il suo atto di fede e la sua beatitudine.
Scegli la vista e non guardare.
Sciogli la rete e acquista la memoria.
Fuoco!
Un fuoco che divora.
Consolerai la gloria dei viventi?
Il rullo dei fondali
è un cupo avvio.
Diluvia sul nero dei porti,
fa buche sull’arena, e il meridiano
squillo di salvezza
ci raduna.
Ma solo l’orfana esulta dagli scogli
soltanto l’orfana va incontro al padre
e la sua mano affonda
e la sua bocca affida.
Marco Guzzi, Il Giorno, 1988
Foto di Giulio Balestreri
La mia esperienza nei gruppi Darsi Pace
Da ormai 2 anni, questo è il terzo, partecipo a dei gruppi sperimentali di autoconoscimento e di iniziazione cristiana guidati da un laico, Marco Guzzi, poeta e filosofo. Mi viene chiesto di raccontare l’esperienza di questi gruppi, i contenuti e soprattutto il metodo che li anima, attraverso la forma di una testimonianza personale. Ed è bene che sia così, perché è un’esperienza in cui sono attualmente e fortemente coinvolto, e non riuscirei a raccontarla asetticamente.
Ma soprattutto perché credo che il modo migliore per farvi capire davvero di cosa si tratta, sia quello di raccontarvi cosa significa e ha significato per me. Quali effetti, quali benefici sulla mia vita. Allo stesso tempo, la mia presentazione ne risulterà necessariamente parziale e non esaustiva. Ma per chi fosse poi interessato ad approfondire ci sono un sito internet e soprattutto due libri – 2 manuali – scritti nel tempo per raccontare il lavoro di questi gruppi. Prima di cominciare il mio racconto, anticipo qualche brevissima coordinata. I gruppi si incontrano circa 2 volte al mese, la domenica mattina. Questi incontri costituiscono un percorso organico di tre anni che prende il nome di “Darsi pace”. Si svolgono presso l’Università Salesiana e vi partecipano persone molto diverse tra loro, credenti e non credenti, provenienti da mondi ed esperienze le più disparate. I gruppi “Darsi pace” sono iniziati circa 8 anni fa.
Per iniziare il mio racconto ho pensato di riprendere il primo appunto segnato sul mio diario spirituale, che ho cominciato a tenere dall’inizio del corso su indicazione precisa di Marco (e questa, se volete, è già una prima indicazione di metodo…). C’era scritto: “La pace vera scaturisce solo da un lento e continuo processo di trasformazioni interiori”.
Qui c’era già tutto, o comunque molto, dei motivi che mi hanno portato ad affacciarmi ai corsi di Marco Guzzi e che mi hanno poi conquistato. C’erano, infatti, in questa frase le mie due aspirazioni più profonde di quel tempo, due desideri, due aneliti, due bisogni allora ‘disperati’ e ‘disperanti’: la pace e il cambiamento, il cammino interiore.
Mi ricordo un episodio di 2 anni prima, era l’estate del 2003, in vacanza in Val di Funes con mia moglie, Maria Cristina, che aspettava la nostra seconda bimba, Elisa, mentre Giosuè, il primo, non aveva neanche 2 anni. Era sera e sui tavolini dell’albergo, in uno dei rari momenti di libertà – il piccolo dormiva – io e mia moglie parlavamo e ci confidavamo. Ed io mi ricordo che proprio lì espressi per la prima volta con lucidità e sofferenza l’inquietudine per la mia ‘immobilità’ interiore; per il fatto cioè che da tempo, ormai, nonostante la mia vita da cristiano dentro una comunità cristiana (la ‘migliore’ parrocchia di Roma, l’innovativa fraternità delle famiglie…) io non mi sentivo più crescere, mi sentivo ‘stagnare’, senza riuscire a venirne fuori. La vita cristiana, i cammini formativi, comunitari e personali, non mi formavano più. Ripensandoci ora, potrei scorgere in quella immobilità spirituale la prima manifestazione a me stesso di una morte emotiva, di un abbandono della vitalità, di una particolare ‘depressione’ che solo molti mesi dopo riconobbi con una evidenza non più aggirabile. Così come, molti mesi dopo, l’inquietudine si fece turbamento, il turbamento panico, il panico disperazione. Disperazione muta, morte interiore, sordità completa alla Parola di Dio.
Era scoppiata nel frattempo la vita. La nascita di Elisa. La stanchezza per la gestione di 2 bimbi piccolissimi. La crisi di mia moglie e con mia moglie. Nel ‘tunnel’ (come lo chiamavamo noi) avevo perso completamente la pace del cuore e non sapevo più dove cercarla. Nella fede? Nella preghiera? Nella Parola? Qui mi torna alla memoria un’altra immagine. In parrocchia, un pomeriggio di ‘fraternità’, condivisione per gruppi. Dico al mio parroco e a chi era nel gruppo con me all’incirca queste parole: “Cerco il volto di Dio e non lo trovo. Ho bisogno di lui per trovare la pace ma non riesco a trovarlo. La sua Parola è come fosse muta per me. Non tocca il mio cuore. E’ come se tra il suo volto e il mio ci fosse in mezzo qualcosa. Come se i miei problemi familiari si fossero messi davanti ai miei occhi e mi impedissero di guardare i suoi”.
In questa situazione che vi ho descritto, capite che il titolo di questi corsi – “Darsi pace” – mi sembrò come un oasi nel deserto. Al massimo rischiavo un miraggio. Trovai invece finalmente ristoro. E il primo ristoro fu che per la prima volta da tanto tempo riuscii a togliermi dalla testa e dal petto – per un solo secondo – il peso di tutti i miei pensieri. Attraverso le prime esperienze di meditazione avevo ricominciato a ‘respirare’ ed era come se fossi stato in apnea chissà quanto tempo. Un solo secondo di libertà, di leggerezza – grazie alla meditazione – è stato sufficiente per sperimentare che io ero di più dei miei pensieri, che c’era di nuovo uno spazio – anche solo uno spiffero – da dove poteva passare l’aria per respirare, dove si poteva forse intravedere finalmente lo sguardo di Dio.
E poi la ripresa del cammino interiore, il secondo ristoro. Dopo un anno di lavoro nei gruppi avevo scoperto in me così tante magagne (io che faticavo a trovare dei peccati per i quali confessarmi! Che ero sempre tanto bravo, ero ‘quello’ bravo) che avevo ora solo l’imbarazzo di scegliere da che parte iniziare a lavorare. Mi ricordo che pensai: è come avessi aperto finalmente la mia stiva e fossero usciti una marea di “topoloni”. C’erano anche prima, mi appesantivano, mi condizionavano, ma non li vedevo, non sapevo di averli con me. Ora non mi restava che rincorrerli – il cammino che cercavo…
Cosa si fa nei corsi – Il metodo
Da quanto avete sentito avrete capito o intuito che nei gruppi si fanno pratiche di meditazione (che nel corso del tempo diventano pratiche di preghiera) e si fa un lavoro di approfondimento psicologico personale. Terza cosa: si cercano chiavi interpretative per capire il mondo, il tempo, la storia. La mia storia, la mia crisi personale, anche la mia crisi di coppia, dentro la crisi più grande del mondo. Un racconto del mondo che ridà senso e speranza alla mia esistenza. (Qui c’è il Guzzi poeta e filosofo, che su di me ha un fascino indubbio ma se vogliamo più ‘scontato’, visto la mia formazione).
Qual è allora il metodo, l’idea dei corsi? Approfondire e integrare tre aspetti fondamentali e costitutivi dell’umano: il livello spirituale, quello psicologico-affettivo, quello culturale.
L’obiettivo: intraprendere un cammino concreto di maturazione integrale della persona, di ‘liberazione’ dalla condizione di alienazione che tutti viviamo (in quanto uomini in generale – per natura “non di questo mondo” – e in quanto uomini d’oggi, tempo di estrema alienazione). Questo cammino, questa lotta, questo ‘lavoro’ di liberazione e di trasformazione (in Cristo) dà la vera pace.
La strada di questo cammino, il punto di partenza e di arrivo, il ‘materiale’ di lavoro è il cuore dell’uomo, il cuore delle persone. Quest’ultima è un’altra indicazione di metodo importante. E’ il cuore con il suo palpito emotivo più profondo che dobbiamo porre prioritariamente al centro di ogni formazione. Se il mio cuore è ferito, pieno d’odio e di paura – e per giunta non ne sono consapevole – a cosa mi servono le parole anche belle sull’amore e persino su Dio?
Ma chi si prende cura oggi dei cuori, delle ferite profonde? Chi prende in braccio il bambino ferito che è in ognuno di noi? Eppure solo un cuore pacificato nell’amore e alimentato dalla gioia può compiere il bene e conoscere la verità.
Le ferite del cuore.
Tutto il lavoro di aut
o-conoscimento, di approfondimento psicologico è orientato a ‘riconoscere’ (a guarire ci penserà Qualcun altro) le ferite del cuore. Che sono profonde e precise, risalgono molto spesso alla nostra infanzia e sono all’origine di tutti i nostri mascheramenti, quelle strategie di difesa (e di attacco) che abbiamo imparato ad attuare fin da piccoli per fuggire il dolore e guadagnarci l’amore degli altri. Riconoscere e infine deporre queste maschere, liberandosi al contempo dalla loro ombra distruttiva, è l’obiettivo del lavoro di auto-conoscimento. Lavoro che si compie attraverso veri e propri esercizi – personali o di gruppo – mutuati dalla pratica psicoanalitica e riadattati al contesto, a volte reinventati.
Il livello culturale: tempo di crisi.
Su questo ho già detto qualcosa prima e non aggiungerò molto altro. Anche perché il lavoro culturale, pur facendo parte integrante del corso, può giovarsi anche del lavoro a casa sui testi, oppure della partecipazione alle conferenze su diversi argomenti. Qui mi limito allora all’idea fondamentale. Viviamo un tempo evidente di crisi, a livello planetario. Crisi di insostenibilità politica (le guerre, il terrorismo), economica, ambientale, culturale (nichilismi e fondamentalismi), religiosa ed esistenziale (la diffusione di ‘massa’ della depressione). Dentro questa grande crisi ci sono anche le nostre crisi personali, coniugali, familiari, parrocchiali, educative, ecc…
Tutto crolla ma non tutto è perduto. Tutto crolla perché in fondo deve crollare.
Evangelicamente: gli otri vecchi si spaccano perché servono otri nuovi per il vino nuovo. E’ un tempo apocalittico, dunque, quello che viviamo. Tempo di speranza, tempo di trasformazione, tempo cristologico: sta nascendo un’umanità nuova, un io nuovo, fondato su un’identità non più bellica ma coniugale. Dietro la crisi del matrimonio, ad esempio, si può leggere un desiderio di verità, di libertà e di intimità inauditi rispetto al passato.
Arriviamo quindi al livello spirituale. Il livello da cui tutto parte e tutto arriva. Qual è l’obiettivo dell’approfondimento spirituale? Un obiettivo concretissimo: diventare più liberi e più veri. Il lavoro spirituale nei gruppi è inteso come vero e proprio lavoro, una pratica nel senso letterale del termine. Il lavoro interire è cioè un lavoro pratico, materiale: assomiglia al lavare i piatti, al cucinare le patate. La pratica spirituale non è dare contenuti alla mente (intellettualizzazione delle fede o indottrinamento), ma cambiare la forma mentis – metanoia – vera conversione (mentale e non morale).
Qui c’è un’altra indicazione di metodo fondamentale: l’integrazione tra piani formativi e trasformativi. Se la formazione, tanto più quella spirituale, non è anche trasformazione e liberazione, non è la formazione che ci interessa, perché diventa inevitabilmente astratta. Esiste solo una conoscenza per trasformazione. Anche Dio, soprattutto Dio, lo conosco solo nella misura in cui divento Dio.
La meditazione-preghiera è proprio il ‘luogo’ dove facciamo la nostra esperienza di trasformazione. Il luogo dove entriamo in comunione col mistero del nostro io, dell’infinito che ci abita. Il luogo in cui ‘sintonizzarsi’ con la voce di Dio, con la sua Parola.
L’obiettivo dei corsi è quindi sviluppare un’attitudine meditativa frutto di una pratica meditativa quotidiana. Ritrovare la propria ‘centralità meditativa’, ‘areazione interiore’, una sorta di ‘monachesimo interiore’.
Ma come? Nell’esperienza dei gruppi si dà molto importanza al come della preghiera e della meditazione, normalmente trascurato nei percorsi tradizionali di catechesi e formazione. Si spendono molte parole sulla pratica – prima, durante e dopo ogni esercizio di meditazione – da un punto di vista teorico ma anche ‘pratico’, di condivisione dell’esperienza fatta. Questo fatto è di per sé una delle novità più grandi e caratteristiche di questi corsi. Ciò che ci accade quando chiudiamo gli occhi e facciamo silenzio non è lasciato al caso, ma è spiegato, raccontato, verificato, condiviso, sostenuto. Ed è particolarmente feconda a questo livello l’integrazione con il lavoro psicologico. Perché il lavoro di riconoscimento delle proprie emozioni, dei pensieri, dei meccanismi difensivi abituali, aiuta la mente a non farsi ingannare, a liberarsi dai condizionamenti. L’autoconoscimento psicologico delle nostre distorsioni profonde purifica la nostra vita spirituale, le dà corpo e concretezza, la aiuta ad incarnarsi. Senza paura di addentrarci nelle zone nascoste e remote della nostra mente, e della nostra storia, perché “per arrivare nell’alto dei cieli bisogna scendere al centro di noi stessi, bisogna passare per gli inferi”.
Darsi Pace: il piacere di ri-scoprire la passione per le persone
La parola Pace lascia sempre molto perplessi e fa scattare quasi sempre un pre-giudizio. Se poi troviamo scritto Darsi Pace allora più che ad un pregiudizio si finisce con il pensare ad un’invenzione pubblicitaria, uno slogan politico o ad un movimento religioso. Non è sempre così. Almeno non in questo caso.
DARSI PACE è uno spazio nuovo di riflessione – Oggi da più parti c’è l’esigenza di ri-trovare e di ri-appropriarsi di un nuovo spazio di riflessione dove la parola, il pensiero e l’azione ci rivelino di nuovo la bellezza del nostro essere uomini e donne a partire dalla complessità delle infinite relazioni che ci circondano. Dove finalmente si possa ritornare a parlare di una vita, che ha un suo senso, e una sua storia, che si intreccia insieme a quella degli altri e del mondo che abitiamo.
DARSI PACE è una chiave di lettura e un nuovo linguaggio – Trovare uno spazio nuovo non è sufficiente. Si avverte subito la necessità di una chiave di lettura per interpretare e capire la storia che viviamo tutti insieme e di un linguaggio nuovo per raccontarlo abbandonando quello “bellico” al quale siamo costantemente abituati.
DARSI PACE è uno stile – DARSI PACE diventa in questo modo un’attenzione e un’azione verso l’altro che si traduce in esperienza. E’ qualcosa che si tocca e si vede, è parte di noi una seconda pelle. Nasce e si alimenta nel confronto di idee, nell’approfondimento dei problemi, nella ricerca dell’innovazione. In questo senso Darsi Pace diventa uno stile, forse poco appariscente ma decisivo e incisivo .
DARSI PACE è una proposta di senso – E’ la scelta di vivere perennemente ad un crocevia tra ricerca interiore, psicologica e spirituale, creatività artistica e culturale, e prassi politica contenti di voler (e non dover) dare una risposta lì dove sta nascendo la nuova cultura del dialogo reale (il nostro quotidiano per essere chiari), una cultura che trasforma le persone, le culture e le tradizioni religiose.
Paura, un iceberg esplosivo
A Fiumicino un uomo di 78 anni accoltella una donna di 33 anni a causa di una lite per un posto auto. A Roma tre studenti insultano e picchiano un anziano per impedirgli di passare vicino a loro. A Milano un ragazzo di colore di 19 anni ucciso a sprangate per aver rubato un pacco di biscotti. Questi solo alcuni degli ultimi episodi di una cronaca quotidiana che scivolano ormai nella comune indifferenza.
Cosa sta succedendo? Il nostro non è più il Bel Paese?
Due killer, violenza e indifferenza, si aggirano indisturbati nelle nostre città.
Chi è il mandante? Quale l’emozione di fondo che le genera?
Una ricerca condotta dal Censis su un campione di 5000 persone di 10 megalopoli del mondo dà Roma come la città con il “più alto tasso di inquietudine esistenziale”.
Roma risulta la città più impaurita, più de Il Cairo, più di S. Paolo.
In effetti la paura appare oggi l’emozione dominante a tutti i livelli, colora i nostri discorsi e indirizza le nostre scelte. E’ come un virus letale, contagiosissimo, che sta attaccando un po’ tutti. Ma cosa genera tanta paura?
Occorre fare una diagnosi e trovare rapidamente una cura adeguata alla gravità della malattia, pena la sopravvivenza della stessa umanità.
Viviamo un tempo di rapidissime trasformazioni che suscita in noi smarrimento, senso di impotenza e perdita di controllo. Non abbiamo più una identità certa, punti di riferimento sicuri.
Ci sembra di essere come allo stato liquido, di vivere come su delle sabbie mobili, come sospesi su una lastra sottilissima di ghiaccio che può spaccarsi da un momento all’altro e farci precipitare in un abisso oscuro e pericoloso. Ci sentiamo fragilissimi, totalmente indifesi.
Tutto questo crea un’ansia libera e una paura generalizzata che cumulata nell’aria fa alzare la temperatura emotiva dell’ambiente che raggiunge così livelli esplosivi, ed esplode appunto nei fatti di violenza che la cronaca quotidianamente registra.
Quando la paura domina il sentire collettivo, infatti, viene meno la necessaria mediazione del pensiero e la paura viene agita immediatamente scaricando su un mostro/nemico esterno tutta la violenza di un’emozione divenuta incontenibile.
Oggi il passaggio all’atto sta diventando la modalità comune di agire; i pensieri, colorati dalle nostre emozioni vengono, sempre più frequentemente, agiti immediatamente senza essere pensati, divenendo sempre più spesso esplosivi.
I gruppi ‘Darsi Pace’ nascono come laboratori di ricerca, tentativo di dare senso al travaglio esistenziale della nostra epoca e accompagnare/assistere nel faticoso parto della nuova umanità che preme per nascere in ognuno di noi.
Nell’esperienza del gruppo la paura, ascoltata in una mente divenuta silenziosa attraverso la pratica meditativa, diventa non più un’emozione angosciante da cui liberarmi immediatamente esplodendo/attaccando, ma l’emozione risanante che mi riporta a casa, alla verità di me stessa, al ‘volto originale’ che ci accomuna tutti.
Quando riesco ad accogliere con un sorriso la mia paura mi rendo conto che ho una paura ma non sono la mia paura, che il mio Io è più ampio della mia paura e può contenerla e dialogare con essa.
Riesco a sentire la voce che dentro mi ripete continuamente “non temere”.
Riesco ad accogliere come un dono la mia paura e sentire cosa vuol rivelarmi di me, dove mi vuole condurre.
Posso riprendere contatto con il mio Vero Sé, e la mia bambina ferita, arroccata nelle sue difese, può sciogliere le lacrime congelate, l’iceberg di emozioni esplosive, ed aprirsi a relazioni di pace.
E questo ricominciando ogni giorno nella fedeltà alla pratica meditativa e al lavoro interiore, per costruire un mondo di pace.
Hanno Buddenbrook
«Questo è il giorno del Signore», disse così piano che tanto più forte suonò la voce del padre che lo interrompeva: «una recita si comincia con un inchino, figlio mio! E poi a voce più alta. Per favore, da capo! “Canto domenicale del pastore”… ».
Era una crudeltà, e il senatore sapeva bene che così toglieva al bambino l’ultimo residuo di sicurezza e di volontà di continuare. Ma il bambino non se lo doveva lasciar togliere! Non doveva farsi mettere in imbarazzo!doveva acquistare fermezza e virilità… «“Canto domenicale del pastore”!…» ripeté inesorabile e incoraggiante…
Ma per Hanno era finita. La testa reclinata sul petto, si teneva spasmodicamente aggrappato al broccato delle portiere con la manina destra, pallida, venata sul polso, che spuntava dalla stretta manica blu scuro alla marinara, ornata da un’ancora ricamata. «Sono solo nei vasti campi», riuscì ancora a dire, e poi fu la fine. […]
«Oh, bel divertimento!», fece il senatore, duro e irritato, e si alzò. «Perché piangi? Ci sarebbe da piangere al pensiero che neanche in un giorno come questo sei capace di trovare l’energia per darmi una gioia. Sei forse una femminuccia? Che sarà di te se vai avanti così? Hai forse l’intenzione di scioglierti sempre in lacrime quando dovrai parlare alla gente? …»
(Thomas Mann, I Buddenbrook, Parte VIII)
Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza. La de-composizione. Hanno ne incarna l’epilogo ultimo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Del resto il cortilegio di falsi valori si era già ridotta nel senatore Thomas Buddenbrook, padre di Hanno, a fragilissima scorza esterna, a maschera esteriore sotto cui si celava una ben più cupa disperazione, un pessimismo che non sapendo confessarsi a sé stesso, infieriva – come nel dialogo riportato – con incredibile crudeltà sul figlio. In Hanno poi esplode, rovesciandosi in morbosa ipersensibilità, autocommiserazione, totale inadeguatezza alla vita. E Hanno ne muore, sotto forma di disfacimento fisico prodotto dal tifo: «Così si manifesta il tifo: la vita chiama con voce inconfondibilmente incoraggiante nei lontani sogni febbrili del malato ardente e smarrito. […]. Ma se sussulta di paura e di avversione sentendo la voce della vita, se quel ricordo, quel gaio e provocante suono, gli farà scuotere la testa e tendere la mano dietro di sé per respingerlo e lo farà fuggire sulla via che si è aperta…no, allora e chiaro, egli morirà.».
Leggo e mi chiedo: che malattia è mai questa, che polarizza in noi le figure di Thomas e Hanno, di padre e figlio, di aguzzino e vittima di noi stessi? Cominciamo con l’accogliere la suggestione di Thomas Mann: questa è una malattia ereditaria, che si tramanda di generazione in generazione, come le maledizioni bibliche, fino a quando, sempre più virulenta, provoca la morte. Con questa malattia, insomma, non si scherza. Perciò la qualità di questa disperazione va capita a fondo, se vogliamo individuare la formula retro virale. Come Hanno, noi siamo “fragilissimi”: oscilliamo tra un nevratile equilibrio esterno difensivo e un’interiorità che lascia spazi sempre più ampi alla malinconia e alla depressione. Siamo, per così dire, una generazione di efficientissimi depressi, dediti di giorno a competere e sgomitare in nome della performance e dell’autoefficacia, in un mondo sempre più esigente e giudicante, e di notte a coltivare incubi di regresso verso il grembo delle nostre madri. Adulti irrigiditi e bellicosi in difesa di bambini rattrappiti nel terrore. Le ricette che vanno per la maggiore acuiscono, ahinoi, il male: non servono devozioni, fondamentalismi antichi e nuovi, brandelli di identità e certezze più o meno novecentesche a cavarci da questi impicci. Nel brano letto, non è forse una preghiera “cristiana” lo strumento di tortura in mano all’aguzzino?
Occorre forse stare in questa crisi. Essere, se possibile, più critici di ogni critica, più scettici di ogni scepsi, più atei di ogni ateismo. Scendere nel luogo stesso dell’assenza di Dio (e della sottrazione dell’Io) che è questa nostra intimità ferita. E in questo risalimento all’origine superare in regressione la psicanalisi, verso contenuti ancora più arcaici dei nostri dolorosi traumi. Lì troveremo il luogo (benedetto) della nostra integrità. Questa è la radice del nostro lavoro. E di ogni cura e (quindi) di ogni spiritualità.
La pazienza della crescita
A volte è difficile vedere un’evoluzione nella mia storia personale, una fioritura inscritta nel mio destino.
Anche nella storia dell’uomo sulla terra non sempre è evidente un processo di crescita, o, per lo meno, questo movimento evolutivo è molto lento e misterioso.
C’è la catena del sangue delle generazioni che grava e opprime, c’è tutto l’odio e la violenza del mondo. Di fronte alla realtà penosa e snervante dei miei fallimenti, e anche delle catastrofi storiche e collettive, di fronte alla fatica di mantenere viva la speranza che tutto alla fine andrà per il meglio, imparo a riscoprire il mio essere creatura, a vivere nel raggio di un’alleanza che mi salva.
Rinuncio all’io autonomo e alienato per affidarmi ad uno spirito materno, di consolazione, che accolga la mia fragilità e risani la ferita originaria che mi ha sfigurato, tessendo le fibre carnali di una nuova identità.
La fioritura è lenta, e molti mesi
scava la grandine sui tralci
i nervi consumati dal veleno.
Tu non guardare le mille cadute,
la piena del sangue dei padri
rimosso dalle fonti e dalle chiuse
e straripato a valle; tu non guardare
il toro che s’immola, e la platea
d’odio sugli spalti, guarda l’accenno
del primo volo, guarda la faccia
immersa nel lago, o Madre!
rimargina la piaga che m’ha inciso
il petto e putrefatto
il tempio, sanami il lembo
e dalla fibra tua
tessimi un velo
d’acque, a carnagione.
Marco Guzzi, Il Giorno, 1988
Foto di Sara Deledda
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